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Sesto Jazz 2019

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Sesto Jazz 2019
Teatro della Limonaia
Sesto Fiorentino
1-3.3.2019

Piccolo ma con proposte altamente qualificate, Sesto Jazz si è anche quest'anno articolato su tre appuntamenti nella suggestiva cornice del Teatro della Limonaia, spazio dedicato all'avanguardia artistica e alla sperimentazione della cittadina satellite di Firenze.

La prima serata, che metteva a frutto una collaborazione anche didattica condotta nei giorni precedenti, vedeva in scena la Rainbow Jazz Orchestra, ospite il giovane e talentuoso sassofonista olandese Ben van Gelder. La Rainbow è un raro esempio di orchestra jazz dotata di una certa stabilità (esiste da oltre cinque anni anche se, com'è purtroppo ovvio, le occasioni per suonare non sono moltissime), composta da ottimi musicisti, giovani e meno giovani, dell'area fiorentina; la dirige e si occupa degli arrangiamenti Duccio Bertini, cinquantenne compositore fiorentino che vive tra l'Italia e la Spagna ma lavora anche in altre parti d'Europa, spesso a capo di orchestre simili -come la Futura Jazz Orchestra o la Duccio Bertini Jazz Band, che ha sede a Barcellona. Negli ultimi anni ha realizzato con la Rainbow vari progetti originali; quello di quest'anno s'intitolava Both Directions: The Music Of John Coltrane, denominazione che indicava chiaramente il contenuto musicale.

Una sfida non da poco affrontare con un organico orchestrale la musica di Coltrane, incentrata com'è sulle personalità dei solisti e della prima voce in particolare; una sfida che destava qualche perplessità veder affidata a un sassofonista come Van Gelder, un contralto raffinato e certo poliedrico, ma anche apparentemente molto rilassato nelle sue forme espressive, quindi lontano dalla personalità torrenziale e spesso estrema di Coltrane. Eppure, alla prova dei fatti, una sfida pienamente vinta.

L'ora abbondante di musica è infatti iniziata con un brano privo dell'ospite, nel quale i fiati si sono alternati nei soli come in una classica big band, per poi proseguire con brani più e meno noti del sassofonista di Hamlet, affidando quasi sempre il ruolo del solista a Van Gelder e anzi lasciandolo occasionalmente suonare in quartetto, sempre con esiti eccellenti. Ciò grazie alla virtuosa interazione tra lo stile dell'olandese e il lavoro dell'orchestra a suo supporto. Il primo si è certo confermato distante dalla pronuncia coltraneana, ma anche vario nelle forme espressive, mai ripetitivo nelle scelte di fraseggio e -forse soprattutto -spettacolare nella gestione dell'intensità dinamica: un musicista singolare, che in certa misura ripropone in forma aggiornata e non emulativa la lezione al contralto di Lee Konitz. La seconda, dal canto suo, ha costruito una cornice sorprendentemente appropriata al lavoro del solista, con un equilibrio che le permetteva di evitare atmosfere eccessivamente elaborate e cesellate -che avrebbero conflitto con lo spirito dei brani di Coltrane -pur ampliando lo spettro timbrico e arricchendo il discorso sviluppato da Van Gelder. Merito certo dell'ottimo affiatamento dei musicisti, ma soprattutto degli arrangiamenti di Bertini, al quale spetta una menzione particolare.

Da notare, nel bis, un imprevisto (anche per loro) duetto improvvisato tra Van Gelder e il pianista Francesco Maccianti, a tal punto riuscito da lasciare senza parole.

Dopo il concerto dell'inedito duo di Simone Graziano e David Binney, del quale non possiamo dar conto, il terzo e ultimo giorno del festival ha visto di scena il quintetto Starebaby del batterista Dan Weiss, una vera all stars che vedeva accanto al leader Craig Taborn e Matt Mitchell a pianoforte, tastiere e synth, Ben Monder alla chitarra e Trevor Dunn al basso elettrico.

La formazione, molto attesa, ha proposto una musica dalla forte intensità dinamica, sostenuta da un Dunn forse un po' sacrificato al ruolo di metronomo e dal leader, che invece dal centro della scena dettava i tempi con la sua batteria. I due tastieristi sono stati i protagonisti principali della serata, alternandosi all'unico pianoforte (in un brano suonato addirittura in coppia) e per il resto dedicandosi ai sintetizzatori, uno ciascuno di diverso tipo, dai quale hanno tratto sonorità di ogni genere, caratterizzando il colore complessivo della musica. Al pianoforte hanno proposto approcci diversi, mai strettamente lirici ma ora percussivi, ora più fraseggiati, talvolta minimalisti e ossessivi, così da creare un mobile contrasto con le sonorità elettroniche e con l'intensità della ritmica. Monder, dal canto suo, oltre ad affiancare coloristicamente basso e batteria, si proponeva come alternativa al lavoro delle tastiere, intervenendo in assolo e offrendo tutto sommato i momenti più raffinati e timbricamente sfaccettati del concerto.

Una performance senza dubbio coinvolgente in virtù della forte intensità e anche delle invenzioni dei due pianisti -oltretutto sottolineate dalla loro interazione mimica e vocale, in alcuni momenti decisamente atipica su un palco -ma anche piuttosto uniforme e senza autentici momenti di originalità, che è così progressivamente apparso un po' ridondante.

Una nota conclusiva di plauso all'organizzazione, che anche quest'anno ha offerto in uno spazio affascinante tre proposte di alto livello e ben diverse tra loro, con eccellenti risultati sul piano della presenza del pubblico, cosa non scontata di questi tempi.

Foto: Roberto Bruscoli

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