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Bergamo Jazz 2021

Bergamo Jazz 2021

Courtesy Luciano Rossetti (Phocus Agency)

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Bergamo
Varie sedi
16—19.9.2021

Nel febbraio 2020 su questo sito apparve una bella ed esaustiva intervista a Maria Pia De Vito, in qualità di neo nominata alla direzione artistica di Bergamo Jazz, prima donna dopo oltre quaranta edizioni del festival. Fra l'altro, in quella circostanza si colse opportunamente l'occasione per disquisire sul ruolo della donna nel mondo del jazz e non solo. Poche settimane dopo l'inaspettata esplosione del fenomeno Covid costrinse a cancellare tutte le manifestazioni di spettacolo. Ora, passato un anno e mezzo, si è potuti ripartire in tutta sicurezza con la quarantaduesima edizione del festival lombardo, che per quest'anno si è scelto di spostare a settembre. Quasi tutti i concerti, come in passato, sono stati ospitati per lo più in storiche sedi al chiuso. Purtroppo per le condizioni meteo avverse è stato soppresso uno dei pochissimi appuntamenti all'aperto, l'atteso concerto di Trovesi con NRG Bridges previsto alla Sorgente Nossana. Tuttavia è stata annunciata l'intenzione di recuperarlo nella prossima edizione, che tornerà a svolgersi nel tradizionale periodo primaverile, con inizio il 17 marzo e chiusura il 20. Nel complesso, le decisioni organizzative e le condizioni climatiche hanno fatto vivere l'edizione 2021 del festival come il primo degli eventi dell'incipiente stagione autunnale, piuttosto che uno degli ultimi della congestionata estate jazzistica.

Il recente duo Giovanni GuidiLuca Aquino ha aperto il festival con un concerto al Teatro Sociale a Bergamo Alta, rivisitando la cantabilità propria di canzoni amate e di standard. A differenza del CD edito in primavera da Musica Jazz, che mi aveva in parte deluso a causa del trattamento delle melodie dei brani affrontati che mi era sembrato troppo piatto e prevedibile, il concerto è risultato del tutto convincente; anche perché dal vivo si riesce a cogliere con immediatezza la natura del suono, i meccanismi dell'interplay, l'avvicendarsi dei ruoli, lo svolgimento della parabola improvvisativa. In questa apparizione il peso dell'improvvisazione appunto è stato rilevante, nelle lunghe introduzioni, nel ghermire i temi poco alla volta, nelle deviazioni, nel protrarre le conclusioni. I due comprimari, corroborati da sollecitazioni reciproche, da una motivazione e una coesione evidenti, sono comunque rimasti aderenti allo spirito degli originali, per lo più come intravisti da lontano, decantati da un velo di nostalgia, pur non mancando momenti di raccordo più corruschi e movimentati.

Nel trio di Marcin Wasilewski, una delle stelle attuali della scuderia ECM, il sound, dei singoli e dell'insieme, ha costituito la nota distintiva: un sound avvolgente, risonante, delicato e pieno al tempo stesso. Forse anche per via dell'amplificazione, il contrabbasso di Slawomir Kurkiewics ha rappresentato il perno della situazione con quel suo timbro scuro e quelle note sgranate, potenti ma selezionate con cura, memori dell'insegnamento del maestro Charlie Haden. La leggerezza della diteggiatura rapsodica di Wasilewski, unita a una grande mobilità dinamica, oltre che alla sua autorevolezza di leader, ha costruito un andamento narrativo dall'evocativa qualità melodica. La leggiadria professionale del batterista Michal Miskiewics ha aggiunto un commento continuo e sensibile, a tratti spumeggiante. L'affiatamento e la visione unitaria che da tempo legano i tre jazzisti polacchi ha rivestito un repertorio comprendente soprattutto original del pianista, ma anche un brano di Joe Lovano e composizioni di Bach. In definitiva il loro approccio è apparso di scuola europea, anche se nei brani più tonici del finale non erano per nulla estranei lo spirito del blues e perfino del funky.

Sempre al Teatro Sociale, nell'ultimo pomeriggio del festival, si è ascoltato il quartetto Tinissima di Francesco Bearzatti nel suo ultimo progetto Zorro, che si è confermato in linea con i precedenti, mirati lavori del gruppo. La suite, organicamente articolata in un susseguirsi di movimenti che racchiudono episodi della storia del famoso personaggio immaginario, alterna momenti brevi, lapidari e temi principali che vengono sviluppati in collettivi free, in duetti e solo mirati, in momentanee distensioni, in slanci lirici... I vari passaggi sono concepiti e concatenati in modo da condurre inesorabilmente ad un finale esaltante. Con il variare dei contenuti narrativi si modifica anche la pronuncia dei singoli strumentisti, in particolare di Bearzatti al tenore e clarinetto e di Giovanni Falzone alla tromba, sempre entusiasti e immaginifici interpreti delle vicende del personaggio narrato. Alle spalle dei due fiati si coagula l'infallibile sostegno fornito da Danilo Gallo e Zeno De Rossi, anch'essi fondamentali nel creare il sound tipico della formazione. Tutto questo si è verificato anche nel concerto bergamasco, dove per l'occasione su uno schermo alle spalle dei musicisti venivano proiettati i risultati estemporanei del live painting di Davide Toffolo. Come in altri casi, a mio parere si è trattato di un'operazione velleitaria e non indispensabile, anzi peggiorativa e fuorviante in quanto motivo di distrazione per l'ascoltatore dallo svolgimento musicale.

Altrettanto significativi dell'attuale realtà jazzistica italiana sono stati i due gruppi ospitati in concerti pomeridiani all'Auditorium di Piazza della Libertà. Il quintetto Eternal Love di Roberto Ottaviano ha rinnovato il suo omaggio entusiastico e trascinante a un certo jazz collettivo, di matrice free, ma anche radicato nella ritualità ancestrale della Madre Africa, nella lapidaria concisione del bebop, nelle vocianti polifonie di New Orleans. Tutto sommato, in questa sorta di compendio di una ben codificata tradizione, le strutture degli arrangiamenti erano abbastanza semplici e forse è anche per questo che tutto ha funzionato a meraviglia. I temi ben caratterizzati melodicamente e ritmicamente, a firma dell'Art Ensemble Of Chicago, di Don Cherry, Misha Mengelberg, Abdullah Ibrahim, intrecciati con composizioni dello stesso Ottaviano sulla stessa lunghezza d'onda, hanno agito da trampolino di lancio per intensi sviluppi collettivi e individuali su un drive incalzante. Il valore dei singoli membri del gruppo, nessuno escluso, ha riempito di autentica consistenza gli spazi solistici: oltre al leader al soprano, Marco Colonna ai clarinetti, Giorgio Pacorig al pianoforte, Giovanni Maier al contrabbasso e Zeno De Rossi alla batteria.

Il pomeriggio seguente era di scena il trio Hobby Horse, formato una decina d'anni fa dal sassofonista Dan Kinzelman, dal batterista Stefano Tamborrino e da Joe Rehmer al basso elettrico, tutti anche alla voce e abbondantemente supportati dall'elettronica. Nella loro musica si sono stratificati vari umori: su una base ritmica per lo più regolare e cadenzata, scandita ossessivamente, è prevalso un abrasivo atteggiamento punk-rock, che ha portato a coriacee declamazioni sonore. Un testo cantato all'unisono dai tre, a metà strada fra il work song e lo spiritual, è sfociato repentinamente in un collettivo d'inaudita, scabra energia, che ha incluso un episodio batteristico d'ineludibile durezza percussiva. Poco dopo, la sovrapposizione elettronica delle linee melodiche della voce dello stesso Tamborrino ha prodotto un'atmosfera più dilatata e misteriosa, che ha poi incorporato una veloce e monotona declamazione rap da parte di Kinzelman e Rehmer. E così via si sono susseguite varie situazioni di forte impatto, fino alla conclusione lenta, serena, pacificata proposta con il secondo bis.

Un'altra sede coinvolta, come già in altre edizioni del passato, è stata la Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea, dove si è svolta nello spazio all'aperto la solo performance mattutina di Paolo Angeli. Nel 1995 il chitarrista ha iniziato ad esibirsi con la sua chitarra sarda preparata, uno strumento elaborato con pedali, martelletti, molle e quant'altro, in grado di creare una sonorità inedita, ronzante e aliena. Da allora il musicista di Palau ha continuato a perfezionare via via questa sua invenzione esclusiva, questa creatura della sua sensibilità proiettata nel futuro e nello stesso tempo radicata nella tradizione della Sardegna e di altre culture del Mediterraneo. Nel 2017 è subentrato l'innamoramento per la musica dei Radiohead, che egli ha preso a reinventare senza poter fare a meno di ibridarla con tutti gli accorgimenti tecnici, espressivi e poetici precedentemente acquisiti. Di tutto questo si è avuta una prova convincente e matura nell'apparizione bergamasca: il percorso narrativo è risultato chiaro e sereno, circonfuso di bordoni ritmici, di sfumature tenui o ruvide, di suggestioni sonore, che hanno portato la musica in una dimensione senza tempo. In un paio di occasioni, all'inizio con un "Miserere" in latino dedicato a tutte le vittime della pandemia e alla fine della performance, si è aggiunta la sua voce con le modulazioni tipiche del canto sardo.

La sezione Scintille di Jazz, curata da Tino Tracanna, ospitata in vari spazi della città e dedicata alle giovani promesse del jazz italiano, avrebbe meritato una attenzione ben maggiore; personalmente non posso che riferire dei due concerti a cui sono riuscito ad assistere. Quello della violinista biellese Anais Drago a capo del suo sestetto The Jellyfish è un progetto ambizioso, in cui il riferimento alla musica di Zappa è solo un punto di partenza, un pretesto, una fonte da trasgredire e reinventare con propri original. Gli arrangiamenti più o meno complessi hanno dato forma ad atteggiamenti ora accademici ora ben più aperti e spericolati, mantenendo comunque lo svolgimento improvvisativo all'interno di una leggibile linearità. In questo contesto, ma non in altri, come strumentista la Drago non può che ricordarci Jean-Luc Ponty.

L'aspetto compositivo ha un'importanza predominante anche nel quartetto della bergamasca Francesca Remigi. Nel suo concerto si sono delineati itinerari variegati, prevedendo momenti riflessivi, temi ben scanditi, accensioni dinamiche, ripensamenti, cambi di direzione e diverse aggregazioni strumentali, mettendo in evidenza l'apporto dei singoli: soprattutto Federico Calcagno al clarinetto e clarinetto basso, col suo fraseggio spigoloso e lucidissimo, e Filippo Rinaldo che al piano elettrico ha tramato un tappeto fluido e avvolgente. Quanto alla Remigi, dal retro della sua batteria ha esercitato una leadership serena, quasi olimpica, ma sicura, emergendo con un drumming mai banale, timbricamente molto personale.

Ma l'atteso main stage per tre dei concerti serali era ovviamente il Teatro Donizetti, riportato a nuova vita dopo un restauro durato circa tre anni. Dopo l'attenta operazione di maquillage, l'accogliente sala presenta ora una patina uniforme tendente al "neutro," forse un po' troppo anonima. Per questa sede erano previsti i grossi calibri, anche internazionali. La prima sera però, a causa della defezione all'ultimo momento del quartetto di Kurt Elling, si è dovuto procedere in extremis alla sua sostituzione con la Lydian Sound Orchestra diretta da Riccardo Brazzale con ospiti David Murray e Hamid Drake. La Lydian, con alle spalle trent'anni di vita, ha presentato un collaudato nonetto, in cui spiccava la sezione ance con Robert Bonisolo, Mauro Negri e Rossano Emili. Su un repertorio comprendente brani più o meno famosi di Giorgio Gaslini, Billy Strayhorn, Thelonious Monk ed altri, i puntigliosi arrangiamenti hanno strutturato andamenti diversificati, includendo i mirati spazi solistici per i vari membri della formazione, salvo ovviamente concedere occasioni espositive ben più consistenti all'ospite Murray. Quest'ultimo, con la sua personale pronuncia abrasiva, si è messo in evidenza quasi in ogni brano, in particolare con un assolo infuocato e interminabile in "Chelsea Bridge"; in un paio di occasioni inoltre è risultato rivelatore e godibile uno scambio di battute con il tenore di Bonisolo. Quanto a Drake si è attenuto soprattutto a una funzione di sostegno controllata, quasi appartata ma solida, come è previsto per un batterista d'orchestra. Nel complesso, a parte il protagonismo di Murray, l'esibizione è parsa un po' trattenuta, "ufficiale," senza crescere in slanci collettivi memorabili.

La sera seguente si è ascoltato un singolare quartetto italo-americano transgenerazionale di recente formazione, che testimonia la forte stima reciproca e la voglia di collaborare che legano da tempo il nostro Franco D'Andrea, maestro del rigore, e l'estroverso Dave Douglas. Il periodo del Covid ha permesso loro di scambiarsi appunti e partiture per mettere a punto un repertorio e un approccio interpretativo che tenesse conto della concezione intervallare studiata dal pianista meranese. A completare la formazione sono stati chiamati due personaggi emergenti che fra l'altro hanno improntato la loro carriera più come compositori-leader che come partner-strumentisti: la giovane contrabbassista Federica Michisanti, già ospitata a Bergamo nel 2019 quando Douglas era direttore artistico, e il versatile batterista Dan Weiss, a proprio agio in qualsiasi contesto. A mio parere il quartetto, che ha già qualche concerto alle spalle, non è riuscito ad esprimere un'integrazione assoluta fra le esperienze e le possibilità creative delle quattro forti individualità che lo compongono. I non pochi aspetti riusciti—i bei temi, alcuni assoli pregevoli, un interplay sufficientemente compatto—non sono bastati ad annullare la sensazione di una certa prudenza, di una ricerca non ancora conclusa, di un rodaggio in corso per raggiungere il dovuto affiatamento poetico-espressivo e una propria cifra stilistica unitaria.

La chiusura di Bergamo Jazz 2021 al teatro Donizetti è stata affidata al trio di Tigran Hamasyan. La qualità melodica dei suoi melismi vocali, che in alcuni brani assumono l'andamento di una vera e propria canzone, lenta e cadenzata, ma anche la ritorta circolarità del suo pianismo, che a volte prende forme ubriacanti, percussive e reiterate, simili a quelle di certi nigunim del chassidismo ebraico, posseggono la ritualità della preghiera, una dimensione spirituale diffusa e immanente. Il basso elettrico di Evan Marien ha fornito un sostegno morbido e costante, mai debordante; ottimo anche il batterista Arthur Hnatek, dotato di quelle metriche scandite e di sapore etnico che si coniugano alla perfezione col pianismo del leader. Indubbiamente il caratterizzato mondo musicale del pianista armeno, che riflette un'esigenza personale autentica e profonda, esprimendosi ora attraverso una serenità quasi fatalista ora con un'eccitazione lirica e visionaria, è riuscito ad irretire il pubblico che, a Bergamo come in altri appuntamenti recenti, ha risposto con entusiastiche ovazioni.

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