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NovaraJazz 2021

NovaraJazz 2021

Courtesy Luciano Rossetti (Phocus Agency)

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Novara
Varie sedi
3-13.6.21

Su due binari paralleli ha proceduto il tragitto progettuale di NovaraJazz, giunto alla diciottesima edizione. Il primo obiettivo, come negli anni passati, è stato quello di andare alla ricerca di spazi suggestivi, per lo più storici e centrali, ma non abitualmente destinati alla musica. Questo non tanto o non solo per valorizzare a fini turistici una rete di luoghi anomali, a volte poco frequentati, quanto per rivelarne la polifunzionalità e la polivalenza, e quindi verificare la loro idoneità ad ospitare eventi concertistici con buoni risultati.

Il secondo intento qualificante era teso alla creazione di un nuovo largo ensemble tramite una residenza artistica internazionale di qualche giorno, con lo scopo di aprire prospettive di continuità in collegamento con altre realtà organizzative: nell'immediato i festival di Mantova e di Brescia e la Casa del Jazz di Roma. A questo fine è stata conferita a Gabriele Mitelli la direzione del progetto e l'opportunità di scegliere uno ad uno i componenti della neonata European Galactic Orchestra. La selezione del trombettista bresciano ha individuato una rosa di validi improvvisatori europei di varie provenienze, generazioni e scuole, coagulando una formazione di tutto rispetto: i clarinettisti Giancarlo Nino Locatelli, suo stretto collaboratore nel progetto, e il francese Christophe Rocher; l'olandese Tobias Delius al sax tenore e il francese Pierre Borel al contralto; agli ottoni Sebi Tramontana al trombone e lo svedese Per-Åke Holmlander alla tuba, oltre al leader alla cornetta. Per gli strumenti a corda Luca Tilli al violoncello e la parigina Christelle Sery alla chitarra, Alexander Hawkins al pianoforte e il contrabbassista John Edwards, entrambi inglesi; infine Cristiano Calcagnile alla batteria. I musicisti coinvolti hanno aderito con slancio a questa produzione originale, a questa idea portante che ha comportato un investimento impegnativo e coraggioso: si auspica che l'iniziativa possa dare frutti maturi e avere sempre più risonanza in futuro, sia dal vivo che su disco.

In pochi giorni di prove è stato possibile mettere a punto un repertorio di composizioni per metà dello stesso Mitelli e per l'altra metà di Locatelli, oltre a qualche doveroso omaggio: in apertura di concerto infatti è stato inserito "Love in Outer Space" di Sun Ra e come bis sono stati rivisitati "Theme de Celine" dell'Art Ensemble Of Chicago e "Kneebus" di Misha Mengelberg, e per finire una breve citazione di Duke Ellington. Sono stati così dichiarati esplicitamente alcuni degli indispensabili capisaldi di riferimento, anche se molti altri rimandi sono emersi lungo l'arco dell'esibizione: Ornette, Don Cherry, la Liberation Music Orchestra... Collegati da fasi di raccordo, formicolanti, aperte, a volte puntillistiche altre materiche, si sono succeduti i temi esposti dal collettivo, prevalentemente tonici e stagliati, su basi ritmiche ben marcate. Si sono così alternate svariate situazioni, fra sature aggregazioni sonore e distensioni, ricche di disarticolazioni in congeniali formazioni più ridotte, in contrappunti sapienti, in assoli concisi e mirati... Sarebbe ingiusto a tale proposito fare graduatorie e citare singoli solisti, tutti indistintamente strumentisti dalla pronuncia personalissima. E da qui nasce in definitiva la nota più positiva di questa esperienza orchestrale: la grana sonora dell'insieme, densa e vibrante, ora evocativa ora scura ora brillante.

Il 13 giugno, verso l'ora del tramonto, il concerto della European Galactic Orchestra (nome già ridotto alla sigla benaugurale EGO) ha chiuso NovaraJazz 2021 nella cornice dei centralissimi Giardini della Canonica del Duomo, all'interno di un ampio e tranquillo chiostro di origine quattrocentesca, dove l'occasione avrebbe meritato un'amplificazione più professionale sia per i musicisti che per gli ascoltatori. Dall'ampia formazione fra l'altro, ed anche questa costituisce una peculiare scelta programmatica, si è attinto per dare vita a buona parte dei gruppi o dei solo che si sono alternati nei giorni precedenti sui vari palcoscenici improvvisati del festival. Tutti al simbolico prezzo d'ingresso di 5 euro e immancabilmente introdotti dalle parole dell'infaticabile direttore artistico Corrado Beldì. In particolare, queste ridotte e del tutto inedite emanazioni dall'orchestra (la recensione si riferisce al secondo dei due fine settimana in cui si è articolato il festival), hanno tutte praticato la libera improvvisazione ottenendo esiti di volta in volta leggermente diversi.

Si è partiti nel tardo pomeriggio dell'11 giugno ai piedi delle poderose mura Est del Castello Visconteo Sforzesco con il Mitelli—Delius—Edwards—Calcagnile Quartet. Il tenorista olandese, con il suo incedere ebbro, la sua intonazione ondivaga, è transitato da ripensamenti intimisti e onirici a guizzanti squittii e bordate scoppiettanti, mentre Mitelli, alternandosi a una serie di cornette e di altri strumenti "anomali," ha perseguito un suo disegno ora sospeso e meditabondo ora decisamente melodico, a tratti memore di Don Cherry. Il sottofondo ritmico era fornito dal binomio Edwards—Calcagnile, indubbiamente efficace, determinato ed empatico. L'insieme delle quattro forti personalità, impegnate nel rivisitare una tradizione comune in un dialogo istantaneo, ha dato un esito schietto e lodevole, articolato in più episodi, anche se in parte prevedibile: risultato che è stato condizionato anche dal forte distanziamento fra musicisti e pubblico e dall'acustica dispersiva del luogo.

La sera dopo, sempre al tramonto, la corte del Museo Faraggiana Ferrandi, lussureggiante, profumata dai fiori di magnolia e sovrastata da un vorticoso volo di rondini, ha accolto un altro sottogruppo dei membri dell'orchestra. Le esplorazioni imprevedibili del trombone di Tramontana erano affiancate dalle morbide evoluzioni della tuba di Holmlander e dal fraseggio relativamente più risoluto del contralto di Borel. Il dialogo a tre è andato alla ricerca soprattutto di assonanze armoniche e dinamiche, di equilibri e contrasti, sfociando in brevi ma sostenute progressioni dell'intero trio, senza mai tralasciare un leggero tocco di stralunata autoironia.

Nell'ombreggiato giardino di Palazzo Natta si è assistito ancora una volta all'avanguardia sperimentale perseguita dall'improvvisazione del trio formato dai francesi Christophe Rocher e Christelle Sery, rispettivamente ai clarinetti e alla chitarra elettrica, e dal violoncellista abruzzese Luca Tilli. In questa circostanza mattutina tuttavia si è percepita un'inclinazione moderatamente più colta e cameristica, un disegno costruttivo più attento e rigoroso. Probabilmente per via della scuola e della classe puntigliosa di Rocher e dei contributi forse un po' prudenti e insinuanti degli altri due comprimari, comunque ponderati da un sinergico ascolto reciproco.

Un'altra dimensione felicemente esplorata dal festival è stata quella del solo: un soliloquio con se stessi che racchiude l'esperienza di una vita, ma che deve essere concepito, strutturato, sintetizzato in modo da essere comunicato agli altri, senza escludere una giusta dose di esibizionismo virtuosistico. Dimensione che ha avuto un glorioso passato nella lunga storia del jazz, ma che a cominciare dagli anni Sessanta, con il diverso e ulteriore impulso preso dall'approccio improvvisativo, ha assunto una più convinta ragione d'essere.

Esibizionismo e virtuosismo non sono certo mancati nell'apparizione di Ernst Reijseger, che da sempre sa come ammaliare il suo pubblico nelle più diverse situazioni. Per la prima volta a Novara, dove ha ricevuto il premio Chiave d'oro 2021, e unico musicista a non aver preso parte all'esperienza della European Galactic Orchestra, il violoncellista olandese si è esibito sotto la cupola dell'Antonelli nella Basilica di San Gaudenzio, monumento svettante nel panorama cittadino. I primi dieci minuti, basati su lenti, austeri, sofisticati impasti armonici con l'archetto, sono risultati magistrali nel rivelare e sfruttare la vertiginosa risonanza dello spazio. Poi Reijseger ha fatto ricorso ai personali, collaudati cliché di grande efficacia scenica, oltre che d'inebriante, a tratti autoironica, consistenza musicale. Bach è così andato a braccetto con il blues, il pizzicato e un uso chitarristico del violoncello si sono integrati con il canto, un ronzante bordone da harmonium (due piccoli mantici a terra azionati a pedale) ha supportato all'occorrenza melodiose nuances nel registro acuto...

Alexander Hawkins era invece alla sua quattordicesima apparizione al festival novarese, dove ha partecipato con formazioni sempre diverse; tra l'altro ha ritirato la Chiave d'oro 2020, che lo scorso anno non fu possibile consegnargli a causa della pandemia. Nella raccolta corte di Casa Bossi il quarantenne pianista inglese ha sostenuto una prova pomeridiana di esaltante concentrazione e di elevato spessore interpretativo, confermando la sua personalità e la sua maturità espressiva. Nella parte iniziale del concerto il pianoforte era preparato nel suo registro centrale, dando effetti suggestivi, martellanti ma afoni, vicini alla sonorità della kalimba africana; alle estremità, bassa e acuta, della tastiera sono state invece affrontate le parti più compositive e tematiche, di evidente qualità melodico-ritmica. Lo scampanio solenne del vicino campanile di San Gaudenzio ha scatenato una fase percussiva consonante da parte del pianista, mentre al sublime e irriverente interloquire del canto di un merlo si è sovrapposta la decantata rivisitazione di "Prelude to a Kiss," a cui ha poi fatto seguito un nuovo ossessivo slancio percussivo. Questi adeguamenti istantanei alle contingenti situazioni ambientali non sono mai parsi forzati o superficiali, di facile effetto, ai fini di una captatio benevolentiae, ma sono sfociati come sviluppi dotati di una logica e naturale sostanza musicale. Il breve bis che ha siglato la variegata performance ha proposto una madley monkiana delicata e turbinosa al tempo stesso.

Il giorno dopo, poco distante dai luoghi sopra ricordati, la piccola chiesa neoclassica del Carmine ha ospitato la solo performance di John Edward, che fin da subito ha colto nel segno per l'incalzante dinamismo e il sound umorale, di ineludibile potenza. Il contrabbassista, ricurvo sul suo strumento, ha ingaggiato con esso una sorta di lotta aggressiva, o se vogliamo un amplesso seduttivo, piegandolo alle proprie esigenze creative estremamente concrete, terrene, anche se proiettate verso un'immagine visionaria. Nel complesso quella che ci ha fornito è stata una prova attuale di come l'improvvisatore possa considerare lo strumento alla stregua di una propaggine del proprio corpo e della propria mente, generatrice di idee da comunicare con immediatezza. Funzionale a ciò è stato l'assortimento, eterodosso e vasto, dei modi con cui trattare, sfregare, pizzicare, accarezzare, percuotere le corde, ribadendo così il fatto che la tecnica, anche se estrema, deve essere sempre al servizio di una precisa concezione musicale e di una personale espressione creativa.

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