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Pino Palladino: Eclettismo al Servizio della Musica

Pino Palladino: Eclettismo al Servizio della Musica

Courtesy Eric Fairchild

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Capita raramente di ascoltare un disco che sprigiona endorfine così benefiche, che ci concede la possibilità di separarci momentaneamente dalla realtà, spingendoci fino al nucleo generativo della musica stessa. Proprio lì dove la composizione prende forma in uno spazio neutro, senza confini, entriamo nel sistema musicale di Notes With Attachments del bassista Pino Palladino e del produttore e polistrumentista Blake Mills. Sospendiamo il giudizio e ci lasciamo condurre da un flusso musicale aperto, in movimento. Notes With Attachments sarebbe dovuto essere il primo album solista di Palladino, ma a seguito della collaborazione intrapresa con Blake Mills in altri contesti, è diventato un progetto collaborativo, nel quale convogliare la comune passione per la sperimentazione, per la ricerca di nuovi linguaggi e opportunità creative che andassero oltre ogni genere. Appena pubblicato dalla New Deal/Impulse! l'album di Palladino e Mills vede la partecipazione di ospiti d'eccezione della scena jazz, R&B e pop, dal batterista Chris Dave (D'Angelo, Anderson Paak), ai sassofonisti Sam Gendel, Marcus Strickland e Jacques Schwarz-Bart, il pianista Larry Goldings e molti altri. In quest'intervista a Pino Palladino, condotta insieme a Ludovico Granvassu, abbiamo ripercorso la lunga preparazione dell'album, la sua collaborazione con Mills, l'uscita sulla storica etichetta Impulse!, il suo legame profondo con il Molise (una delle tracce s'intitola "A Man From Molise"), il potere dell'errore in musica, per tornare, infine, alle sue origini e alla consacrazione di Pino Palladino come uno dei più grandi bassisti sulla scena mondiale.

All About Jazz: Sei uno dei musicisti più richiesti al mondo. Come cambia il tuo approccio quando suoni come leader/co-leader rispetto agli album in cui suoni come side man o session man?

Pino Palladino: Il mio approccio è sempre lo stesso indipendentemente dal progetto in cui opero. Ho un atteggiamento molto semplice verso la musica: cerco solo di far suonare la canzone il meglio possibile, che sia mia o di qualcun altro. Comprendere appieno il genere che sto suonando è sempre stato centrale per la mia musicalità, perché cerco di adattarmi al contesto in cui mi trovo, portando il mio stile e la mia personalità, ma cercando di non interferire con l'essenza del genere che sto suonando.

AAJ: Come è iniziata la collaborazione con il polistrumentista e produttore Blake Mills?

PP: Nel 2016 Blake stava producendo un album per John Legend [Darkness and Light, Columbia Records] ed era alla ricercar di una sezione ritmica. Contattò me e il batterista Chris Dave. Ci sentimmo per telefono e mi resi immediatamente conto che sarebbe stato davvero stimolante fare questo progetto insieme. All'epoca vivevo a Londra e per partecipare alle sessioni di registrazione sono andato a Los Angeles, dove, tra l'altro, stavo pensando di trasferirmi. Conoscevo già il lavoro di Blake, anche se non ci eravamo ancora incontrati e non avevamo ancora suonato insieme. Dal primo giorno in studio ho apprezzato il modo in cui mi ha spinto ad esplorare nuove soluzioni creative, lanciandomi idee folli. Abbiamo scoperto di andare molto d'accordo e da lì è stata una progressione naturale.

AAJ: Note With Attachments è il nuovo album, ma molte delle idee che vi si riflettono erano in fermento da anni, decenni. A cosa è dovuto il fatto che finalmente le hai raccolte in un tuo album?

PP: È il risultato di una combinazione di cose. Quando ho discusso con il mio manager, David Passick, riguardo l'invito di Blake a suonare nell'album di John Legend, eravamo entrambi d'accordo che sarebbe stato divertente lavorare con Blake. Subito dopo siamo andati a New York per promuovere l'album di John, e David ha iniziato a parlare con il manager di Blake. È venuto fuori che Mills si stava chiedendo se avessi mai fatto un disco da solista, perché gli sarebbe piaciuto lavorare con me sul mio primo album in solo. Il mio manager me ne ha parlato, ci ho pensato e sono arrivato alla conclusione che sarebbe stato davvero bello lavorare con un grande produttore che ha una profonda conoscenza delle tecniche di registrazione e non ha paura di provare cose nuove. A New York ho prenotato uno studio di registrazione in un giorno di pausa tra i vari concerti con John Legend. Abbiamo fatto una sessione di registrazione con Ben Kane, il pupillo di Russ Elevado, un grande ingegnere con cui avevo lavorato durante la mia collaborazione con D'Angelo. Avevo con me un hard disk con su un brano a cui avevo lavorato con Chris Dave da casa mia a Londra. Ho invitato in studio Chris alle percussioni e Blake alla chitarra da lì è nato il primo brano. Poi ci siamo divertiti a giocare con altre idee e le cose sono andate alla grande.

Durante la mia carriera, ho suonato in tantissimi dischi incredibili, con artisti di ogni genere. Come bassista, il mio forte non è il virtuosismo. Mi considero piuttosto un musicista compositivo che ha la capacità di adattarsi a diversi generi. È questo che mi ha sempre interessato, ma è una cosa che può risultare difficile da tradurre in un disco solista. Ho portato a lungo dentro di me molte di queste canzoni. Fino a Notes With Attachments non mi sembrava di avere un disco che si potesse considerare completo e che fosse abbastanza diverso da quello che avevo suonato prima, o da quello che si può sentire in circolazione. Quando ho parlato con Blake della possibilità di un disco solista eravamo totalmente d'accordo su questa visione. Ecco perché si è rivelata davvero una buona collaborazione.

AAJ: Com'è nata la collaborazione con la storica etichetta Impulse!?

PP: Blake Mills ha una sua etichetta discografica, la New Deal, distribuita dal gruppo Verve. Il piano originale era che Notes With Attachments uscisse sulla sua etichetta. Poco prima che finissimo l'album la sua etichetta mi ha chiesto "che ne pensi se questo album uscisse su New Deal/Impulse!?." Per me è stato un grande onore, quindi non ci ho pensato due volte.

AAJ: In Notes With Attachments suoni con molti collaboratori, e ognuno di loro ha dato un contributo importante al processo creativo—Larry Goldings, Jacques Schwarz-Bart, Marcus Strickland, per citarne alcuni musicisti con cui collabori da anni, oppure Sam Gendel che hai incontrato in studio di registrazione. Avresti potuto invitare praticamente chiunque volessi, visto che hai suonato con tutti quelli che contano. Come hai scelto questi musicisti in particolare?

PP: All'inizio del progetto, come dicevo, il mio principale collaboratore era Chris Dave. Abbiamo iniziato a lavorare insieme nella band di D'Angelo [per l'album del 2014 Black Messiah]. Ci siamo incontrati nel 2011, o forse nel 2009, durante le sessioni di registrazione dell'album 21 di Adele. Siamo andati immediatamente d'accordo. Da quel momento in poi, ogni volta che lui veniva a Londra, o io andavo a Los Angeles, ci incontravamo in studio per buttare giù qualche idea. È così che sono nate molte delle canzoni del disco, con cinque minuti di ritmo e una sequenza di accordi messi assieme con Chris. Ho suonato quel materiale a Blake e poi l'obiettivo è diventato trovare i musicisti giusti, persone che potessero contribuire con qualcosa di insolito. Blake ha suggerito il sassofonista Sam Gendel, che è davvero un artista unico. Non appena abbiamo dato la musica a Sam e l'ho sentito suonare, ho capito che era il musicista perfetto per la situazione. Marcus Strickland è venuto in studio quando io e Blake ci siamo incontrati a New York. Gli ho chiesto di portare il suo clarinetto basso e di buttar giù qualche idea per una delle canzoni, e lui ha tirato fuori quella incredibile melodia al clarone, che ha poi sovra-inciso per il brano "Ekuté." Io e Jacques Schwarz-Bart ci conosciamo da oltre vent'anni. Ne abbiamo passato di tempo assieme! Eravamo nella band di D'Angelo tra il 1999 e il 2001. Per il nuovo album, gli ho dato una demo di una delle canzoni e lui ha scritto uno splendido arrangiamento di tipo ellingtoniano. Per quanto riguarda Larry Goldings, l'ho invitato, perché è un musicista incredibile. Adoro la sua musicalità. È così profondo e mi interessa molto la sua cultura musicale. All'inizio del progetto una sola cosa mi era chiarissima, che Larry avrebbe dovuto far parte di questo album.

AAJ: "Just Wrong" è stato pubblicato come primo singolo dell'album. Si tratta di un brano molto caldo, ipnotico, dove il basso ha una grande libertà di movimento, proprio come gli altri strumenti che sembrano galleggiare in un subconscio collettivo, un posto dove—nonostante il titolo—non c'è mai niente di sbagliato. Qual è il tuo rapporto con l'errore nella musica?

PP: Questa è davvero una bella domanda. A volte, quando si suona, un errore può inavvertitamente aprire delle possibilità inaspettate. Questo può accadere sia quando si suona la propria musica che quella di qualcun altro. Per questo gli errori mi affascinano. Certe volte, anche quando hai la sensazione di non sapere bene quello che stai facendo, viene fuori qualcosa di giusto, che è al di là del tuo controllo e ti trascende. Se sai tenere la mente e le orecchie aperte puoi apprezzare ogni errore, per quello che offre alla musica. Certe volte ti rendi conto che grazie ad un errore viene fuori qualcosa di più interessante di quello che avevi originariamente intenzione di suonare. Questa è una delle ragioni per cui mi trovo così bene con Blake Mills. Ci piace rischiare, continuiamo ad esplorare cercando qualcosa, anche piccola, che ci ispiri. Tutto questo può benissimo venire da un errore!

AAJ: Perché hai scelto "Notes with Attachments" come titolo per il tuo album?

PP: È stata mia moglie, Maz, a trovare il titolo. Blake, io e mia moglie eravamo al telefono per discutere come intitolare il disco. Io avevo alcune idee... "Man from Molise"—che è poi diventato il titolo di una delle canzoni principali dell'album—era una di queste. A Blake piacque subito. Voleva sapere dov'è il Molise e gli spiegai che è la regione italiana in cui è nato mio padre. Poi, all'improvviso mia moglie ha avuto una illuminazione: "che ne dite di 'Notes with attachments'?." Penso che sia un titolo perfetto per questo disco, perché può essere interpretato in vari modi. Innanzitutto, riflette il fatto che ho portato questa musica dentro di me per molto tempo, ma può anche significare che le note musicali che suoniamo hanno dei legami sentimentali, perché mi ricordano i momenti e i luoghi in cui ho scritto le canzoni.

AAJ: Alcuni brani dell'album traggono ispirazione da grandi artisti che ammiri come D'Angelo, J Dilla, Fela Kuti, Roy Hargrove e, passando da un brano all'altro, sembra che la cerchia di strumenti che utilizzate man mano si allarga: chitarre a corde di nylon, Berimbau, marimba, percussioni, viola... Come hai gestito tutto questo materiale in continua espansione durante la sessione di registrazione?

PP: Blake Mills ha una impressionante collezione di vecchi microfoni, vecchie tastiere, batterie, ecc. nel suo studio di registrazione. Inoltre, a Los Angeles c'è un negozio di strumenti musicali africani, Motherland Music, dove siamo andati e abbiamo comprato un sacco di roba. Il nostro processo creativo è abbastanza sperimentale. Quando arriviamo ad un certo punto del brano, proviamo cose insolite. Se ci pensi, solo quattro delle otto tracce del disco hanno una batteria. Questa è una decisione che abbiamo preso deliberatamente. Volevamo provare a far muovere le cose senza batteria, aggiungendo le percussioni in un secondo momento, più che altro come rifinitura... un approccio piuttosto insolito per me. Come bassista, sono abituato a seguire la batteria... è sempre il batterista che apre la strada. Questa volta è stato divertente partire dalle linee di basso e poi il brano e la parte ritmica attorno.

AAJ: Hai descritto un processo creativo molto affascinante che ruota intorno allo stare in studio. Hai concepito questo esperimento come un progetto solamente discografico, o hai anche pensato di portarlo in tour, quando sarà di nuovo possibile suonare dal vivo?

PP: Quando eravamo in studio non abbiamo lavorato al disco pensando a come lo avremmo eseguito dal vivo. Stavamo solo facendo un progetto di cui entrambi volevamo essere orgogliosi e che avrebbe potuto creare interesse. È stato solo più tardi, quando finalmente mi sono reso conto di avere un disco tra le mani, che ho iniziato a pensare di suonarlo dal vivo. Quindi, se non fosse per questa pandemia, starei sicuramente pianificando un tour. Non vedo l'ora di farlo il prima possibile.

AAJ: "Ekuté" e "Djurkel" traggono ispirazione dalla tua passione per la musica dell'Africa occidentale. Quali sono le radici di questa passione?

PP: Ho scoperto la musica africana negli anni '80, attraverso gli album pubblicati dalla Real World, l'etichetta di Peter Gabriel. Ricordo anche un grande album di Salif Keita intitolato Soro [Mango Records], che mi entusiasmò molto perché conteneva suoni che all'epoca non conoscevo. Ho suonato in continuazione quell'album! Ce l'avevo in macchina e mi piaceva tutto di quel disco, era la mia porta d'accesso alla musica di quella parte dell'Africa, Mali, Burkina Faso... Qualche anno dopo, intorno al 1992 o 1993, ho lavorato con un artista svizzero-tedesco, Stephan Eicher. Abbiamo fatto un sacco di registrazioni insieme e il suo manager mi ha chiesto di fare un tour in Africa. Erano due tipi piuttosto intrepidi ed è stato un tour veramente duro. Durante quella tournée ho vissuto alcuni dei momenti più spaventosi e alcuni dei momenti più belli della mia vita. Ho avuto modo di scoprire un sacco di musica, anche solo vedendo la gente suonare per strada e nei club. A Bamako abbiamo anche avuto la fortuna di suonare con artisti come Ali Farka Toure, che è venuto e si è portato dietro il suo percussionista, i suoi ballerini e altri musicisti. Poi sono andato in Senegal e ho incontrato Doudou Ndiaye Rose, il leggendario percussionista. Una delle mie migliori esperienze fu all'aeroporto, c'era un tipo che mi voleva vendere delle cassette. Era piuttosto insistente. Alla fine, ho ceduto e mi ha fatto ascoltare una cassetta sul suo vecchio walkman. Era un album della cantante maliana Oumou Sangaré. Sono rimasto ipnotizzato. Comprai tre cassette e le portai a casa. Una volta tornato a Londra dalla mia famiglia, ho pensato molto a tutta l'esperienza e a come la musica africana mi fosse entrata nel sangue. Mi sono davvero divertito in Africa, ma solo qualche mese dopo quell'avventura mi sono reso conto di quanto avessi interiorizzato quella musica. Da quel momento non mi ha più lasciato.

AAJ: Nell'album c'è anche un omaggio a Chris Dave e al suo modo di suonare la batteria. Come è nata la vostra amicizia e che ruolo ha avuto nel progetto?

PP: Ogni volta che ascolto Chris mi sorprende con qualcosa di incredibile e nuovo. Non si ripete mai! È stato molto incoraggiante fin dall'inizio. Quando abbiamo iniziato a lavorare insieme, mi diceva sempre che avrei dovuto metter su un progetto mio... e, infatti, abbiamo fatto un concerto al Ronnie Scott's di Londra, "Pino Palladino and friends," con Chris, James Poyser e Tim Stewart come sezione ritmica di base, insieme a una serie di incredibili artisti ospiti. Un'esperienza indimenticabile. Chris è un amico, una fonte di ispirazione e un musicista stimolante. È una parte importante di questo disco.

AAJ: C'è un brano in particolare che ha attirato la nostra attenzione: "Man from Molise." Com'è nata l'associazione con il grande polistrumentista e compositore Hermeto Pascoal? E chi è quest'"uomo del Molise"?

PP: Sono sempre stato molto interessato alla musica brasiliana. Le loro strutture armoniche e ritmiche sono uniche! Anche nel pop trovano accordi e melodie incredibilmente sofisticate. Questo mi ha sempre affascinato. Durante un tour in Brasile con D'Angelo, nel 1999, o 2000, sono andato in un negozio di dischi a San Paolo e ho comprato una ventina di CD. All'epoca non sapevo bene cosa stavo comprando. Volevo scoprire musica nuova. Uno dei CD era Festa Dos Deuses di Hermeto Pascoal e Grupo. La sua scoperta—come quella degli altri album che acquistai e che ho ascoltato all'infinito—ha avuto un grande impatto e mi ha fatto capire ed amare ancora di più la musica globale. Il suo bassista è Itiberê Zwarg, a sua volta un incredibile compositore e autore.

"Man from Molise" è partita da quell'ispirazione e da una sfida con me stesso di provare a scrivere una canzone con una bella armonia, una bella struttura in 7/4, 9/4 o 5/4. Mi sembrava molto naturale. Inizialmente "Man from Molise" era abbastanza veloce. Avevo degli ottimi musicisti a New York: Axel Tosca al piano, Jhair Sala e Jamey Haddad alle percussioni, Joe Locke al vibrafono e alla marimba e Itai Kriss al flauto. Hanno suonato sulla versione originale di questo brano, che forse un giorno farò uscire. Quando l'ho fatta sentire a Blake, gli è piaciuta molto, ma la prima cosa che ha detto è stata "e se la rallentassimo?" Ma poi l'ha portata alla metà della velocità originale! Immagina un po...' uno scrive un pezzo con un bel tiro e un certo feeling... puoi accelerarlo o rallentarlo un pochino e può funzionare ancora. Ma se lo fai andare a metà del tempo in cui è stato scritto, è tutta un'altra cosa. Mi ci è voluto un po' per convincermi... ma alla fine ho deciso di provarci perché rispetto il fatto che Blake sia sempre molto sperimentale e audace. Dopo vari tentativi, siamo riusciti a suonarlo lentamente riuscendo a riprodurre il feeling con cui era stato concepito.

All'inizio avevo un altro titolo per questo pezzo, ma, man mano che ci lavoravamo e la canzone acquisiva una connotazione sempre più "europea," mi trovavo a pensare a mio padre. Con mio figlio Rocco e con i miei fratelli parliamo sempre del Molise, dove è nato mio padre. È sempre stata una parte importante della mia vita. "A Man from Molise" mi sembrava un titolo intrigante. E quindi questo uomo molisano è mio padre, che lasciò Campobasso, la sua città natale, quando era abbastanza giovane, per andare a Londra e poi da lì si traferì in Galles. L'idea era di lavorare nelle acciaierie, giusto per guadagnare un po' di soldi per poi andare in Canada, ma poi ha incontrato mia madre a Cardiff e non se n'è più andato. È una bella storia. Così, il titolo è venuto fuori molto tempo dopo la canzone. Quando hai a che fare con l'arte e la musica non sempre c'è una logica, alla fine le buone idee vengono fuori in maniera inaspettata. Ora quando penso a "A Man from Molise" mi immagino di suonare questa musica a Campobasso, un giorno!

AAJ: Cogliamo l'occasione per tornare indietro nel tempo, ai tuoi inizi a Cardiff. Come ti sei avvicinato alla musica?

PP: Quando ero adolescente, la mia vita era tutta dedicata allo sport e alla musica. Essendo italiano ho ricevuto un'educazione cattolica, ovviamente, e quando avevo circa 14 anni, nella scuola secondaria, avevamo un prete, padre Delaney, che suonava la chitarra acustica. Suonavamo la chitarra in chiesa ed era un'occasione per uscire presto da scuola, in modo da poter andare a suonare la messa popolare con il prete e con mia sorella, anche lei chitarrista. La mia città natale, Cardiff, è un posto davvero interessante, per certi versi è simile a Liverpool in Inghilterra. Ci sono molte nazionalità diverse e immigrati. Quando avevo 17 o 18 anni, ho iniziato ad andare nella zona del porto dove arrivavano le navi da diverse parti del mondo, dato che Cardiff all'epoca era un punto di smistamento per il commercio internazionale di carbone. La zona portuale poteva essere un po' pericolosa a volte, ma anche questo la rendeva anche molto interessante. C'erano alcuni club dove si poteva ascoltare musica reggae, funk e soul. Sono diventati la mia fonte di ispirazione. I Dj suonavano molta musica proveniente dall'America, soprattutto funk e jazz. Prima di quelle esperienze, quando suonavo la chitarra in una rock band locale, i Trapper, il mio interessare principale era il Rock & Roll, Little Richard, Chuck Berry e il rock degli anni '70 di band come i Free, Led Zeppelin, Yes, Wishbone Ash....

AAJ: Hai scoperto il jazz piuttosto giovane. Come ti sei appassionato? Cosa ha catturato la tua attenzione?

PP: Mi piace parlare di jazz. Normalmente durante le interviste non fanno domande in proposito. Probabilmente è la prima volta nella mia vita. Non credo che la gente mi percepisca come un musicista jazz e io non mi vedo come un musicista jazz, ma il jazz ha sempre avuto una grande importanza della mia vita. Lo amo e basta! Dopo aver lavorato nelle acciaierie, mio padre iniziò a lavorare nella ristorazione. Alla fine, è diventato uno chef. Credo che sua madre avesse gestito un ristorante a Campobasso, nei primi anni '30 e '40. Nelle sue serate libere, lui, mia madre e i loro amici andavano a ballare. In una delle discoteche di Cardiff c'era anche un trio jazz e, quando avevo 14 o 15 anni, i miei genitori cominciarono a portare me e mia sorella con loro. Mentre loro ballavano, noi eravamo seduti dove la suonava il trio. Era il trio Austin Davis; contrabbasso, piano acustico suonato da Austin Davis e batteria. Li adoravo. Non potevo credere al suono che faceva quella band. Quella fu il mio primo incontro con l'armonia jazz. Naturalmente, in quel periodo ascoltavo Stevie Wonder, i Beatles, ma anche Burt Bacharach o le colonne sonore di John Barry, tutti musicisti che in un modo o nell'altro incorporavano elementi jazz.

AAJ:: Forse non ti consideri un jazzista, ma nel corso degli anni hai suonato con musicisti jazz come Herbie Hancock, Lionel Loueke, Steve Jordan o Manu Katche solo per citarne qualche nome. Quali aspetti della scena jazz di oggi trovi interessanti?

PP: Sono particolarmente interessato a quello che può essere chiamato "nuovo jazz." Il tutto parte da musicisti o gruppi come A Tribe Called Quest, J Dilla, D'Angelo, Erykah Badu o Roy Hargrove, che ovviamente era un vero e proprio jazzista prima di essere coinvolto in progetti come RH Factor. Hanno incorporato il jazz nella loro musicalità e questo è stato estremamente stimolante. Venti anni dopo, puoi sentire il tipo di impatto che hanno avuto su artisti come Robert Glasper o Derrick Hodge, tutto quel movimento che sta arrivando al jazz dopo aver ascoltato D'Angelo e J Dilla. Per ovvie ragioni, mi sento molto legato a quella musica. Mi piace come in quel tipo di jazz trovi musicisti che improvvisano liberamente appoggiandosi ad un flusso molto ritmico, che ha quella strana specie di swing molto hip-hop. Prendi la creatività di J Dilla, o Jay Dee come lo chiamavamo prima che diventasse famoso come J Dilla, e pensa a come isolava piccoli estratti da un brano, magari solo le tue due battute preferite, e poi creava un'intera traccia da quel frammento. Lo trovo davvero intrigante. Questa sorta di "approccio loop" che in molti stanno trasferendo al jazz sta facendo avvicinare molti giovani al jazz. A prima vista, è una musica che non sembra chiedere troppa concentrazione, ma quando si scava più a fondo, ci si trova un sacco di roba cerebrale. In questo momento c'è un sacco di ottima musica in giro.

AAJ:: Con i Soulquarians hai partecipato alle sessioni di registrazione di D'Angelo agli Electric Lady Studios. Quelle sessioni sono diventate leggendarie e la loro miscela di jazz, R&B e Funk hanno esercitato una grande influenza su molti musicisti jazz che all'epoca erano giovani. Come sei stato coinvolto in quelle sessioni?

PP:: Ho incontrato D'Angelo quando stavo facendo una sessione di registrazione con B.B. King. Mi sentivo già molto onorato di lavorare con B.B. Non potevo credere di essere nella stessa stanza con lui, e—come se non bastasse—avevamo dei musicisti incredibili per quell'album, Deuces Wild. Ogni canzone dell'album aveva un diverso ospite speciale, inclusi The Rolling Stones, Bonnie Raitt, Eric Clapton, Dr. John, Willie Nelson, Zucchero e, naturalmente, D'Angelo. Era stato invitato per cantare e suonare il pino su "Ain't Nobody Home." Lo conoscevo come artista ed ero un fan del suo lavoro, ma non ci eravamo mai incontrati prima. Appena abbiamo iniziato a suonare si è creata una connessione istantanea e anche lui se n'è reso conto. Quella stessa connessione si è estesa a tutti gli altri incredibili musicisti in studio, Steve Jordan alla batteria, Hugh McCracken alla chitarra, Leon Pendarvis all'organo e John Cleary al piano. È stata una sessione incredibile, prodotta da John Porter.

D'Angelo sembrava interessato al mio modo di suonare il basso. Così abbiamo iniziato a parlare e mi ha chiesto se mi interessava andare agli Electric Lady Studios e lavorare con lui. Per me la cosa positiva fu il fatto che mi parlava senza che fosse al corrente della mia corrente e dei miei progetti e lavori precedenti, ad esempio il mio uso del basso fretless degli anni ottanta. Si basava solo ed esclusivamente su quello che aveva ascoltato quando abbiamo suonato insieme, senza essere influenzato dalla mia reputazione. Questo ha fatto in modo che si creasse un rapporto molto onesto tra noi. A ripensarci, quell'evento mi ha dato l'opportunità di reinventarmi come bassista.

AAJ: Che ricordi hai di quei giorni agli Electric Lady Studios?

PP: Andai agli Studios e appena arrivò Questlove , il batterista dei Roots, abbiamo iniziato a suonare in un trio, D'Angelo, Questlove e io, con il tecnico Russ Elevado ai controlli. Capimmo immediatamente che c'era una alchimia speciale fra noi tre. Eravamo così connessi che sembrava fossimo una cosa sola, anche grazie a come D'Angelo sapeva intrecciare le sue parole con le linee di basso, chitarra e piano. Per quanto mi riguarda, ho fatto del mio meglio per inserirmi ed essere un terzo di quel trio che marciava come un meccanismo perfettamente oliato...

Erano tempi esaltanti. Sapevo che stavamo creando qualcosa di nuovo ed irripetibile. Non ero sicuro di come sarebbe stato accolto, ma sentivo che stavamo suonando qualcosa di unico, che non potevo paragonare a nient'altro a cui avevo lavorato o che avevo ascoltato. D'Angelo e Questlove portavano ovviamente elementi di hip-hop, sperimentando cose come J Dilla, A Tribe Called Quest, De La Soul, che avevano campionato dischi jazz nei loro progetti, creando dei loop con uno swing sbilenco. Quell'approccio ha fatto scuola e abbiamo imparato a suonare anche noi con quello stesso swing sbilenco. Più tardi la gente l'avrebbe definito slugging the beat o "suonare dietro."

Il back-phrasing ha una lunga tradizione nel jazz e nel blues. Non c'era niente di rivoluzionario, ma la differenza era che noi facevamo un back-phrasing collettivo, con l'intera sezione ritmica, come se fossimo una cosa sola, come un ensemble. Il basso, le tastiere e la chitarra si posizionavano molto indietro. La grancassa un po' indietro insieme a noi, il rullante spingeva e il charleston stava sul ritmo. Non è una cosa scientifica. È una cosa d'istinto. E non funziona necessariamente in ogni contesto, in quanto richiede un lavoro d'insieme che si può capire solo dopo aver lavorato a lungo per capirne gli ingredienti segreti.

AAJ: Come è nato questo approccio? Si è sviluppato naturalmente improvvisando con D'Angelo e Questlove?

PP: A D'Angelo piaceva che il basso stesse dietro. Continuava a dirmi "Tieniti ancora un po' dietro" e io cercavo di interpretare quello che lui mi diceva finché ad un certo punto è scattato l'incantesimo e ho capito che cosa cercava. D'Angelo mi ha aperto una porta. Ho capito da dove veniva e mi sento molto fortunato ad essere stato introdotto a questo concetto dal suo creatore.

AAJ: Credi che il background di D'Angelo come pianista jazz, che risale alla sua adolescenza in Virginia, abbia influenzato questo concetto ritmico?

PP: Direi che il suo background sia più gospel che jazz, anche se naturalmente ci sono elementi di jazz nella musica gospel. Per quanto riguarda l'approccio al ritmo, penso che sia esclusivamente dovuto a D'Angelo. Nelle arti, ogni tanto, emerge qualcuno che interrompe il normale corso degli eventi. D'Angelo è uno di quegli artisti.

AAJ: Quando ti trovi a partecipare in una sessione di registrazione come quelle agli Electric Lady Studios, ti rendi immediatamente conto che sono speciali, o ti ci vuole un po' ti tempo per metabolizzarle e capire l'impatto che hanno avuto?

PP: Nel caso delle sessioni con D'Angelo—come dicevo—si capiva immediatamente. Dopo pochi istanti ho percepito che c'era qualcosa di speciale. Lo stesso è capitato lavorando al disco di John Mayer Continuum, insieme a Steve Jordan, o con 21 di Adele... il songwriting e i contributi di Adele come vocalist erano incredibili! A volte hai una sensazione epidermica quando ascolti una canzone, come quando mi hanno chiesto di suonare su "Watermelon Sugar" di Harry Styles. Quando senti roba del genere, lo sai... È così ben strutturata che non puoi non sentirti fortunato di poterci suonare sopra. Tutto quello che devo fare è non rovinare niente e dare il mio contributo.

AAJ: Sei mai stato coinvolto in progetti che cercano di portare avanti il discorso intrapreso da D'Angelo?

PP: Direi di no. Ma occasionalmente è capitato che durante una sessione di registrazione ci siano delle affinità al lavoro che ho fatto con D'Angelo. Per esempio, quando ho lavorato con Jill Scott i produttori erano molto influenzati da quel tipo di atmosfere, e quindi è stato facile inserire quello stile in quel progetto. Come ho detto, molti musicisti sono cresciuti ascoltando la musica di D'Angelo, che è diventata parte integrante della loro educazione musicale.

AAJ: Torniamo ai tuoi primi anni. Come ti sei innamorato del basso. C'è stato un bassista in particolare che ha contribuito a farti innamorare di questo strumento?

PP: Nel periodo in cui suonavo la chitarra spagnola in chiesa, una volta il prete ci portò a Cardiff per un concerto del cantante Ralph McTell, che aveva un buon seguito all'epoca e grazie ad un brano di successo intitolato "The Streets of London," che aveva un bellissimo testo. McTell suonava la chitarra acustica in questo piccolo teatro e con lui c'era un tipo al contrabbasso. In quel periodo non lo sapevo, ma questo tizio era Danny Thompson, il grande contrabbassista britannico che ha suonato con molti musicisti di rilievo, tra cui John Martyn. Sai, quando sei giovane e non hai molta esperienza non riesci a differenziare i suoni dei vari strumenti. Beh, Danny credo che sia stato il musicista che mi ha fatto scoprire e capire la bellezza del suono profondo del contrabbasso. Ha avuto un'enorme influenza su di me, perché suonava il contrabbasso con un sacco di slide e armoniche e generava tanti timbri diversi dallo strumento. Non era però un jazzista puro. Un'altra scoperta importante è venuta ascoltando i dischi della Motown. Ricordo in particolare una gita scolastica, quando avevo 14 o 15 anni. Andammo in una pista di pattinaggio dove c'era un enorme altoparlante che diffondeva la musica della Motown. Il volume era altissimo e così ho potuto davvero sentire e apprezzare il suono del basso di James Jamerson, il leggendario session player della Motown, senza sapere bene cosa fosse. Ma ho capito ancora di più quanto amassi quel suono!

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