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Südtirol Jazzfestival Alto Adige 2023

Südtirol Jazzfestival Alto Adige 2023

Courtesy Silvia Giovannelli

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Südtirol Jazzfestival Alto Adige 2023
Bolzano e provincia
Varie sedi
30.06—09.07.2023

Superati i quarant'anni di vita, il festival bolzanino è giunto ad un nuovo giro di boa. Dopo una casuale anteprima nel 1982 su un'idea di Nicola Ciardi, con un memorabile concerto del trio Codona all'interno di Bolzano Estate, fu l'anno successivo che partì "Jazz Summer," il festival vero e proprio sempre sotto la direzione artistica di Ciardi. Gli anni 2000 portarono alla denominazione "Jazz & Other," poi, dopo un breve periodo in cui la direzione fu condivisa fra Ciardi e Klaus Widmann, quest'ultimo prese la piena responsabilità del festival, che assunse il nome "Südtirol Jazzfestival Alto Adige." Nel recensire la passata edizione, concludevo dando la notizia ufficiale del ritiro di Widmann dalla direzione artistica, che sarebbe passata nelle mani di una triade di suoi più giovani collaboratori: Max von Pretz, Roberto Tubaro e Stefan Festini Cucco.

Analizzando la programmazione di quest'anno risulta abbastanza evidente come l'ombra lunga di Klaus si sia proiettata sulle scelte dei tre subentrati e che nelle grandi linee l'impostazione generale sia stata conservata. Innanzi tutto, come in passato il festival si è diffuso su tutto il territorio provinciale, anche con fini di promozione turistica, toccando Brunico e Merano, Bressanone e Fortezza, rifugi d'alta quota e abbazie storiche, parchi e jazz club... Per fare questo, con una prassi diventata ormai consuetudine sono stati replicati in varie sedi e orari alcuni gruppi ricorrenti, talora di più accessibile consumo, come il trio italiano Fat Honey o la giovane berlinese Kid Be Kid. Per quanto riguarda la provenienza delle proposte, si è continuato a rinunciare ai nomi americani (se si esclude la violoncellista guatemalteca Mabe Fratti), mentre ben rappresentate sono state le varie parti d'Europa, pur inserendo anche luoghi d'origine più lontani e anomali come la Corea del Sud di Sun-Mi Hong e di Yeore Kim. Una parziale ma attendibile impressione della gamma estetica previlegiata quest'anno dal festival la si può avere dal resoconto di alcuni dei concerti a cui ho potuto assistere dal 3 al 6 luglio.



Una presenza nuova e inattesa è stata appunto la batterista coreana Sun-Mi Hong, trasferitasi ad Amsterdam da una dozzina d'anni; il suo quintetto, rimasto invariato dal 2017, anno della sua fondazione, ha ormai tre cd alle spalle. Il suo primo concerto italiano era previsto al Parco Semirurali, ma per il maltempo è stato spostato all'Aula Magna della scuola Giovanni Pascoli, uno spazio invidiabile per capienza, arredamento ed acustica. Senza la minima amplificazione si è ascoltato un jazz organicamente strutturato, partito in sordina per approdare a collettivi più sostenuti, a temi complessi eseguiti dalla front line senza spartiti, a ripiegamenti e soste, a riprese di energia, a momenti di evocativo struggimento, a essenziali spazi solistici, a chiusure più o meno repentine. Se il delicato pianismo della coreana Chaerin Im ha portato linee melodiche di esplicita influenza orientale, la solida pulsazione del contrabbassista italiano Alessandro Fongaro e il drumming della leader, ben articolato e frastagliato, tutt'altro che effettistico, hanno sostenuto gli interventi dei due fiati: rotondo e pastoso, logicamente coordinato l'eloquio del tenorista Nicolò Francesco Ricci, anch'egli italiano, più insinuante, brusco, accidentato quello del trombettista scozzese Alistair Robert Payne.



La mattina seguente, in un claustrofobico tunnel del Bunker H—un labirintico rifugio antiaereo scavato nella viva roccia dai tedeschi nella seconda Guerra Mondiale -Sun-Mi Hong e il "suo" trombettista Alistair Robert Payne hanno intrapreso uno dei loro abituali duo. In questa location inedita, "incredibile e terrificante" l'ha definita Payne, si è sviluppata un'improvvisazione prevalentemente meditativa, colloquiale, salvo accendersi in prolungati sussulti. Da sottolineare il crepitante e nitido lavoro sulle pelli della batterista ed in particolare la sua sensibilità nell'uso della grancassa.

Al SJF Base Camp, il main stage bolzanino, abbiamo ritrovato la Hong e Payne anche nel quintetto cosmopolita diretto dal chitarrista danese Teis Semey, non a caso residente anch'egli ad Amsterdam. Si è configurato un jazz attuale, propositivo, senza elettronica, in cui i temi del leader, eseguiti sempre senza l'ausilio di spartiti, hanno presentato una cantabilità ora decisa e ben scandita, ora più distesa, quasi da colonna sonora. Agli intenti narrativi di Semey sono risultati funzionali il pizzicato asciutto del contrabbassista olandese Jort Tervijn e l'altrettanto compatto fraseggio del contraltista portoghese José Soares, oltre all'apporto dei già citati Hong e Payne, che hanno confermato le loro doti. Anche il chitarrista-leader si è ritagliato alcuni fragorosi assoli, ma i momenti più apprezzabili sono risultati i collettivi su tempi sostenuti, in cui le varie voci si sono intrecciate con grande sintonia, raggiungendo un sound di esuberante pienezza.



Al jazz club di Ca' de Bezzi, intorno alla mezzanotte, si sono ascoltate alcune proposte "forti" nella concezione come nella partecipazione esecutiva. Il trio Don Kapot, attivo da anni con base a Bruxelles, persegue una compattezza massima, senza ripensamenti, costruita su temi-riff a volte ludici, di candida banalità. L'imperterrito procedere del basso elettrico del greco Giotis Damianidis e il drumming spietato, decisamente punk-rock, di Jakob Warmenbol sostengono la sonorità possente del baritono di Victor Perdieus, all'occorrenza anche tastierista, armonicista e flautista. A Bolzano il trio era affiancato da Fulco Ottervanger (tastiere, chitarra e voce), che ha aggiunto squarci di suono lancinante e traslucido, pertinenti ma tutto sommato non indispensabili al messaggio già coeso e denso della formazione base.

Rock radicale ed estremo, d'indubbia efficacia, potrebbe essere definito il linguaggio del trio Kry, formatosi a Vienna nel 2019, ascoltato sempre al Ca' de Bezzi. Le ben scandite partiture son state tradotte con comunione d'intenti, con foga e deformazioni sonore dai tre congeniali comprimari: la clarinettista irlandese Mona Riahi, dalla pronuncia fortemente distorta elettronicamente, e i suoi partner austriaci, il volitivo bassista elettrico Philipp Krienberger e il perentorio batterista Alexander Yannilos.

Lo scatenato trio francese Nout, tutto al femminile, nel concerto serale al SJF Base Camp si è avvalso dell'inserimento dell'ospite Mats Gustafsson. In alcuni episodi il loro messaggio è parso equiparabile a quello di Kry: su strutture semplici e ossessive tutto si è concentrato su un sound imponente e stratificato, con l'arpa di Rafaëlle Rinaudo che sembrava mimare un basso elettrico, il flauto e la voce di Delphine Joussein che producevano bordate sonore monolitiche, il drumming di Blanche Lafuente forse più prevedibile nelle sue scansioni tonitruanti, ed ovviamente gli ineludibili contributi di Gustafsson con la sua consueta, ruvida concretezza. Quasi in contrapposizione a questa esibizione di un'energia insopprimibile, in altri brani o fasi è prevalsa una certa "normalità" acustica: i flauti della francese e dello svedese si sono intrecciati in un fraseggio più pacato e leggibile, l'arpa ha emanato linee cristalline, mentre la batteria ha per lo più taciuto. Una proposta pressante e originale quindi, basata su contrasti antitetici, su eccessi, che però rischiano di diventare un espediente sistematico, quasi una formula.



Sempre il main stage bolzanino ha ospitato il Gard Nielssen Acoustic Unity, d'impronta canonicamente free. Il collaudato trio scandinavo ha affrontato temi dal marcato impianto melodico, con un occhio al folklore nordico; il contrabbassista Petter Eldh e il notevolissimo leader alla batteria hanno intessuto una ritmica determinata, affermativa, nodosa, di supporto al fraseggio del sassofonista Kjetil Møster, un po' statico al baritono e al clarinetto nei brani lenti, più convincente al tenore sui tempi sostenuti, producendo sonorità screziate e un incedere più turbolento e risoluto. È risultata una musica tonica, senza fronzoli, incalzante, anche se un po' uniforme e prevedibile. Va detto però che il loro concerto è stato purtroppo disturbato da un temporale che per tutta la durata dell'esibizione si è abbattuto sul tendone allestito nel Parco dei Cappuccini: una struttura che, in piccolo, può ricordare lo storico tendone del festival di Saalfelden negli anni Ottanta-Novanta. D'altra parte quest'anno il maltempo è stata una presenza abbastanza costante nella prima metà del Südtirol Jazzfestival.



A Fié allo Sciliar, in un accogliente maso ristrutturato, Dan Kinzelmann, un americano ormai diventato italiano d'adozione, dopo tre giorni di prove ha intrecciato un inedito duo con Ruth Goller, originaria di Bressanone ma residente in Inghilterra. I comprimari hanno concepito una parabola basata su un paio di temi scritti dall'uno o dell'altra, lasciando largo spazio ad una prudente improvvisazione. Alternandosi al tenore, al clarinetto e al clarinetto basso, ricorrendo a tratti alla respirazione circolare, il sassofonista ha tracciato linee sinuose, note lunghe ora suffuse in un soffio, ora esasperate in grida strazianti, mentre la bassista si soffermava su riff o frasi ossessive. L'uno e l'altra, oltre a fare un uso moderato delle possibilità deformanti dell'elettronica, soprattutto nei passaggi obbligati hanno coniugato le loro voci in un canto apparentemente senza speranza. Ne è risultato un percorso denso, introspettivo, prima di stemperarsi in un'ambigua lontananza, in accenti in parte rasserenati nel canto finale su testo della Goller.



Nell'ultima serata della mia permanenza a Bolzano si sono susseguite le proposte di due trii, fortemente caratterizzate e analoghe, anche se solo sotto il profilo timbrico. Formatosi nel 2021 a Trondheim, il giovane trio LAV SOL ha esposto un tracciato radicale, di difficile classificazione: un flusso sonoro continuo e frastornante che è transitato attraverso diverse fasi dinamiche. Il sound della tuba di Heiõa Kerine Jóhannesdóttir, quasi sempre mutato dall'elettronica in un bagliore alonato, affiancava le nuances ora riverberanti ora puntillistiche delle tastiere ed altri mezzi elettronici di Håvard Aufles, mentre assolutamente disarticolati erano gli interventi del batterista August Glännestrand, salvo quando le persistenze sulla sua grancassa producevano un volume che sovrastava gli interventi dei partner. Una musica elettronica improvvisata quindi che lascia intravedere non tanto un centro preciso o un disegno costruttivo, quanto una sequenza di situazioni diverse, di agglomerazioni e diradamenti.



Di seguito è salito sul palco il ben rodato trio berlinese BOBBY Rausch. In questo caso ci si è trovati di fronte a un tragitto del tutto predisposto nei temi, come nell'aspetto melodico e ritmico. Quest'ultimo era scandito dal granitico e metronomico drumming di Nico Stallmann, seduto al centro della scena, mentre ai suoi lati il sax baritono di Oleg Hollmann e il clarinetto basso di Lutz Streun hanno esposto all'unisono temi ben congegnati e avvolgenti, per poi scambiarsi i ruoli di solista e accompagnatore. Anche in questa proposta la valenza determinante è risultata la sonorità dei due fiati, che era filtrata, raddoppiata, riverberata e stratificata dall'elettronica, oltre che molto amplificata.



Dai vari gruppi ascoltati, indubbiamente espressione di tendenze in atto nel panorama europeo e di attivi centri di produzione e scambio di esperienze, si possono trarre alcune sintetiche conclusioni. È evidente che le proposte descritte si sono sempre tenute distanti dal linguaggio jazzistico mainstream, come dalle alchimie sonore dell'improvvisazione radicale più rigorosa. Molti dei gruppi, prevalentemente giovani, erano accomunati invece da una componente elettronica prevalente, anzi determinante, e da una decisa derivazione dall'ambito punk-rock e hip hop. In particolare, si è spesso fatto ricorso ad un'alterazione parossistica del sound degli strumenti a fiato, con risultati per lo più convincenti. A tale proposito si potrebbe ricordare un precedente illustre come il varitone della Selmer, sperimentato soprattutto negli anni Settanta da molti sassofonisti: basti citare Lou Donaldson, Michael Brecker... perfino Lee Konitz. Un altro aspetto ricorrente, che da anni rappresenta una tendenza serpeggiante nelle esperienze internazionali di vari generi musicali, è l'uso della voce: non un canto virtuosistico secondo i canoni della musica classica, jazz, folk o pop, ma piuttosto un'esternazione, individuale o collettiva, dall'impronta scabra, anti-virtuosistica, introversa, comunque rivelazione di una precisa esigenza comunicativa ed espressiva.

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