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Torino Jazz Festival 2013

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Torino Jazz Festival 2013 - 26.04-01.05.2013

«Un festival è il modo per dare senso artistico alla vita». Questa frase è firmata da Stefano Zenni, direttore artistico del Torino Jazz Festival 2013, manifestazione che dal 26 aprile al primo maggio ha visto la partecipazione di un pubblico numeroso ed entusiasta, che ha fatto da cornice ai tantissimi concerti in programma - oltre 130 e tutti a ingresso gratuito -, e a una serie infinita di eventi paralleli. Zenni ha costruito il cartellone intorno all'idea di "globalità," parola che è apparsa spesso nei suoi discorsi introduttivi agli eventi, intesa sia dal punto di vista stislitico sia dell'espressione artistica.

Oltre alle performance musicali abbiamo potuto assistere a mostre multimediali e fotografiche, proiezioni di film (diversi dei quali firmati da Roman Polanski), presantazioni di libri, reading, eventi speciali e collegamenti culturali, come il "Focus Francia," iniziativa che ha incluso degli scambi artistici con il Festival del Jazz di Nantes, il Conservatorio di Parigi, la Cité de la Musique e la partecipazione attiva di gruppi francesi o misti italo-francesi, come Odwalla. Una tessitura che ha preso vita in molte location sparse nel capoluogo piemontese, dalle grandi piazze ai piccoli club, e che ha coinvolto e "colorato" ogni angolo della città, con striscioni per le strade e richiami al festival di ogni genere, come i cartelloni a tema o le sagome di cartone a forma di strumenti sistemate nelle vetrine dei negozi.

E che in città si respirasse aria di festa musicale - nonostante il cielo plumbeo e minaccioso - ci è sembrato evidente già dall'arrivo in stazione nella giornata inaugurale, poiché non si contavano le custodie rigide di ogni tipo portate in spalla da tanti ragazzi. Molti erano studenti, visto che il TJF 2013 prevedeva anche una sezione "Education," con la partecipazione di vari gruppi di conservatori europei e la masterclass con docenti della Juilliard School of Music; altri erano musicisti chiamati a dar vita alla kermesse. Custodie che sono tornate davanti ai nostri occhi nelle fotografie di Guy Le Querrec, in mostra al Museo Regionale di Scienze Naturali, che ritraggono tanti grandi jazzisti del passato - come Monk e Petrucciani - in momenti di vita quotidiana, in viaggio o sul palco, fissate in un fantastico bianco e nero e in grado di cristallizare per sempre una storia di grande fascino artistico. Molte sono state scattate a Parigi, come del resto ci ha confermato una signora del posto vogliosa di socializzare, tappa obbligata nei tour in Europa che molti jazzisti americani affrontarono negli anni Sessanta.

La mostra ha fatto da perimetro al concerto di Carlo Actis Dato, dal titolo "Il giro del sax in 80 note": vestito di un camicione sgarciante, ha alternato sax baritono e clarinetto basso, raccontando, tra un brano e l'altro, storie senza apparente filo logico sull'Africa, l'oriente e l'immaginazione di luoghi lontani. La sua è stata un'ora di musica basata su melodie ipnotiche e circolari, momenti d'interazione con il pubblico, in mezzo al quale ha passeggiato suonando e prendendo tangenti e traiettorie disparate che hanno divertito e affascinato i presenti. Sorseggia una Finkbrau in lattina prima di prendere il tenore e dedicare l'ultimo pezzo alla figura di Albert Ayler.

Il fitto programma ci ha imposto solo un rapido sguardo alla mostra Ars Captiva Groove - con pittura, video, installazioni e sonorizzazioni di ambienti - , perché in piazzale Valdo Fusi si sono svolti i concerti delle Big Band dedicati a due figure imprescindibili della storia del jazz: Dizzy Gillespie e Charles Mingus. La musica del trombettista è stata omaggiata dalla band con a capo il batterista Gianpaolo Petrini, che ha eseguito la suite in cinque movimenti Gillespiana ("Prelude," "Blues," "Panamericana," "Africana," "Toccata"), nella quale hanno avuto modo di mettersi particolarmente in mostra i musicisti della sezione fiati. Set molto apprezzato dal pubblico, numeroso e incurante delle prime leggere passate di pioggia, come del resto il concerto successivo che ha visto salire sul palco la Mingus Dynasty insieme con la Torino Jazz Orchestra, per ripercorrere alcuni passi fondamentali della vicenda artistica del contrabbassista e compositore di Nogales. Abbiamo assistito a momenti di rara intensità espressiva, come quelli raccontati in "Fables of Faubus," per una performance che ha impressionato per la bellezza e la consistenza del suono d'insieme.

Il festival, oltre a ricordare figure del passato, ha inglobato nel suo cartellone anche icone jazzistiche ancora in grado di scrivere pagine del presente, come McCoy Tyner, Abdullah Ibrahim, Roy Haynes e il nostro Enrico Rava. Il suo quintetto (Roberto Cecchetto: chitarra; Giovanni Guidi: pianoforte; Stefano Senni: contrabbasso; Zeno De Rossi: batteria) è stato protagonista, insieme con l'Orchestra del Teatro Regio di Torino condotta da Paolo Silvestri, del primo grande concerto serale in programma in Piazza Castello, con il progetto Rava on the Road, ispirato alla letteratura di Jack Kerouac. Una sfida importante e attesa con una grande curiosità, che ha spinto in tantissimi a riempire la piazza. Si è trattato di un concerto che con la Beat Generation ha trovato un punto d'ideale congiunzione grazie ai soli elettrici di Cecchetto, mentre per il resto la scaletta ci ha regalato dei temi con pochi momenti jazzistici, ma resi importanti dal suono e al grande respiro timbrico - veramente impontente - dell'orchestra. Rava sul palco sembrava una figura proveniente da un altro pianeta: forse per i capelli bianchi, la camicia bianca e la luce, anch'essa bianca, che lo ha illuminato fino a renderlo quasi trasparente. La sua voce strumentale è stata come di consueto riconoscibile, anche se meno imprevedibile del solito, come era inevitabilmente imposto da un'organizzazione sonora pensata nel dettaglio, e come lo stesso Rava aveva dichiarato nei giorni precedenti: «Suonerò molto, ma l'interesse di questo progetto risiede nella musica scritta, non nell'improvvisazione. Suonare dal vivo significa sempre camminare sul filo, senza rete e senza alcuna garanzia, ma questa volta la sorpresa sarà un po' più sottile, non starà tanto in ciò che farò quanto nell'avere a disposizione un'orchestra per il mio lavoro». Al contrario, l'arrivo della piogga a metà set non ha sopreso quasi nessuno, poiché era prevista da giorni, e che a molti ha ricordato il nubifragio dell'edizione 2012 durante il concerto di Carla Bley.

Coincidenze sfortunate, che però non sempre portano a situazioni negative, e che a volte si risolvono in avvenimenti epici. Poco dopo terminata l'esibizione di Rava, nella notte del "Fringe" - la sezione del festival riservata ai concerti nei club, ai progetti alternativi e a tutto ciò che ruota intorno al programma principale - era fissata l'esibizione di Furio Di Castri (direttore artistico di questa parte di cartellone), in solo su una zattera in mezzo al fiume Po. Nel frattempo la pioggia si era fatta davvero consistente e quando il contrabbassista è arrivato al Circolo Canottieri Esperia erano in molti a credere che la performance non avrebbe avuto luogo, tranne lui: «Non ho paura di niente, temo solo per il contrabbasso, l'acqua potrebbe danneggiarlo in maniera irreparabile, ma suono lo stesso, ditemi quando tutto è pronto». Purtroppo un grosso tronco d'albero si era incagliato alla zattera e per motivi di sicurezza Di Castri è stato costretto a suonare sulla sponda del fiume, dando però vita a un momento unico: il suono vibrante delle sue corde è arrivato lontano, e per un attimo c'è sembrato che la città si fermasse a osservarlo, durante un passaggio di passione e arte pura, durato una manciata di minuti ma che ai pochi presenti è sembrato infinito. Così, sotto la pioggia incessante, qualcuno si porterà per sempre in mente un evento straordinario.

Poche ore prima Di Castri era stato protagonista di un'altra performance molto riuscita: al club Blah Blah Flavio Boltro lo aveva chiamato per riunire il trio con Manhu Roche alla batteria, per un set denso in un'atmosfera caldissima, dovuta anche all'affluenza del pubblico che ha riempito in maniera impressionante il piccolo club situato nel centro cittadino. Boltro ha suonato con grande amore e intensità, e questo suo modo di esprimersi sul palco è riaffiorato quando il giorno dopo ha dichiarato ai giornalisti: «Quello che i giovani devono capire è che la musica è una cosa importante, ci vuole una grande passione. Quando poi si è davanti al pubblico questi elementi emergono e la gente che ti ascolta se ne rende conto».

Conferenza stampa che ha visto protagonista anche un Roy Paci come di consueto carico di energia e grinta. Il trombettista ha risposto in maniera schietta e divertita alle domande dei giornalisti. Riguardo alla situazione musicale nel nostro Paese: «In Italia c'è una sorta di paura a esporsi in contesti stilisticamente diversi dal mainstream. Quando un musicista si espone, anche nel sociale, rischia di perdere ingaggi. Questa è la verità. C'è paura di schierarsi e molti fanno come gli struzzi, mettono la testa sotto terra e vanno avanti facendo finta di niente». A proposito dei Talent Show: «Non critico chi emerge da quei contesti, critico il modo in cui questi programmi sono organizzati; sono il continuo del Festival di Sanremo e nei quali deve vincere un determinato tipo di forma musicale. Producono artisti che non hanno niente di proprio, ma non per colpa loro». Su sé stesso: «Sono un musicista indipendente, nessuno mi ha mai vincolato nelle mie scelte artistiche», e chiaramente sulla recente ripresa del progetto CorLeone: «Sono passati otto anni dall'ultimo disco (Wei Wu Wei, ndr), perché il main project Aretuska mi ha portato via molto tempo, mi ha risucchiato. Ora ho cambiato tutta la band per dare un taglio ancora più spigoloso, oserei dire punk, perché rock è una parola troppo leggera per descrivere quello che facciamo. Siamo aggressivi, feroci, prediligiamo le frequenze medio alte e contaminiamo il tutto con l'elettronica. Sono contaminato da sempre, del resto sono nato vicino a una raffineria (sorride, N.d.R.)». Sul palco, nel tardo pomeriggio, la band del trombettista siciliano (Andrea Vadrucci: batteria; Alberto Turra: chitarre; John Lui: synth e chitarra; Guglielmo Pagnozzi: alto; Marco Motta: baritono) ha confermato le intenzioni espresse in precedenza a parole, con un set, di circa un'ora, dirompente, basato sull'impasto di fiati e chitarre elettriche che non hanno dato tregua ai numerosissimi presenti. Difficile trovare una definizione stilisticamente adeguata e intercettare quello che il progetto CorLeone riesce a portare allo stato di fusione; la loro è una sorta di ricerca avanguardistica di un modo che unisce frenesia e potenza, fantasia e grande propensione al rischio timbrico-melodico.

Paci è un musicista che non è mai stato fermo, e il suo percorso artistico è stato finora caratterizzato da tanti progetti e collaborazioni di vario genere, come quello di Banda Ionica, dove la sua strada si è incrociata con quella di Cristina Zavalloni. La cantante bolognese, insieme alla Radar Band, è salita sul palco di Piazza Castello per il primo dei due concerti della serata "Vocal Night". Il loro è stato un concerto incentrato sui brani dell'album La donna di cristallo, nel quale abbiamo avuto modo di apprezzare le doti di una grande cantante e interprete, in grado di andare in ogni territorio sonoro grazie a un timbro vocale formidabile, personale e affascinante. Al suo fianco si è mossa una band di livello assoluto, che ha trovato i suoi punti di forza nella spinta ritmica di Alessandro Paternesi alla batteria e Daniele Mencarelli al basso elettrico, e nei soli melodicamente raffinati di Cristiano Arcelli al sax alto e di Fulvio Sigurtà alla tromba. Come bis la Zavalloni ha scelto di rivisitare lo standard "My Favourite Things," lasciando poi la scena per il secondo concerto della serata al quartetto di Tania Maria.

L'artista brasiliana ha proposto un set coinvolgente e ritmicamente vivo, capace di far ballare diversi spettatori presenti sotto il palco. Fondamentale è stato l'apporto alle percussioni di Edmundo Carneiro, come del resto l'asse ritmico composto da Hubert Colau alla batteria e Marc Bertaux al basso si è rivelato il motore instancabile di una musica in grado di unire il pubblico e ipnotizzare persone provenienti da luoghi, di nascita e sociali, distanti tra di loro. Una musica globale, com'era nell'intenzione di questo festival, che ha intrecciato musiche di ogni genere, dall'elettronica al gipsy jazz - a tal proposito, molto interessante la presentazione del libro, curata da Francesco Martinelli, Django, vita e musica di una leggenda zingara di Michael Dregni -, dalla fusion alla world, con in cartellone concerti come quelli di Mulatu Astatke o Mike Stern, alla musica popolare piemontese. Un calderone di proposte incandescente - quasi come il tè alla menta che ci ha offerto il gentilissimo kebabbaro di via Po -, capace di aggregare un numero impressionante di persone, che durante le giornate del festival sono rimbalzate come palline da flipper tra i palchi sparsi per la città, animati da Gianluca Petrella, Nguyên Lê, Maurizio Giammarco, Eric Legnini, Tineke Postma, Emanuele Cisi, Luigi Bonafede, Luigi Tessarollo, Pilar e molti altri.

Per le strade arrivavano di continuo le note suonate nei locali e quando il tutto sembrava vinto dal silenzio ci hanno pensato le marching band a infiammare la situazione, come quella dei Funk Off, che nella giornata conclusiva ha anche accompagnato il concerto finale di Simone Cristicchi. A volte siamo rimasti disorientati dai colori, suoni e profumi che Torino ha emanato durante i giorni del festival, al punto da farci immaginare per un attimo di vivere in quelle righe dei libri di storia del jazz che descrivono la vivacità della New Orleans d'inizio Novecento, lì dove l'incontro di etnie e culture ha dato forma al jazz. Oggi questa musica è più che mai "la musica di tutte le musiche" e ha forse per sempre perso ogni steccato stilistico. Riflessioni che ci accompagnano nel cammino di rientro verso l'albergo, e mentre respiriamo un'insolita aria priva di note suonate arriva la melodia di un violino di un musicista ambulante sotto i portici di Piazza San Carlo a ricordarci che il cuore del jazz, e quindi delle musiche, a Torino non cessa mai di battere.

Foto di Antonio Baiano (la seconda, la quarta, la quinta e la sesta) e Roberto Paviglianiti (la prima e la terza).

Altre foto di questo concerto sono disponibili nelle gallerie dedicate ai concerti di Roy Paci, Gianpaolo Petrini Big Band, Mingus Dynasty meets Torino Jazz Orchestra, Enrico Rava e Cristina Zavalloni.


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