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Musiche Corsare a Bari

Musiche Corsare a Bari

Courtesy Vincengo Fugaldi

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Musiche Corsare 2023
Teatro Forma
Bari
20-23.4.2023

Sotto la direzione artistica di Roberto Ottaviano, la cui esauriente intervista è stata pubblicata su queste pagine alla fine di marzo, si è articolata in modo esemplare la seconda edizione di Musiche Corsare. Il festival, che quest'anno era dedicato a George Russell, ha palesato un'impostazione che in altri tempi sarebbe stata definita "di tendenza." Molti dei gruppi invitati infatti, senza praticare una sperimentazione esasperata o un'improvvisazione radicale, hanno presentato i risultati di una ricerca originale, consolidata da anni di esperienza e decisamente orientata verso un linguaggio jazzistico tonico, del tutto attuale, sempre di impronta acustica e spesso frutto di un'ibridazione fra tendenze e culture diverse.

A tale proposito si sono dimostrate particolarmente interessanti le due serate centrali della manifestazione, tutta svoltasi nel periferico Teatro Forma: in ognuna di esse di fatto sono stati messi a confronto due gruppi animati da intenzioni e messaggi per certi aspetti contrapposti. Ad aprire la serata di venerdì è stato il quartetto Disorder at the Border, formato dal ben coeso trio Daniele D'Agaro, Giovanni Maier, Zlatko Kaućić, a cui recentemente e in rare occasioni si è aggiunto l'olandese Tobias Delius, con il quale per altro D'Agaro vanta una lunga frequentazione, direi una brotherhood inossidabile, fin dalla sua lunga permanenza in Olanda. L'improvvisazione empatica e forbita praticata dai quattro ha permesso di coagulare un sound collettivo peculiare e corposo, avviando un dialogo free di grande spessore e impatto, non privo di risvolti ironici. Organici e dirompenti gli scambi di battute fra i due tenoristi, accomunati da uno spirito sornione e dissacrante: Delius parte abitualmente da scoppi di suono lancinanti per poi intraprendere brevi frasi melodiche, suadenti e dolcissime, affiancato dall'omologo sassofonista friulano che s'inerpica in un fraseggio ebbro e corrusco. Fondamentale il lavoro ritmico e timbrico svolto da Maier e Kaučič, anch'essi del tutto congeniali al progetto musicale: se è un'armonica gestualità a guidare la fitta, sussultante poliritmia del batterista sloveno, il pizzicato del contrabbassista procede sempre vigoroso e implacabile, pur variamente articolato.

Di tenore totalmente diverso la proposta che ha fatto seguito. Con il progetto Sweeter than the Day, Wayne Horvitz ormai da anni intende ricapitolare in chiave cameristica, elegante e pacata ma determinata, buona parte dei motivi ispiratori della sua musica. Per fare questo ha scelto di attorniarsi di tre validissimi jazzisti italiani: Francesco Bigoni, Danilo Gallo e Zeno De Rossi. Il raggiungimento di una dimensione classicheggiante, quasi di una rilettura autocelebrativa, si è avvalso di una diteggiatura pianistica selettiva e limpida da parte del leader, mentre Bigoni, al tenore e al clarinetto, si è dimostrato una "spalla" di particolare efficacia, esponendo interventi sinuosi, evocativi, perfettamente torniti. Anche l'apporto del contrabbassista e del batterista si è rivelato non solo attinente all'impostazione del pianista americano, ma anche arricchente in quanto intriso di tenui preziosismi. Nel finale, per un solo brano, è stata invitata sul palco un'ospite speciale: Robin Holcomb, moglie di Horvitz e sua sodale in tanti progetti del passato. La sua emissione vocale ha previlegiato un tono intimista, quasi casalingo, comune a tante altre cantautrici folk statunitensi. Dall'esibizione barese del gruppo è risultata la sublimazione di un personale mondo compositivo che coniuga jazz, blues, folk ed altro ancora, alternando slanci suggestivi e momenti di astrazione, evoluzioni circolari e ripensamenti onirici, campi lunghi e imprevisti sprazzi di swing...

"Jazz is the Teacher (Funk is the Preacher)": si potrebbe rispolverare questo titolo di un brano di James Blood Ulmer per introdurre certi aspetti della musica del Danilo Gallo Dark Dry Tears, che ha aperto la serata successiva. Le composizioni del bassista foggiano, costruite su linee melodico-ritmiche ostinate e sviluppate con andamenti dalla nettezza infallibile, si sono tinte di sapori colemaniani, di atmosfere dark, di frenesie più rock che free. Il leader ha esercitato un'autorevole leadership, manovrando la chitarra basso sulla quale è un maestro, dal tipico timbro morbido e avvolgente. I suoi input si sono riverberati nei contributi pregnanti dei partner chiamati ad interpretarli. Come nell'attuale versione di Disorder at the Border, anche questa formazione si basa sull'affiancamento di due tenoristi e clarinettisti: alla pronuncia di Francesco Bigoni, modulata con un incedere consequenziale e con attacchi levigati, raggiungendo risultati vagamente insinuanti, ha fatto riscontro il fraseggio di Francesco Bearzatti, ben staccato e nitido, a tratti deformato da slanci lirici, ottenendo esiti dirompenti. L'eccellente impostazione tecnico-estetica del drumming del maestro americano Jim Black, secca, perentoria, ineludibile, ha reso ancor più marcato e credibile il forte messaggio veicolato da questo gruppo di Gallo.

A un atteggiamento musicale ancora differente si è avuto l'opportunità di assistere con il duo, attivo dal 2009, formato dal chitarrista francese Marc Ducret e dal più giovane trombonista svizzero Samuel Blaser. Ottaviano, che ha presentato quasi tutti i concerti tracciando mirabili sintesi storico-estetiche dei gruppi che sarebbero saliti sul palco, li ha definiti "equilibristi, funamboli che a tratti mimano se stessi." In effetti, quella di un consapevole virtuosismo costituisce una chiave di lettura pertinente, in quanto è tramite un'evidente complessità tecnica, ma esibita con enorme facilità d'esecuzione, che viene data forma ad una multiforme visione compositivo-improvvisativa dalla varietà e intensità mutevoli. Nei loro brani un interplay sinergico ha originato situazioni molto diversificate: scambi di ruolo, idee allusive, cambi di direzione, eccentriche esasperazioni timbriche, fino a deformazioni ludiche e sottilmente ironiche, come nei confronti del barbieriano "Ultimo tango a Parigi." Eppure questo modo di procedere che non esclude il gioco o il parossismo, questa frenetica disinvoltura creativa, non imboccano mai una comunicativa smaliziata e accattivante, previlegiando sempre un contegno austero, spesso serioso e autocompiaciuto. In questo caso si può senz'altro parlare di una musica tipicamente europea, di matrice quasi "colta," a tratti intellettualistica, da gustare più con la mente che col cuore.

Negli ultimi due giorni del festival sono stati proposti due concerti mattutini, il primo dei quali a carico del MAT Trio, formato Marcello Allulli, Francesco Diodati ed Ermanno Baron. Seguire una loro performance significa immergersi in un'avventura attraverso varie situazioni concatenate e fortemente caratterizzate, a cui dà corpo un sodalizio rodato da una quindicina d'anni di esperienza comune. La prevalente concretezza del progetto sonoro non esclude fughe visionarie o soste meditative e poetiche; l'unitaria compattezza comunicativa della formazione si avvale del contributo delle tre robuste personalità. La chitarra di Diodati conduce un fraseggio fitto a volte frastornante, ricco di complessità armoniche, per poi affiancare lancinanti spunti melodici a quelli esposti in modo più esplicito, corposo e rotondo dal tenore di Alulli. Sulle pelli e sui metalli il drumming di Baron stende archi sonori di grande mobilità ritmica e dall'ampio spettro timbrico. In apertura del concerto barese una lenta, pullulante progressione, tramata da chitarra e batteria, ha fatto emergere un tema melodico di Tom Waits, declamato dalla voce del sax, avvolgente, lirica, decisamente ayleriana. Più o meno il medesimo schema—la compenetrazione fra crescendo vibranti e più decise enunciazioni melodico-ritmiche, dal carattere jazzistico ora più ortodosso ora più contaminato con il folk—ha contraddistinto anche i brani successivi.

Con la solo-performance mattutina di Boris Savoldelli ci si è trovati coinvolti in una dimensione decisamente ludica e in un ambito intenzionalmente pop. Con l'aiuto di una Loop Station e di altri strumenti elettronici, elaborati anche in collaborazione con il Politecnico di Milano, la sua voce viene di volta in volta stratificata, moltiplicata, alterata, definendo interpretazioni oblique di un repertorio variegato. L'intento parodistico diventa evidente in un improbabile karaoke messicano, mentre gli arrangiamenti di brani di Sting, dei Beatles o di altri autori pop conferiscono loro sorprendenti deviazioni rispetto agli originali. Ovviamente vengono affrontate anche composizioni di Monk, "All Blues" di Davis, "My Favorite Things" o altri famosi standard del jazz, ma portando sempre la pronuncia jazzistica su un terreno alieno e sdrucciolevole. A Bari, come in altre occasioni, Savoldelli ha intercalato l'esecuzione dei brani con divertenti introduzioni verbali che, simulando una fittizia funzione didattica, hanno presentato se stesso e la propria carriera ventennale con una simpatica, conviviale, sorniona autoironia. Appunto quest'aspetto, che ha stemperato qualsiasi proposito serioso o virtuosistico, ha rappresentato la peculiarità più convincente e qualificante dell'operazione musicale solitaria congegnata dal cinquantenne musicista lombardo.

La prima sera il compito di aprire il festival era stato assegnato al batterista Fabio Accardi con il progetto Feel of Drummatiko, titolo derivato dalla translitterazione linguistica di Filodrammatico. Si tratta di un lavoro programmatico per dimostrare il valore di composizioni di famosi batteristi, recuperate e riproposte da un ensemble tutto pugliese completato da musicisti prevalentemente giovani. Si sono susseguite quattro suite comprendenti nell'ordine brani di Jack DeJohnette, Peter Erskine, Tony Williams e Billy Cobham. Appunto la scelta degli autori e del repertorio ha rimandato a un preciso ambito cronologico e stilistico, ad una certa qualità tematica e ritmica. Non a caso in questo contesto Francesco Lomangino più che al tenore si è affidato ai colori del soprano e del flauto, con effetti seducenti, e le note sgranate del chitarrista Fabrizio Savino hanno assunto singolari inflessioni sonore a metà strada fra quelle di una tastiera elettrica e quelle di ance acute. In un paio di brani si è rivelato opportuno anche l'abbinamento, da parte di Walter Celi, fra le percussioni e la voce moltiplicata dal loop. La propulsiva conduzione ritmica del leader ha motivato anche i lodevoli Francesco Schetisi e Gianluca Aceto, rispettivamente pianoforte e basso elettrico. La proposta da Fabio Accardi è stata quindi una rivisitazione convinta e mirata di un momento storico in cui il jazz ha ricercato una fusione con altre culture e generi.

Non ci rimane che dare resoconto dell'ultima serata, che ha abbinato due concerti diversissimi ma ugualmente imperdibili, a cominciare dall'apparizione in solo dell'ottantaduenne pianista americano Dave Burrell. La sua performance si è aperta con "How Little We Know," una lenta e romantica ballad scritta assieme alla moglie Monika Larsson: su un timing imprevedibile e un po' claudicante si è appoggiato un tocco pianistico delicatissimo e struggente. Questo incipit ha dato le coordinate dell'intensissimo concerto che, mantenendosi prevalentemente su tempi rilassati, ha esposto temi ben disegnati e sviluppati con un senso dinamico contrastato, con grande sapienza armonica, con una diteggiatura che ha alternato vampate percussive e più dilatate fasi descrittive. Questo approccio si è conservato anche quando il pianista è passato dai suoi original all'interpretazione di standard, racchiudendo e raccontando un proprio mondo, meditativo ma non malinconico, analitico ma partecipato, che ha compendiato vari aspetti della cultura americana. Sublime la tensione interiorizzata con cui ha affrontato una madley comprendente "A Flower Is a Lovesome Thing," "Lush Life" e "My Funny Valentine," prima di passare a "Punaluu Peter," un suo brano insistito e percussivo. Solo in un paio di episodi, fra cui la coda di "Me and You," frutto sempre della collaborazione con la moglie, il pianista è arrivato ad intrecciare cadenzati grovigli free. Non poteva mancare in chiusura di concerto una danzante e divertita versione dello stride piano, stile in cui Burrell è sempre stato un interprete geniale e innovativo.

"What Love," la suite in nove movimenti che Roberto Ottaviano ha presentato come appuntamento finale del festival alla testa di un agguerritissimo ed inedito ensemble di undici elementi, può essere considerata la logica estensione del materiale proposto con il quintetto Eternal Love. Un titolo problematico che lascia aperte le porte a molte risposte, anche se la musica, formicolante di idee e soluzioni, è poi risultata granitica. Un tessuto armonico e timbrico, vivo e di cangiante ricchezza, ha lasciato emergere temi ben delineati esposti all'unisono, ma spesso contrappuntati da un solista in primo piano. Poderoso il raddoppio di contrabbassi (Danilo Gallo e Giovanni Maier) capace di conferire un riferimento armonico-timbrico costante e gonfio. Zeno De Rossi, al centro fra i due contrabbassi, ha intessuto da par suo una conduzione ritmica nitida e briosa, mentre il vibrafono, per l'occasione nelle mani del giovane e talentoso Michele Sannelli, ha aggiunto alla formazione un colore affascinante. Con autorevole personalità Alexander Hawkins ha svolto un ruolo connettivo armonico e dinamico.

La front line, da sogno, era composta da sei fiati di grande spessore: da sinistra Marco Colonna, Francesco Bearzatti, Gaetano Partipilo, Roberto Ottaviano, Ralph Alessi e Samuel Blaser. Fra i numerosi spazi solistici di cui ognuno degli undici elementi ha usufruito non è il caso di fare distinguo o pedanti analisi descrittive, e tanto meno graduatorie di valore, per il semplice fatto che tutti sono risultati superlativi: ognuno, animato da una sana competizione, ha dato il meglio di sé per trovare la giusta e più compiuta sintesi espressiva. Bisogna invece sottolineare la molteplicità di situazioni musicali dense e specifiche in cui ci si è trovati coinvolti: pieni e robusti collettivi, aggregazioni strumentali più ridotte e mirate, enfasi epiche e rari momenti di acquietamento, spazi larghi ed evocativi, sapori prelevati da diverse culture compresi i riferimenti al grande jazz del passato, motorie scansioni ritmiche e tanto altro ancora.

A far rivivere l'atmosfera che ha chiuso in modo esaltante Musiche Corsare 2023, satura di umori forti, propositivi e vitali, è auspicabile che si presentino altre occasioni concertistiche con la medesima formazione e magari che la proposta possa essere riportata anche su disco. Ma a conclusione di questo resoconto ci tocca introdurre una nota dolente. Fin dalla presentazione del primo concerto, Ottaviano ha annunciato che intende abbandonare la direzione artistica dell'ancor giovane festival pugliese e anche dell'attività concertistica dell'Associazione Nel Gioco del Jazz: secondo le sue parole, ogni esperienza ha un inizio, una sua parabola e una sua logica fine.

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