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Alessandro Giachero: consapevolezza e ricerca

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Il compito degli artisti—e dei musicisti in particolare—è quello di vivere la propria creatività con onestà e verità, esprimendo il proprio mondo interiore con la consapevolezza che l'arte va sviluppata e la ricerca è alla base di questo sviluppo
Pianista, compositore, improvvisatore, didatta, Alessandro Giachero è tra i musicisti più interessanti e originali del nostro Paese. Dopo aver assistito a un suo splendido concerto per piano solo e in occasione dell'uscita del primo disco della sua più recente formazione, l'ensemble Sonoria, lo abbiamo intervistato per conoscere meglio il suo percorso artistico e il suo modo di vivere la musica.

All About Jazz: Alessandro Giachero, un piemontese ormai trapiantato in Toscana...

Alessandro Giachero: Sì, ci vivo dai primi anni 2000, ma sono nato ad Alessandria ed è lì che ho fatto i miei studi di conservatorio. Poi nel 1997 mi sono trasferito a Leeds, in Inghilterra, frequentando il College of Music, dove ho studiato improvvisazione e dove si facevano commistioni tra musica contemporanea e jazz, molto interessante e all'epoca senza eguali in Italia. Dopo quell'esperienza ho frequentato vari corsi con Stefano Battaglia e, tornando in Italia, ho prima vissuto a Perugia e poi, nel 2002, mi sono stabilito a Siena, dove ho iniziato a collaborare con Siena Jazz, della quale adesso sono coordinatore didattico del triennio universitario e insegno tecnica dell'improvvisazione al triennio e pianoforte ai corsi preaccademici.

AAJ: Personalmente ti ho scoperto qualche anno più tardi, con il fulminante ascolto di Riflessi, disco improvvisato che pubblicasti nel 2005 con T.R.E., il trio che hai assieme a Stefano Risso al contrabbasso e Marco Zanoli alla batteria. Come sei arrivato a quella formazione e a quel lavoro?

AG: Proprio attraverso i laboratori con Battaglia, che all'epoca seguivamo tutti e tre: Stefano e Marco suonavano con lui in un laboratorio sul piano trio, io seguivo quel corso e quello per pianisti, così ci siamo conosciuti; erano uno di Torino e l'altro di Varese, per cui era abbastanza agevole trovare il modo di suonare assieme o quando loro venivano a Siena, o quando io tornavo ad Alessandria a trovare i miei parenti; così per due o tre anni abbiamo fatto un gran numero di prove molto intense che, grazie alla comune concezione della musica, ci ha permesso di sviluppare e cementare una forte intesa.

AAJ: Tanto che, se non sbaglio, il gruppo è sempre in piedi.

AG: Esatto, dopo circa diciotto anni siamo ancora attivi, quindi siamo ormai un gruppo molto longevo, e questo grazie sia alla medesima concezione della musica, sia al fatto di averla sviluppata in modo molto omogeneo: tutti e tre scriviamo, per cui ci siamo sempre scambiati materiali per svilupparli assieme. Infatti ogni disco che abbiamo fatto è sempre stato incentrato su un progetto preciso: il primo, Passaggi, metteva semplicemente in scena le nostre composizioni di allora; il secondo, Riflessi, era invece interamente improvvisato, in considerazione del fatto che l'improvvisazione è sempre stata un momento centrale del nostro lavoro; poi nel corso degli anni abbiamo fatto ancora un disco di composizioni originali, Viaggio, poi uno doppio che affiancava standard molto destrutturati e composizioni nostre, Lyrics, e infine uno—ancora una volta doppio—con Stefano Battaglia ospite, Horo. Quest'ultimo lavoro in realtà dovrebbe essere il primo di una trilogia nella quale dovremmo ogni volta "raddoppiare" uno degli strumenti: abbiamo iniziato dal pianoforte, cosa più semplice e immediata visto il rapporto che tutti e tre abbiamo con Battaglia, ma l'intenzione è proseguire con altri due dischi che avranno come ospite uno un contrabbassista e l'altro un batterista.

AAJ: Mi pare sia però un po' di tempo che non pubblicate nuovi lavori.

AG: Sì, Horo è uscito ormai sei anni fa, ma in realtà siamo piuttosto prolifici e abbiamo già registrato materiale per altri due dischi, che non dovrebbero tardare troppo. E comunque nel frattempo abbiamo prodotto altri progetti, ampliando la formazione e firmandoli individualmente: Passio a mio nome, Symbiosis a nome di Marco Zanoli.

AAJ: Fate comunque sempre una musica particolare, non necessariamente difficile ma certo non scontata; a mio parere siete uno dei trii pianistici più interessanti del nostro paese, ma proprio per questo tocco un tasto dolente: riuscite a suonare?

AG: Poco, purtroppo. Lasciando da parte il periodo drammatico di clausura che abbiamo passato ultimamente, in generale abbiamo difficoltà a proporci, a inserirci nel circuito dei festival. Spesso le scelte artistiche sono vincolate da una parte al richiamo del pubblico—con la necessità di organizzare concerti con i cosiddetti "nomi," indipendentemente poi dalla qualità della proposta—e dall'altra a non "disturbarlo" troppo—proponendo cioè una musica che sia riconoscibile, non faccia pensare molto, non necessiti di troppa attenzione. Quindi, in sostanza, si privilegia l'intrattenimento rispetto all'arte. Questa confusione va avanti da anni e ormai sta creando una forte chiusura, creativa e artistica, del circuito.

AAJ: Purtroppo è un discorso ricorrente, forse perché la mia attenzione va soprattutto a musicisti che propongono musica meno etichettabile.

AG: Capisco che ci sia anche un problema di mercato—chi organizza investe del denaro e ha necessità di riempire i teatri e le piazze—ma quando questo invade l'espressione artistica, lo sviluppo stesso dell'arte, penalizzando i tanti musicisti che propongono cose diverse e innovative, allora si produce un cortocircuito: per soddisfare l'aspetto economico si rende impossibile l'evoluzione e il rinnovamento dell'offerta. La quale dovrebbe essere artistica, non di intrattenimento; ma un'offerta artistica deve anche assumersi il rischio di non piacere: fa parte del gioco dell'arte che non tutto piaccia a tutti e senza questa sua parte il gioco diventa appunto semplice intrattenimento. Cosa che magari è accettabile nel pub o nel localino, ma non nei festival, come oggi sovente accade. Spesso il largo consenso nasconde appiattimento o, peggio ancora, compromessi dal punto di vista artistico. Essere e rimanere coerenti con il proprio lavoro e con sé stessi non è sempre facile, ma è la condizione necessaria per esprimersi nel modo più sincero e vero possibile e, quindi, per lo sviluppo stesso dell'arte. Comunque io vado avanti con il mio lavoro, con la massima concentrazione sulla mia crescita artistica, volendomi esprimere sinceramente, con onestà, senza compromessi espressivi o di convenienza.

AAJ: Chiudendo la parentesi su questo problema ormai epocale e tornando alla tua personalità artistica: dopo gli studi in conservatorio, come sei uscito dall'universo della classica? Ammesso e non concesso che tu ne sia proprio "uscito..."

AG: In un modo piuttosto curioso: finito il conservatorio mi sono accorto a un certo punto che non sapevo suonare il pianoforte senza uno spartito davanti. Fin lì in effetti non mi ero interessato molto al jazz e all'improvvisazione. Quando mi ci sono avvicinato, la scoperta di essere incapace di usare lo strumento senza il filtro dello spartito mi ha mandato completamente in crisi: com'era possibile? Cos'era che non stavo sviluppando? Ho allora iniziato a cercare di capire: anzitutto interessandomi a quella corrente pianistica che parte da Bill Evans e prosegue con Paul Bley e Keith Jarrett—rimasti poi i miei modelli di riferimento—un'attrazione probabilmente dettata proprio dalla mia formazione classica, anche se devo dire che di Jarrett ciò che mi ha più influenzato non è lo Standard Trio, ma i due quartetti, quello europeo e quello americano, mondi musicali diversissimi tra loro, ma entrambi estremamente ricchi e affascinanti. In questa mia ricerca ho poi frequentato Arrigo Cappelletti, grandissimo pianista largamente sottovalutato e profondo conoscitore di Paul Bley, che mi ha fatto scoprire molte cose. In seguito, come dicevo prima, sono andato a studiare in Inghilterra, iniziando a studiare e apprezzare il jazz nordeuropeo, conoscendo Esbjorn Svensson, Bobo Stenson e Jon Balke, e poi ho incontrato Stefano Battaglia. Abbracciando la visione musicale di questi artisti di riferimento, ma non buttando via il mio passato classico, ho cercato di sviluppare una mia personale poetica, che coniugasse il jazz, l'improvvisazione e la tradizione classica.

AAJ: In questo senso alcune delle cose che hai fatto sono decisamente emblematiche: penso in primo luogo a Passio, che hai pubblicato nel 2015 con il tuo Ensemble, nel quale la commistione dei diversi generi musicali è palese.

AG: Infatti, perché in quel caso l'amalgama inizia fin dall'organico della formazione. L'idea era scrivere per un gruppo più ampio del trio e avere un suono più vicino alla musica da camera, ragione per cui c'è un quartetto d'archi "modificato"— il flauto di Antonio Santoro che raddoppia il violino di Eugjen Gargjola, accanto alla viola di Maria Vicentini e al violoncello di Silvia Dal Paos—accanto a una ritmica d'estrazione jazz, che è poi quella di T.R.E., vale a dire Risso e Zanoli, dei quali ero assolutamente sicuro della visione musicale. Per quest'organico ho operato così come si fa nella composizione classica: infatti è un lavoro molto scritto, nel quale anche le parti improvvisate sono derivate dal materiale scritto. Si tratta in fondo di quel che sto sviluppando anche in questo periodo, quando scrivo e cerco di sviluppare delle idee che derivano dalle mie ricerche sui parametri musicali, armonia-melodia-timbro-ritmo, singoli oppure attraverso l'unione di due o più parametri, e soprattutto non ponendomi limiti nell'uso di questi materiali. Trovo limitante non usare forzatamente un certo tipo di armonia, o di ritmo, o di melodia, perché in questo momento storico riprendere tutte le tradizioni che si sono sviluppate e farle filtrare dalla mia sensibilità attraverso la scrittura o l'improvvisazione mi sembra il modo più completo di essere un artista. Ad ogni modo, spesso nelle mie composizioni le sezioni improvvisate sono basate sul materiale delle parti scritte, a volte narrativamente in continuità, a volte in contrasto con la sezione precedente.

AAJ: Sviluppare delle idee dalle tue ricerche sui parametri musicali: è un po' l'impressione che mi ha fatto Sonoria, la formazione della quale è appena uscito il primo disco, Live in Pisa, e che avevo ascoltato dal vivo proprio in occasione della registrazione, al Fonterossa Day organizzato da Pisa Jazz e Silvia Bolognesi nel 2019. Un lavoro, mi pare, largamente basato sulla ricerca timbrica, a momenti estremamente raffinata; una ricerca che qui diventa il cuore pulsante del progetto, ma che mi pare presente un po' in tutti i tuoi lavori, inclusi i dischi di T.R.E. e il tuo stesso piano solo.

AG: Sì, sono le due anime che voglio portare avanti, scrittura e improvvisazione totale: con Sonoria ho mediato con la ricerca timbrica la loro convergenza, proponendo ai musicisti di definire dei percorsi di ricerca attraverso partiture grafiche, nelle quali oltre alla timbrica si cercava di sviluppare la comunicazione tra i musicisti. Infatti in alcuni momenti del live si possono ascoltare interazioni particolari—per esempio il pianoforte preparato che sviluppa alcuni suoni e il sax che lo insegue con opportune note—che sono improvvisate, ma che al tempo stesso sono "previste": abbiamo lavorato per definire le condizioni di possibilità di certe relazioni tra suoni e nel corso del concerto abbiamo colto le occasioni che si sono presentate per esprimerle. Questi due elementi musicali—la timbrica e la comunicazione tra i musicisti—li abbiamo sviluppati, come dicevo, inizialmente grazie a partiture grafiche, in seguito assimilandole, mentre adesso, dal vivo, ne costruiamo le forme mentre le suoniamo.

AAJ: Una cosa che mi ha impressionato molto è che i tuoi tre compagni—Cosimo Fiaschi al sax soprano, Emanuele Guadagno alla chitarra e Nicholas Remondino alla batteria—sono tutti giovanissimi, suonano i loro strumenti in modo decisamente atipico e non convenzionale e hanno una padronanza tecnica spettacolare. È davvero sorprendente ed entusiasmante vedere dei musicisti di quell'età fare cose così complesse con tale naturalezza, segno di un lavoro anche didattico e laboratoriale davvero notevole. Io sono rimasto incantato da Fiaschi per il modo creativo in cui usa il soprano, ma è solo per la mia particolare propensione verso quello strumento, perché anche gli altri sono straordinari.

AG: In effetti anch'io sono entusiasta della loro crescita: erano tutti e tre studenti del triennio di Siena Jazz quando—cogliendo un interesse a sviluppare maggiormente l'improvvisazione—proposi loro questo progetto. In questi anni di studio e di lavoro hanno raggiunto una maturità e una consapevolezza veramente rara. Tutti hanno sviluppato delle proprie caratteristiche timbriche molto complesse, come lo studio dei doppi suoni di Cosimo, che li esegue con una facilità impressionante, oppure l'uso della pedaliera di Emanuele, che ha sviluppato le possibilità timbriche della chitarra, e la ricerca sull'affiancamento dell'elettronica alla batteria fatta da Nicholas. Tutto accaduto spontaneamente, senza forzature, a dimostrazione da un lato che bisognerebbe avere maggiore attenzione verso i giovani artisti (e anche verso i meno giovani) per lo sviluppo della musica creativa in Italia, dall'altro che spesso i musicisti italiani sono altrettanto maturi e creativi di quelli che provengono da altre parti del mondo, se non di più. Questa naturalezza nello sviluppare sé stessi sia singolarmente, sia all'interno del gruppo, ha creato quell'alchimia—non facile e non scontata—che in pochi anni ci ha permesso di concretizzare il lavoro in alcuni concerti importanti e soprattutto nella realizzazione del primo disco. Infatti abbiamo avuto una bella accoglienza sia al Victoria di Oslo, un po' il tempio di quel tipo di suono, sia da parte della Evil Rabbit Records, etichetta tedesca molto conosciuta nell'ambito dell'improvvisazione e dello sviluppo delle nuove musiche, che ha pubblicato il disco. Nella primavera del 2021 uscirà anche un secondo lavoro, sempre per la Evil Rabbit, nel quale questa volta abbiamo lavorato, con la stessa logica del primo disco, su brani più contenuti. Mi auguro che il progetto vada avanti, compatibilmente con il periodo e con quel che dicevamo prima riguardo alla diffidenza per un certo tipo di musica.

AAJ: Un'altra cosa cui ti dedichi con passione è il piano solo: ho avuto modo di assistere a un tuo concerto pochi mesi fa, a Prato per Metastasio Jazz, e l'ho trovato davvero eccellente. Non da solo, a dire il vero, perché l'entusiasmo era palpabile in tutta la sala. Cos'è per te il piano solo?

AG: È qualcosa di molto importante, di intimo, perché rappresenta anche il mio studio giornaliero, il mio personale percorso di crescita, la consapevolezza maturata delle possibilità improvvisative sullo strumento. Il disco uscito nel 2013, Preludi Libro Primo, testimoniava tutto questo, ma al tempo stesso conservava quell'approccio di cui parlavo prima in relazione alla scrittura: l'attenzione, anche in questo caso, rimane concentrata sul materiale musicale, senza alcuna preclusione delle molteplici possibilità che possono aprirsi sui diversi piani—modale, tonale, intervallare, timbrico, politonale, ritmico, melodico, ecc. Con la differenza che qui improvviso invece di scrivere. In altre parole, lo studio del piano solo mi permette di esercitarmi a restare aperto, a tenere assieme tutti gli stimoli e le possibilità che possono presentarsi; dopodiché, mentre improvviso lascio che venga fuori quello che emerge in quel momento: io lo riconosco, lo seguo, lascio che si aprano delle strade e le prendo, con libertà. Infatti finora ho sempre proposto concerti di circa un'ora senza interruzione, un po' per mettermi alla prova sulla "forma lunga," priva di soluzioni di continuità, che mi piace molto. Ovviamente esiste il rischio della ridondanza, o dell'incoerenza tra le parti, o ancora del calo di tensione; tuttavia è un rischio che mi piace correre, andando e suonando, per poi cercare di momento in momento il modo di rendere coerente e vitale quello che viene fuori.

AAJ: Un rischio che a Prato hai controllasti molto bene. Anche se è vero che, in un concerto di tale varietà stilistica e di materiale musicale impiegato, la possibilità di un calo di intensità è legata anche alla percezione dell'ascoltatore, che può apprezzare più questo o più quel momento. Ma, come dicevamo prima, l'arte non è intrattenimento e che qualcosa "piaccia" meno fa parte del gioco.

AG: Spero comunque che arrivi all'ascoltatore anche la serietà del mio approccio, l'onestà della comunicazione della mia esperienza. Un'onestà che per me ha anche un costo: alla fine di quell'ora di musica sono sempre distrutto dalla fatica! Perché, oltre a dover mantenere alta l'attenzione sul materiale, sento anche la necessità di controllare il suono, di far suonare "bene" il pianoforte anche nei momenti più "acidi" e dissonanti. Ecco, spero che tutto questo arrivi.

AAJ: Al centro qui, ancor più che altrove, c'è l'improvvisazione. Ma per te cos'è l'improvvisazione?

AG: Per me, se fatta in maniera onesta e viscerale, è un canale per capire chi sei. Potrei dire che è una sorta di autoanalisi, di introspezione, che permette di connettersi con la propria essenza. Attraverso l'improvvisazione è possibile capire tante cose di sé stessi, senza ricevere ispirazioni o input da altri, perché l'ispirazione viene fuori da sola. Creare qualcosa senza avere il filtro dello spartito musicale mi sembra il modo più naturale per riappropriarsi di quella pratica antica che è suonare liberamente e improvvisare. Una pratica, quella dell'improvvisazione totale, che spesso si perde, o si confonde, con lo studio di schemi o pattern melodico-ritmici, che non hanno nulla a che vedere con l'improvvisare. Purtroppo anche nella pratica del jazz si pensa che studiare le trascrizioni, o imitare, copiare—e spesso rifare malamente—il modo in cui improvvisano i grandi musicisti possa far crescere la propria personalità e creatività. In realtà è proprio il contrario: in quel modo si viene schiacciati dalle mille personalità già esistite, senza poter mai trovare la propria voce, come i grandi hanno invece fatto a loro volta. Trovare la propria voce e il proprio suono penso sia il lavoro quotidiano di ogni artista, da fare anche allontanandosi, in maniera onesta e reale, da quello che è già stato detto. Questo succede nella pittura, nella scultura, nella scrittura, nella poesia, e deve accadere anche nella musica, a maggior ragione in una musica nella quale l'improvvisazione è alla base della sua esistenza. Imitare o rifare un determinato mondo è di per sé già renderlo falso; il compito degli artisti—in generale, e dei musicisti in particolare—oggi è quello di vivere la propria creatività con onestà e verità, esprimendo il proprio mondo interiore con la consapevolezza che l'arte va sviluppata e che la ricerca è alla base di questo sviluppo.

AAJ: Ma nell'improvvisare cos'è che permette di mantenere una coerenza? Ovvero, detto in maniera più cruda, cos'è che distingue un'improvvisazione onesta da un mero "tirare a caso"?

AG: Lo studio dell'improvvisazione. Sono lo studio e la ricerca continua che permettono di non avere limiti nell'accettare qualsiasi pratica improvvisativa. Respingere la musica tonale, per esempio, oppure non accettare determinati tipi di suono, o altro ancora, è limitante, quasi ideologico. Poteva forse andar bene per l'improvvisazione di qualche decina di anni fa, ma adesso non ha più senso: oggi è indispensabile accettare le varie tradizioni che possono manifestarsi nel corso di un'improvvisazione, prenderle e svilupparle. Ma per farlo è appunto necessario uno studio quotidiano dell'improvvisazione, che permetta di essere pronti ad affrontare qualunque strada. Io percepisco chiaramente quando un musicista con cui suono ha un limite ideologico che non gli permette di muoversi liberamente in una determinata direzione: lo percepisco perché quando si aprono delle strade lui arretra, o le aggira. Questo accade per mancanza di apertura mentale, ma anche per mancanza di studio ed esercizio su forme diverse d'improvvisazione.

AAJ: Ed è questo studio dell'improvvisazione che—oltre a fornirti un bagaglio di materiali da tenere a disposizione per l'occasione in cui possano essere utili nel corso di una performance—ti permette anche di riconoscere il senso di un discorso musicale improvvisato? Quel senso che mancherebbe nel caso di un banale (e disonesto) "tirare a caso" e che, grazie allo studio, puoi riconoscere anche a posteriori?

AG: Sì, esattamente. Sono in grado di riconoscerlo a posteriori, così come di gestirlo in corso d'opera, perché sono in grado di capire che è arrivata un'idea melodica, oppure timbrica, o anche armonica, o altro; e proprio perché riconosco che è "entrato" quel suono, allora cerco di manipolarlo, di svilupparlo, di farne qualcosa. L'idea entra per caso, ma quel che poi ne faccio non è per nulla casuale: è invece ciò che sono capace di costruire con consapevolezza e coerenza delle forme, a partire da quella casualità, in tempo reale. Lo studio dell'improvvisazione è la condizione necessaria affinché si sia in grado di riconoscere che tipo di materiale è casualmente entrato in gioco e cosa sia coerentemente possibile farne.

AAJ: Una delle collaborazioni più importanti che hai avuto nel corso della tua carriera è quella con Anthony Braxton: volevo chiederti qualcosa di quell'esperienza.

AG: Risale ormai a diversi anni fa ed è stata documentata da un cofanetto della Amirani Records, Standards (Brussels) 2006: è stata un'esperienza fantastica, direi illuminante. E questo perché entrare in contatto con l'estrema coerenza di un personaggio come Braxton, che non scende a nessun compromesso sulla musica—né vi è sceso quando anche lui ha avuto momenti di totale disconoscimento da parte del pubblico, degli organizzatori e perfino della critica—ti fa capire che è possibile e doveroso proseguire sulla propria strada, scrivendo, suonando, realizzando i propri progetti. Musicalmente mi ha poi insegnato molte cose, la prima delle quali è l'importanza di lasciare la libertà di suonare come preferisce a chi ti accompagna: certo, il leader deve dare indicazioni, mostrare una direzione; ma ciononostante lui, pur non conoscendoci, ci lasciava grande libertà di azione, e questa cosa non è scontata, anzi. Averlo vissuto in prima persona ha fatto sì che da allora cerchi anch'io di fare lo stesso: quando scelgo un musicista sono consapevole di averlo fatto perché so cosa posso aspettarmi da lui, perciò mi fido di quello che fa e lo lascio libero. Infine, dal punto di vista umano è stato importante percepire come la coerenza che Braxton mette nella musica vada di pari passo con quella che cerca nello sviluppo dell'essere umano, cosa di cui parla spessissimo. Posso ritenermi fortunato di aver incontrato artisti di questo livello, che vanno ben aldilà del "bravo musicista" e sono invece delle personalità a trecentosessanta gradi, per le quali la musica è una via per dire delle cose, non un modo per mettere insieme delle note.

AAJ: Attualmente, oltre Sonoria, su quali altri progetti stai lavorando?

AG: In questo periodo di reclusione da pandemia, stando forzatamente a casa, ho scritto molta musica che avevo in mente, progetti cui pensavo da tempo e sui quali la clausura forzata mi ha permesso di concentrarmi. Per esempio, volevo riprendere in mano il lavoro sulla sinergia tra musica e poesia, che mi aveva già permesso di scrivere un progetto per pianoforte e violoncello ancora deve vedere la luce, basato sulla riverberazione delle poesie mistiche del poeta Rumi. In questo periodo ho di nuovo lavorato in quella direzione e ho scritto altri due progetti: il primo è basato sul ciclo di poesie di Percy Bysshe Shelley, Inno alla bellezza intellettuale, per pianoforte, voce e batteria; il secondo invece sul ciclo di poesie Echo's Bones di Samuel Beckett, per pianoforte, tromba, sax tenore, violoncello e batteria. Spero di poterli concretizzare presto, magari anche confidando su una maggiore apertura di festival e rassegne a tutti gli artisti che fanno musica diversa da quella più diffusa e allineata. Riguardo a questo, vorrei concludere con un auspicio: mi auguro che alla clausura che abbiamo dovuto affrontare per necessità in questo brutto periodo storico possa seguire un'apertura non solo "fisica," ma anche "mentale"; una cosa doppiamente necessaria, perché se la chiusura fisica è intervenuta da marzo in poi, quella mentale era invece assai precedente e i più non sentivano neppure il bisogno di uscirne. Spero si sia in grado di cogliere l'occasione della "riapertura" per estenderla anche alla cultura e, più in generale, alla mente. Il periodo che abbiamo passato dovrebbe far riflettere ognuno di noi sulla libertà espressiva, sul dovere di veicolare i progetti più diversi in modo da alimentare la cultura e il sano confronto delle idee, sulla condizione del musicista e dell'artista in Italia. Se non cogliamo questa come un'occasione di riflessione e di cambiamento, credo che avremmo perso una grande opportunità di crescere come persone, come comunità—che deve svilupparsi insieme, alimentando e coltivando le diversità di ognuno di noi—e anche come umanità. Ma alimentare le diversità significa farle coesistere positivamente, accettandole in maniera inclusiva. Abbiamo già avuto esperienza dei danni prodotti dai muri e dalle barriere fisiche nella storia: i muri e le barriere mentali possono produrre danni ancora maggiori.

Foto: Marco Benvenuti

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