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Noah Howard: Music In My Soul
ByMusic in My Soul
Buddy Knife
148 pagg. - 18 euro
Tra le tante figure "minori" del free jazz [e l'aggettivo "minore" non vada inteso come giudizio, ma solo come constatazione oggettiva di popolarità e influenza], quella di Noah Howard, scomparso nel 2010 a nemmeno settant'anni, è ricca di interessanti spunti.
Specialista del sax contralto, debuttante nel 1965 per la ESP con un paio di dischi a proprio nome, "americano a Parigi" con molti colleghi nell'irripetibile biennio 1969/71 e stretto collaboratore di Frank Wright, si è trasferito agli inizi degli anni Ottanta a Bruxelles, gestendo uno studio e continuando una intensa attività di musicista e di esploratore sonoro.
Molto amato dagli appassionati di rarità e gemme nascoste free [cose come il notevole Black Ark in compagnia dell'irrequieto Arthur Doyle], poco prima della sua scomparsa Howard ha affidato ricordi e impressioni alle pagine di un'autobiografia, ora pubblicata da quella piccola e coraggiosa casa editrice tedesca che risponde al nome di Buddy Knife, già impegnata a pubblicare testi di Henry Grimes o William Parker.
Importante in questa operazione editoriale è stato anche il supporto della moglie di Howard, Lieve Fransen, che nella commovente postfazione ricorda i dolorosi giorni dell'improvvisa morte del musicista e che ha fortemente voluto che l'autobiografia venisse pubblicata.
Lo stile è semplice e diretto, non privo di qualche ripetitività, ma dotato di una naturale scorrevolezza che porta il lettore dall'infanzia a New Orleans alle prime esperienze nella West Coast, nel ribollente Lower East Side degli anni Sessanta e a Parigi, in Africa e in giro per il mondo. Sfilano così incontri e occasioni, aneddoti e riflessioni, Sun Ra e Archie Shepp, Han Bennink e Albert Ayler [musicista che insieme a Coltrane ebbe una grandissima influenza per Howard], un una vita accompagnata da una energia sempre dolcissima e contagiosa.
Forse gli studiosi più esigenti potrebbero rimanere un po' delusi dal poco spazio dedicato a riflessioni davvero puntuali sulla musica stessa di Howard e dei suoi colleghi - affidate principalmente a un breve capitolo conclusivo - e non manca l'aneddotica confortante e un po' autoreferenziale tipica di qualsiasi autobiografia ["Il tal musicista mi disse che adorava quello che facevo" e così via], ma il racconto è sempre piacevole e fornisce una testimonianza onesta e diretta di stagioni del jazz spesso banalizzate e sottovalutate.
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