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Simone Massaron: Unusual Guitar Player

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Ho sempre pensato che la chitarra elettrica finisce con il jack che va all'amplificatore e quindi il tuo suono è fatto anche dai pedali che usi
Dopo il convincente esordio intitolato Breaking News e la partecipazione al disco di Daniele Cavallanti Smoke Inside , il giovane chitarrista milanese Simone Massaron (classe ’71) ha destato la curiosità degli addetti ai lavori.

Musicista eclettico, improvvisatore spericolato, accanito sperimentatore, Massaron si sta affermando rapidamente come una delle realtà più promettenti delle sei corde made in Italy. Lo confermano la fiducia e la stima dei colleghi e, soprattutto, l’ingente mole di stuzzicanti progetti messi in cantiere. L’abbiamo contattato per una chiacchierata e abbiamo scoperto un ragazzo entusiasta, autenticamente innamorato del proprio strumento e del proprio mestiere.

All About Jazz: Cominciamo con la classica domanda sull’infanzia. A che età ti sei avvicinato alla musica. So che la chitarra non è stata il tuo primo amore. Raccontaci le tappe della tua conversione alle sei corde.

Simone Massaron: Ho cominciato con il pianoforte a 4 anni. Mio padre era un direttore d’orchestra e quindi il piano e la musica lirica erano di casa da noi. Ho preso lezioni fino a compiere più o meno il primo quinquennio di studi, ma più che altro adoravo sedermi al piano e suonare liberamente tutto quello che poteva passarmi per la testa, con i limiti della mia età. Credo fosse un chiaro istinto all’improvvisazione. Poi, intorno agli otto anni sono passato alla batteria, suonando nelle varie band di ragazzi di cui il mio quartiere era fortunatamente fornito. Qualche anno dopo sono arrivato alla chitarra, ma senza abbandonare il mio ruolo di batterista. Credo che piano e batteria, che ora sono i miei strumenti “complementari”, mi abbiano aiutato molto a svilupparmi come musicista.

AAJ: Ogni chitarrista che si rispetti ha un disco del cuore o un brano epifanico: l’incontro folgorante con un musicista che, in un momento cruciale della propria formazione, l’ha portato alla fatidica decisone di dedicarsi anima e corpo alla chitarra. Qual’è il tuo?

S.M.: Per quanto riguarda i brani, credo “Whatever You Want” degli Status Quo, un successo incredibile ai miei tempi. Mi ricordo che passavo ore in camera facendo finta di suonare sul quel pezzo con una chitarra giocattolo a forma di 335 (che poi ho distrutto giocando a fare Hendrix). Poi l’incontro con il suono di Mark Knopfler mi ha portato definitivamente alla chitarra. Il suo suono nei dischi dei Dire Straits mi colpì moltissimo. Ancora adesso mi accorgo che mi ha influenzato molto, specialmente quando suono la chitarra acustica o quando scrivo una ballad. Poi sono arrivati i Deep Purple. Dunque, per quanto riguarda i dischi, direi Making Movies dei Dire Straits e Machine Head dei Deep Purple.

AAJ: Poi, a metà degli anni ottanta, è nata la passione per il jazz e l’improvvisazione. Com’è successo e quali sono state le tue prime esperienze musicali e formative?

S.M.: Come tanti chitarristi della mia generazione sono stato fulminato da Pat Metheny. Il primo disco che acquistai fu Song X con Ornette nel 1985 e ne rimasi stupefatto, e sconvolto. Poi ho comprato anche American Garage e da quel momento sono diventato un vero fan di Pat Metheny. Subito dopo ho scoperto Wes Montgomery e quindi ho vissuto il classico periodo in cui diventi un fanatico di jazz, un po’ snob. Addirittura mi vestivo come Pat Metheny: magliette a righe, foto di una Gibson 175 in tasca (non potevo assolutamente permettermela) e sorriso positivo da “good country boy”. Ho cominciato in quegli anni a studiare jazz e a suonare in un quartetto di amici con un sassofonista. Sono stati anni stupendi, studiavo molto, suonavo ogni minuto libero e mi bastava. Non avevo grande vita sociale, ma in quegli anni ho sviluppato il mio personale rapporto con lo strumento. Credo sia una sensazione fisica, di sicurezza, ho sempre pensato alla chitarra come alla “security blanket” di Linus.

AAJ: E veniamo al presente. È uscito nel 2006 Breaking News il disco che ti ha visto al fianco di Tiziano Tononi, Daniele Cavallanti, Elliott Sharp e Steve Piccolo. Rock, blues, avant, no-wave, New Orleans: hai fatto veramente il possibile per rendere la scaletta imprevedibile. Sono così tante le anime della tua chitarra?

S.M.: Breaking News è stato pensato in una settimana e registrato in sei ore. Probabilmente proprio per questo è il giusto ritratto del mio modo di pensare la chitarra. Ho cercato di fare un disco che suonasse rock, dove non ci fossero “ego trip” del tipo “ok, adesso arriva il mio assolo”, ma un disco che avesse un suono di insieme dettato dalla scelta dei membri della band. La diversità delle composizioni credo dipenda dal mio modo di scrivere. Ogni cosa mi ricorda una scena, un luogo e quindi mi risulta semplice scrivere passando da un genere all’altro, anche se credo che il disco abbia un suo sound ben delineato. In questo caso le mie chitarre, che sono molto diverse tra loro, mi hanno aiutato a inseguire le sonorità che cercavo.

AAJ: Che ruolo ha giocato in questo progetto la neonata LongSong Records di Fabrizio Perissinotto?

S.M.: Un ruolo fondamentale, considerato che ha permesso che questo accadesse. Fabrizio Perissinotto è un produttore all’antica come è difficile trovarne oggi, specialmente nel mondo del jazz italiano. La LongSong è all’antica, e i musicisti vengono chiamati e scelti in base a un’appartenenza di stile che è il pensiero del produttore. I dischi della LongSong nascono da idee di Fabrizio, che pensa cosa chiedere al musicista che ha scelto. L’esempio più lampante è Smoke Inside di Daniele Cavallanti (con ospite Nels Cline) che è stato pensato e discusso a tavolino da produttore e musicista. Mi ritengo molto fortunato ad essere seguito da un etichetta così seria, a volte confondibile con mecenatismo puro, ma sempre tesa a produrre musica di qualità. La presenza fissa di un produttore artistico in studio (sempre Perissinotto) è una cosa a cui i jazzisti della mia generazione non sono abituati, ma è una presenza utile e fondamentale.

Qualche giorno fa ho partecipato all’ultimo disco LongSong, un progetto di Giovanni Maier con Zeno de Rossi alla batteria, Giorgio Pacorig e Alfonso Santimone alle tastiere, Maier al basso elettrico e io e Marc Ribot alle chitarre. E’ stata una grande session e una bella produzione. Anche in questo caso il lavoro tra Fabrizio e Giovanni è stato affrontato insieme nei minimi particolari. La LongSong è un etichetta “guitar oriented” e quindi la presenza di Marc Ribot era un qualcosa di molto atteso. Suonare con loro è stato bello. Marc poi è un musicista di enorme intelligenza e un chitarrista incredibile. Si è complimentato con me per il mio modo di suonare e questo mi ha dato grande soddisfazione.

AAJ: Com’è stato entrare in sala d’incisione con un gigante della chitarra contemporanea come Elliott Sharp? In che modo siete entrati in contatto?

S.M.: Da tempo sono amico e collaboratore di Steve Piccolo e quindi lui è stato il tramite di questo incontro. Elliott aveva un “day off” nel suo tour in solo e Steve mi chiese se potevo organizzargli qualcosa. Avevo già conosciuto Elliott a un suo concerto a Milano e gli avevo dato una copia del mio The Common Man. Steve lo ha chiamato dicendogli che lo volevo per una registrazione e lui ha accettato definendo interessante quello che facevo. E’ stato un pomeriggio intenso. Elliott è arrivato in sala avendo appreso da solo un giorno che era padre di due gemelli e, quindi, molto ispirato e galvanizzato dalla notizia.

Suonare con musicisti di quella statura è molto formativo E’ imparare sul campo senza fronzoli o pensieri inutili. Ho messo alla prova me stesso e la mia fiducia in quello che suono e scrivo. Adesso, a distanza di quasi due anni dalla session, posso dire di essere soddisfatto di come è andata. Nei giorni in cui siamo stati insieme a casa mia e poi a New York ho avuto modo di imparare molto da Elliott, che è sempre prodigo di consigli per me. Lui è il più grande bluesman del momento, ha reinventato la tradizione, mettendo a frutto una tecnica chitarristica che pochi conoscono (anche perché lui è più conosciuto come improvvisatore e come compositore d’avanguardia). Onestamente credo che Elliott sia un vero “guitar hero” e i suoi dischi dovrebbero essere conosciuti da tutti i chitarristi.

AAJ: Un altro gigante delle sei corde è Nels Cline. Infaticabile sperimentatore, musicista onnivoro e curioso, solista strepitoso, nonché membro di una delle migliori rock-band in circolazione, i Wilco, avete avuto la possibilità di suonare spalla a spalla nel disco di Daniele Cavallanti Smoke Inside. Raccontaci qualcosa di questa esperienza.

S.M.: Nels è una persona fantastica e uno straordinario chitarrista. Non è facile capire subito la sua grandezza e la sua intelligenza. Non ha ego e quando suona si mette al servizio della musica. Ho una registrazione live del concerto di presentazione di Breaking News con Nels, Elliott, Steve, Tiziano e Daniele che spero di riuscire a pubblicare prima o poi. Lo sto mixando a casa nei ritagli di tempo e ascoltare la traccia di Nels nei pezzi in cui suona con noi è incredibile. Nell’insieme quello che fa è impercettibile, ma fondamentale. Se solo potessi fare sentire a tutti cosa ha fatto in “Run Through the Jungle”... Oltre a questo i suoi soli sono come una cascata di acqua fresca. Ha ragione “Guitar Player”: Nels è un genio.

Lo sorso settembre sono stato a New York per suonare al Fretless guitar Festival e Nels, che in quei giorni era in città, mi è venuto a sentire. In america Nels è quasi una star e quindi la sua presenza a un mio concerto è stata incredibile. Mi ricordo che quando è entrato alla Knitting Factory tutti i chitarristi presenti sono andati a salutarlo e io mi sentivo così lusingato dal fatto che lui fosse lì per me. Alla fine del mio set mi ha fatto critiche e complimenti esattamente come ha fatto Elliott. Beh, è una grande fortuna questa. Abbiamo anche parlato di fare un disco insieme con basso e batteria, ma i suoi impegni glielo impediscono, almeno per tutto il 2007.

AAJ: Rimanendo in tema “compagni di strada”, Tononi e Cavallanti sono una presenza costante al tuo fianco. Oltre a condividere da un paio d’anni l’esperienza del trio Bassless, mi risulta che hai partecipato alla registrazione del secondo volume dell’omaggio di Tiziano ad Ornette Coleman. Si può dire che ormai sei un Nexus a tutti gli effetti?

S.M.: No, non sono un Nexus, ma faccio felicemente parte del Tononi-Cavallanti Circus. Il disco di Tiziano su Ornette (ormai in uscita in questi giorni) è stata un bellissima esperienza. Tiziano è un grande in studio, riesce a mettere ogni musicista a proprio agio, permettendogli di esprimere al meglio le sue caratteristiche. E poi è stato strano e molto bello suonare con il mio insegnante Roberto Cecchetto: essere al suo fianco e suonare insieme alla pari dopo tanti anni di studio e qualche anno in cui ci siamo persi di vista.

AAJ: Parlaci del tuo progetto in solo Si-mono. A quando la documentazione discografica?

S.M.: È tanto che voglio realizzare discograficamente questo progetto, ma non ho mai il tempo di farlo. Sto attrezzando un piccolo studio domestico proprio per questo e mi piacerebbe riuscire a farlo questa estate, ma il famoso detto “vuoi far ridere Dio? Digli i tuoi piani” mi sembra appropriato. Comunque, sto lavorando alle idee e spero veramente di cominciare presto. Ho intenzione di aprire una piccola label con cui realizzare progetti di questo tipo. La distribuzione avverrà solo per download digitale, così come hanno cominciato a fare altri musicisti come Dave Douglas. Purtroppo, il mercato discografico è diventato questo e quindi bisogna adeguarsi. Il lato positivo è che far conoscere la propria musica al mondo è diventato più semplice. Ma, proprio per questo motivo, chiunque può produrre e diffondere la sua musica e, quindi, l’offerta supera di gran lunga la richiesta, e questo è il lato negativo.

AAJ: Un tratto caratteristico del tuo stile, soprattutto quando ti esibisci da solo, è il ricorso costante alla sperimentazione. Manipolazioni elettroniche, loop, chitarre preparate, amplificatori in quadrifonia, fretless guitar: non ti fai mancare proprio niente! Cosa cerchi (e cosa trovi) in queste continue mutazioni? Credi che le nuove tecnologie abbiamo modificato l’approccio dei musicisti all’improvvisazione?

S.M.: Considera che il mio amore per l’elettronica nasce alla fine degli anni ottanta e il mio primo sampler/looper l’ho comprato proprio in quegli anni. Ho sempre pensato che la chitarra elettrica finisce con il jack che va all’amplificatore e quindi il tuo suono è fatto anche dai pedali che usi. Da molti anni ho un “day job” in un negozio di strumenti musicali e questo mi ha permesso di poter sperimentare qualsiasi soluzione sonora prima di acquistarla (una volta, tanti anni fa, ho collegato in parallelo 24 ampli per chitarra. Solo un chitarrista può capire quanto sia stupido, ma assolutamente divertente fare una cosa simile). Sicuramente le loop machines hanno cambiato il modo di improvvisare, ma quasi tutti tendono a usare i loop solo per creare groove o basi su cui improvvisare.

Il mio approccio è più simile a quello di David Torn, Nels Cline o Bill Frisell. Tendo a usare il loop come uno strumento in più con cui realizzare tessuti sonori campionando frasi e che poi viene riprodotto senza per questo costituire una base su cui improvvisare.

Al contrario, la chitarra preparata ha fornito un nuovo grande stimolo agli improvvisatori. Da Fred Frith a Elliott a Paolo Angeli, tutti hanno creato uno strumento nuovo.

Paolo Angeli, in occasione di un concerto mi disse che era entusiasta di un nuovo motorino nella sua chitarra preparata che avrebbe dovuto far suonare le corde come dei bordoni. Beh, durante le prove si rese conto che gli armonici generati dal rumore del motorino erano molto più interessanti dei bordoni e quindi utilizzò questo suono più volte nel corso della serata. Ecco questo è il tipo di approccio che condivido. Non c’è tecnica se non quella che ti serve a ottenere il tuo fine e quindi non c’è regola alla preparazione dello strumento. A volte inserisco oggetti nelle corde, uso un piccolo aggeggio che serve a montare la crema nel cappuccino che ti fai a casa, pezzi di tubi, elastici e studio le possibilità di ognuna di queste cose. Ovviamente il tuo spettro di possibilità improvvisative aumenta.

Differente è il discorso della chitarra fretless, che ritengo sia uno strumento a sé. Ho cominciato a usarla nel 2000 e ora penso di averne una discreta padronanza. Lo scorso settembre ho suonato al Fretless Guitar Festival a New York insieme a tanti “fretlessari” dal mondo. Mi sembrava di essere in una setta dove puoi entrare solo se hai rinunciato ai tasti per sempre. Scherzi a parte, è stato bello confrontarsi con tutti loro e mi è servito a capire che ormai sono maturo per usare questo strumento a tutti gli effetti.

AAJ: C’è una nota biografica nel tuo curriculum che mi incuriosisce particolarmente. Ho letto che ti sei dedicato (e ti dedichi tutt’ora) alla sonorizzazione live di film muti come “Il monello” di Chaplin, “Nosferatu” di Murnau, “Lulù” di Pabst, “Greed” di Erik Von Stronheim, e “The Crowd” di King Vidor (dal quale nel 2001 è stato tratto anche un disco in duo con il batterista Carlo Virzi commissionato ed edito dalla fonoteca del Comune di Carpi: The Common Man). Quali sono le dinamiche di questa particolare interazione tra le immagini che scorrono sul grande schermo e l’immediata reazione delle tue dita?

S.M.: Tutto questo è iniziato quasi per caso: tempo fa mi chiesero di scrivere dei temi per una serie di film muti da eseguire dal vivo durante la proiezione. Lo feci e mi innamorai del fatto che era possibile improvvisare durante lo svolgimento di una trama e anche scrivere delle melodie che fossero ispirate al tema del film o a un personaggio. Ci ho preso gusto e ho continuato a farlo e continuo tuttora. L’ultimo progetto è la sonorizzazione del film “Greed” di E.V. Stronheim in solo (ho anche cercato di farlo in duo con Elliott Sharp, ma purtroppo non ci siamo riusciti per problemi di tempo), di cui ho una registrazione che mi piace e che spero riuscirò a pubblicare prima o poi.

Di tutti i miei progetti questo è quello che secondo me a meno a che fare con l’improvvisazione: nel senso che ho imparato a leggere la partitura implicita che è in ogni film muto. In genere tendo a visionare la pellicola molte volte, prendendo appunti sui temi o sulle situazioni sonore che mi vengono in mente. Poi, scrivo, suono o provo. Infine, mi sento pronto per esibirmi dal vivo. E’ come quando suoni o studi uno standard; improvvisi ma sulla struttura degli accordi, non è una cosa libera. Lo stesso vale per il film muto; suoni e improvvisi, ma seguendo una trama. Devi sapere che tra un paio di minuti succederà qualcosa nel film e quindi devi prepararlo o fare in modo che sorprenda di più il pubblico. Mi piace che ci sia un tema conduttore che si presenta all’inizio e magari anche alla fine, queste sono le colonne sonore.

Uno dei film più difficili e in assoluto il più divertente che ho fatto è “Silent Movie” di Mel Brooks (in italiano “L’ultima follia di Mel Brooks”). In questo film ho scritto un tema sul personaggio (il regista Mel Spass) che cambia in base a ciò che gli succede e in base al suo umore. E lo stesso ho fatto per gli altri protagonisti del film, quindi le parti libere per improvvisare sono molto poche. Qualche anno fa ho aperto un corso sperimentale per la sonorizzazione dei muti in una scuola vicino a casa mia e ho ottenuto risultati che non mi sarei mai spettato.

AAJ: Un’altra curiosità che ti riguarda è la notizia che entrerai in sala d’incisione con l’eclettica musicista, cantante e cantautrice californiana Carla Bozulich (a lungo a fianco di Nels Cline nel gruppo experimental-folk The Geraldine Fibbers e nel duo elettro-avant Scarnella). C’è lo zampino di Cline in questo sodalizio? Cosa state preparando?

S.M.: Mi sono lasciato alle spalle la registrazione da qualche giorno.

Carla è dotata di un talento naturale incredibile e di una voce fantastica, con un timbro che mi sconvolge ogni volta che lo sento. Tempo fa ho sentito che era arrivato il momento di realizzare un disco di canzoni, era un mio sogno da tempo, e ho cominciato a scrivere pezzi senza sapere a chi li avrei proposti.

Poi, una sera, io e Fabrizio Perissinotto siamo andati a sentire Carla a Legnano incuriositi dal fatto che Nels ci avesse parlato di lei. Avevo comprato qualche suo disco nei giorni precedenti e mi era piaciuta molto. Durante il suo concerto capii che lei era la cantante che stavo cercando.

Per più di sei mesi ho lavorato tantissimo sulle idee e sul suono che volevo dare a questo disco, ci sono letteralmente impazzito perché volevo ottenere un suono che avevo in mente ma che non ero in grado di descrivere (e un provino come quelli che posso realizzare in un home studio ti aiuta ma non ti risolve il problema). Così, al dunque sono entrato in studio molto agitato, complice il fatto che io e Carla abbiamo due modi di lavorare radicalmente opposti. E’ stato faticosissimo, ma sono molto soddisfatto di questo lavoro. Carla è entrata nella musica (a volte cambiando il più possibile e quindi costringendomi a riadattare le mie idee e a riscrivere alcune cose) e ha scritto testi magnifici. Ha una incredibile capacità di scrivere testi e una intonazione praticamente perfetta.

Ci hanno accompagnato Zeno De Rossi alla batteria, Xabier Iriondo alla table guitar (con cui sto suonando anche in duo), Andrea Viti al basso elettrico (con cui suono nel suo progetto Juan Mordecai), Davide Tedesco al contrabbasso e Francesco Guerri al violoncello. È una band strana, che ho voluto ad ogni costo, una band straordinaria. Il fatto di avere due alfieri del rock indie italiano (Viti e Iriondo, due ex AfterHours), due archi (anche se non suonano mai insieme) e Zeno (con cui affronterei anche revival anni ’60 pur di suonare con lui), mi ha dato possibilità enormi nel differenziare i suoni, creando un ensemble che risulta fresco, nuovo e agile. E’ un’altra produzione LongSong e non vedo l’ora che sia pubblicato.

AAJ: Un’ultima domanda. Se potesse esprimere un solo desiderio, con chi vorrebbe incidere un disco Simone Massaron?

S.M.: Keith Richards.


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