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Torino Jazz Festival 2023

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Torino Jazz Festival
Varie sedi
22—30.4.2023

Sono molte le ragioni che hanno fatto del Torino Jazz Festival un evento di grande successo: il costo dei biglietti decisamente abbordabile, la buona promozione mediatica, la distribuzione dei concerti in vari spazi, anche periferici, idonei alle diverse proposte musicali, la mirata serie d'iniziative collaterali con il coinvolgimento dei partner opportuni... La direzione artistica, tornata dopo cinque anni nelle mani di Stefano Zenni, ha intercalato gruppi collaudati o più recenti, protagonisti statunitensi o europei, cercando di mettere sempre in evidenza il carattere di incrocio multiculturale, di confronto e dialogo che contraddistingue il jazz da sempre, e oggi più che mai. Molti i motivi d'interesse delle ultime quattro giornate del festival a cui ho partecipato, in cui i concerti, molti in esclusiva nazionale, hanno spesso offerto approcci estetici quasi antitetici: emblematico il caso delle tre solo-performance pianistiche di fuoriclasse che più distanti fra loro non potrebbero essere: Craig Taborn, Eve Risser e Stefano Bollani.

Iniziamo il resoconto di queste giornate da due gruppi italiani, entrambi ascoltati nei concerti pomeridiani all'Aula Magna del Politecnico: il primo, il quintetto Eternal Love di Roberto Ottaviano, che è già ben rodato, il secondo, il quartetto Tellkujira attivo dalla fine del 2020, che propone una ricerca forse più sperimentale.

L'incipit innodico, declamatorio e di grande impatto che ha aperto la performance di Eternal Love ha tracciato il binario in cui si è mantenuto tutto il concerto. Infervorati slanci lirici, che più di altre volte hanno palesato un'entusiasta derivazione coltraniana, linee melodiche piene e decise, sapori e danzanti cadenze africaneggianti, omaggi più o meno espliciti a momenti e maestri basilari del jazz del passato hanno dato vita ad una musica solidale, in cui si sono compenetrati i contributi dei vari membri della formazione. Il soprano di Ottaviano, sempre incisivo, essenziale e di grande potenza sonora, in alcuni particolari momenti è riuscito a compendiare in modo personale la pronuncia di Trane e quella di Lacy, senza dimenticare il capostipite Bechet, pur partendo da una consapevole ottica europea. Il colore scuro e levigato del clarinetto basso di Marco Colonna ha costituito un mobile contraltare, mentre nell'arco dell'intero concerto il pianismo percussivo di Alexander Hawkins ha coniugato un incedere modale, contrastati nuclei tayloriani, cadenze etniche ed altro ancora. La poderosa determinazione del pizzicato di Giovanni Maier non ha nascosto riferimenti all'amato maestro Charlie Haden e il drumming di Zeno De Rossi, articolato in cangianti forme metriche e percussive, ha fornito un contesto ritmico sicuro e opportunamente variato.

Il progetto Tellkujira, che ha preso il via durante il lockdown, propone una variante anomala del classico quartetto d'archi, in quanto i due violini sono sostituiti da due chitarre: quella di Francesco Diodati e, all'altra estremità, quella di Stefano Calderano. Fra di loro, la viola di Ambra Chiara Michelangeli e il violoncello di Francesco Guerri. Ad esclusione del violoncellista, gli altri tre si avvalgono dell'uso dell'elettronica, azionata soprattutto dai pedali. A Torino l'uso di tecniche anomale sui rispettivi strumenti, un'amplificazione moderata, il ricorso a un'improvvisazione decantata e vagamente tormentata hanno portato le strutture formali e sonore lontano dai modelli classici e anche jazzistici. Si è potuto ravvisare invece la vicinanza ad una musica contemporanea trasversale, coesa e vibrante, tramata su campi lunghi, previlegiando ponderati aspetti armonici, timbrici e dinamici rispetto a evidenti impianti melodici. Fra crescendo graduali ma inesorabili e minute, corrusche agglomerazioni sonore, ne è sortito un percorso che si è espanso nello stesso tempo in due direzioni opposte: concentrandosi in una meditazione introspettiva ed estatica, dalle inflessioni anche dolenti, o proiettandosi verso l'esterno alla conquista di sterminati spazi immaginifici.

Uno dei vertici di queste giornate finali del festival torinese si è rivelato senza dubbio il progetto Circus, sestetto tutto norvegese attivo dal 2020 sotto la direzione di Paal Nilssen-Love, presentato alla Casa Teatro Ragazzi e Giovani. La formazione raccoglie musicisti con diverse formazioni ed esperienze alle spalle, tutti bravissimi: la cantante Juliana Venter, il trombettista Thomas Johansson, Signe Emmeluth's Amoeba al sax alto, il fisarmonicista Kalle Moberg, Christian Meaas al basso elettrico e contrabbasso, oltre ovviamente al leader alla batteria. L'improvvisazione collettiva, libera e sinergica, è il collante che riesce a unificare e far fruttificare le esperienze personali di ciascuno di essi. Nel contesto molto aperto dell'apparizione torinese si è intuito che pochi erano i passaggi obbligati, ma che ognuno svolgeva un preciso ruolo melodico-timbrico, emergendo di volta in volta in evidenza. Il succedersi di questi contributi, a volte contrapposti, non era prevedibile; eppure proprio questa congerie di spunti, ricerche e idee ha dato vita a un discorso del tutto organico, naturale e funzionale, che è sfociato in motivi melodici ben marcati. Potere dell'improvvisazione appunto, quando la si sa praticare a questi livelli.

Tutti bravissimi si diceva, a cominciare dal drumming autorevole, incalzante e motivante di Nilssen-Love. Intensi e graffianti, di evidente impronta jazzistica, gli interventi da parte di tromba, contralto e basso, ma vale la pena di sottolineare il contributo del fisarmonicista e della cantante, il cui virtuosismo tecnico è stato capace di innescare invenzioni di sorprendente radicalità espressiva. Come non vedere nei temi melodici tribali e reiterati, in questi energici crescendo, in questi vibranti collettivi un approdo nell'attualità di quello che fu il messaggio di Sun Ra e soprattutto di Don Cherry? D'altra parte oggi questo tipo di approccio e di vitalistiche scelte musicali rappresenta una delle espressioni più peculiari dei paesi scandinavi, comune a tante altre formazioni.

Non molto dissimile la proposta della Eve Risser Red Desert Orchestra, una delle tante validissime larghe formazioni europee oggi attive dal Portogallo ai Paesi del Nord. Questo organico di dodici elementi, di cui sei uomini e sei donne, è caratterizzato dal fatto di comprendere quattro musicisti provenienti da vari Paesi africani ma residenti in Francia, formando così un vero collettivo cosmopolita. Quando la schiera dei percussionisti, coadiuvati dalla pulsazione gonfia e infallibile del basso elettro-acustico di Fanny Lasfargues, hanno tramato imperterrite poliritmie di supporto, si è assistito a crescendo ipnotici e formicolanti, dagli evidenti riferimenti tribali e africani, da parte dell'intera orchestra.

Cambi di direzione improvvisi e tangenziali hanno innescato situazioni diverse: arie melodiche dilatate ed evocative esposte dai cinque fiati all'unisono, fasi percussive più delicate con effetti puntillistici, momenti di affievolimento della tensione... In questo contesto orchestrale tuttavia, tutto proiettato a realizzare una musica collettiva, trasversale e ibrida, il virtuosismo tecnico dei singoli strumentisti non ha rappresentato l'elemento più determinante: oltre a un vorticoso assolo della leader, elaborato sulla parte centrale della tastiera, vale la pena di segnalare almeno l'esauriente sortita, dalla pronuncia del tutto jazzistica, da parte dell'esperto trombonista Mathias Müller.

Alla fine degli anni Sessanta il Joe HarriottJohn Mayer Double Quintet proponeva, su disco e anche dal vivo, la suite "Indo-Jazz Fusions," un tentativo di incrocio in chiave acustica fra culture musicali distanti ma disponibili al dialogo. Da allora altri esperimenti analoghi si sono susseguiti fino a quello odierno del Sarathy Korwar Trio, ospitato dal Torino Jazz Festival nel circolo periferico Bunker. Un trio compatto ha confezionato una performance in cui l'ibridazione fra India e jazz si basava su poche componenti ben distinte: sotto la guida del leader—nato negli Stati Uniti, cresciuto in India e residente a Londra—che ha scandito ritmi perentori mantenendo come costante i metronomici colpi secchi sulla grancassa, Alistair Macsween ha intonato litanie vocali, ottenuto melopee liquide e avvolgenti dalla testiera elettronica e coadiuvato alle percussioni Korwar, mentre Tamar Osborn ha emesso ruvidi barriti al sax baritono e melodie ariose e leggiadre al flauto. Tutto era teso a creare un'ipnosi inebriante, un'atmosfera torrida, come per altro era anche il clima del locale.

In un tipo di comunicativa del tutto diverso si è entrati con il Trio "danese" di Stefano Bollani, che ha aperto gli appuntamenti principali del 30 aprile, Giornata Internazionale Unesco del Jazz. Non si può dire che, riunitosi dopo quattro anni d'interruzione, oggi il Danish Trio possa peccare di routine, pur replicando la sua tipica visione estetica non solo con professionalità, ma anche con motivazione e palpabile verve. Il repertorio è transitato con naturalezza da brani veloci e briosi, prevalentemente del leader, a delicate ballad, fra le quali una notevole scritta da Bodilsen, da hit storiche e collaudate della formazione a brani inediti; non sono mancati un omaggio ad Ahmad Jamal, scomparso due settimane prima, e un ricordo di Lelio Luttazzi nel centenario della nascita. Un interplay fluido e swingante ha messo in evidenza le qualità dei singoli.

Il pianismo di Bollani ha confermato una cangiante varietà di tocco e un timing sempre funzionale, ma sembra aver accentuato ancor più le dinamiche, passando da sottolineature percussive a smorzamenti di grande efficacia. Se il pizzicato di Jesper Bodilsen, secco e deciso, ha fornito un ancoraggio quasi serioso, il drumming di Morten Lund, classicissimo ed esuberante, superlativo alle spazzole, ha rafforzato la comunicativa perseguita dal leader in questo contesto con un virtuosismo a tratti volutamente sopra le righe. I medesimi ruoli si sono mantenuti nelle immancabili battute umoristiche inserite durante le presentazioni dei brani: il contrabbassista ha impersonato la "spalla" distaccata, una sorta di clown bianco, una maschera alla Buster Keaton, mentre il batterista, con la gestualità e le sue sortite eccentriche, ha esasperato le intenzioni del leader.

Ad aprire la sequenza di solo-performance pianistiche è stato Craig Taborn, nel bell'Auditorium del Conservatorio. Il cinquantatreenne pianista di Minneapolis ci ha abituato a percorsi strutturali ed emotivi imprevedibili: lo ricordo in un concerto di un paio di anni fa ad Area Sismica, rimasto memorabile per la radicale compattezza di un approccio "contemporaneo." In questa apparizione torinese, invece, Taborn ha previlegiato un criterio forse un po' frammentario ma di marcata impronta jazzistica. Le iniziali linee melodiche sospese, su accordi suadenti, sembravano tributare un omaggio a Gershwin o a certe modalità del jazz classico, per poi lasciare il posto a un "Blue Monk" dapprima infarcito di complessità orientaleggianti, in seguito ripreso e sviluppato con una tecnica pianistica e una partecipazione del tutto jazzistiche. Non sono mancate fasi percussive con scale reiterate ossessivamente, grovigli veloci a piene mani sull'intera tastiera per poi fare ritorno in aree più rilassate e narrative. La sua tecnica prodigiosa e complessa, che ha messo in evidenza l'indipendenza fra le due mani e una diteggiatura ora dolcissima e parsimoniosa ora di ineludibile potenza percussiva, gli ha permesso di affrontare un percorso accidentato e coinvolgente, talora perfino disorientante per i diversi metodi e criteri che ha alternato o più spesso intrecciato fra loro.

Al Teatro Vittoria si è invece esibita Eve Risser al piano verticale preparato. Da oltre cinque anni la pianista francese ha iniziato a mettere a punto questo progetto, già riportato nel disco Après un rêve edito dalla Clean Feed nel 2019, ed ora denominato "Rêve parti." Il piano, privato dei pannelli di protezione in modo da rendere visibile l'intera parte meccanica dello strumento, viene a ogni performance appositamente preparato con una serie di accorgimenti dalla stessa autrice, in stretta collaborazione con un fidato ingegnere del suono. In estrema sintesi, mentre la parte centrale della tastiera mantiene la sua sonorità originaria, le note alle due estremità assumono una sonorità artefatta, soffocata e legnosa, mimando la funzione di strumenti a percussione. Altri tasti isolati, accuratamente selezionati, producono un sound ronzante che ricorda quello del sitar.

Nella mani della Risser, che suona volgendo le spalle al pubblico, la tastiera così organizzata offre molteplici possibilità combinatorie, aggregando diverse soluzioni sonore, per lo più di densa concretezza, scansioni metriche martellanti, tracciati melodici affascinanti e avveniristici... Tenendo conto che dalla metà del concerto la pianista con il piede destro ha azionato una classica grancassa con precisione metronomica, gran parte dell'esibizione ha manifestato una continuità melodico-ritmica ossessiva, di stampo minimalista, producendo nello stesso tempo una trance rituale di matrice africana, prima di raggiungere un graduale, pacificato spegnimento finale. Ci si è trovati insomma di fronte ad una sorta di one woman band, capace di rendere una tecnica inconsueta perfettamente funzionale alla creazione di un messaggio poetico, formale ed espressivo personale e originalissimo.

A concludere questo confronto a distanza fra pianisti, è stato il concerto serale di Stefano Bollani, che ha chiuso il Torino Jazz Festival 2023. La sua è stata un'esibizione tripartita. Nella parte iniziale ha riproposto suoi cavalli di battaglia storici come "Il barbone di Siviglia," ma soprattutto ha presentato alcuni brani nuovi contenuti nel CD Blooming appena uscito: "Vale a Cuba," "All'inizio," "Essere oro," "Argentata..." Ha inoltre rispolverato anche temi famosi, come la colonna sonora di Otto e mezzo scritta da Nino Rota. Le sue interpretazioni hanno offerto una sequenza di invenzioni pianistiche sorprendenti, soprattutto a livello di fraseggio, che ha percorso direzioni armoniche, melodiche e ritmiche sempre diverse, perlustrando temperie jazzistiche, sapori latini o intimismi poetici; la grande padronanza per quanto riguarda le dinamiche e la qualità sonora e timbrica ha permesso di simulare con la mano sinistra, con l'uso dei pedali e battendo il piede destro sul tavolato del palco l'accompagnamento di un contrabbasso o di una batteria.

Nell'intermezzo centrale del concerto il pianista ha invitato sul palco Valentina Cenni, moglie e co-conduttrice del fortunato programma TV Via dei matti n°0: ne è scaturito un siparietto in cui il loro duetto canoro, confidenziale e scanzonato, ha ridotto l'esecuzione pianistica ad una pura funzione di sostegno. Nella terza parte infine il ritorno al piano solo ha previlegiato soluzioni particolarmente esuberanti e percussive, prima di volgere il finale nel segno della parodia più sfrenata, per il divertimento del pubblico osannante che gremiva il capiente Auditorium Agnelli, ...e con la delusione degli specialisti che vorrebbero Bollani sempre nella veste di grande artista qual è capace di essere, anziché in quella d'intrattenitore.

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