Bobby Bradford, classe 1934, un passato accanto ad autentici giganti, da Ornette Coleman (in particolare l'epocale Science Fiction, anno di grazia 1971) a John Carter (ripetutamente), tanto per fare solo due nomi, si unisce al più giovane sassofonista Hafez Modirzadeh per dirigere questo pregevole quartetto, nella cui musica (nello specifico ripresa dal vivo nel locale del titolo nel gennaio 2017) si colgono le stimmate di buona parte di quanto il jazz (almeno una sua importante costola) ci ha fatto respirare nell'ultimo mezzo secolo abbondante, libertà e (parziali) ripiegamenti, in un clima in possesso della solennità e, a tratti, del fare ritualistico propri dell'arte sedimentata nella storia.
Lo compongono cinque più o meno ampi brani che vanno a coprire le due facce di un LP (i primi tre sulla prima, gli altri due sulla seconda), il tutto aperto dal robusto archettato di Roberto Miranda, con Bradford che s'insinua dapprima sordinato e Modirzadeh a districarsi tra karna e khaen, singolari fiati di foggia etnica, finché il brano (che è poi "Raphael," dello stesso Miranda) si apre e si espande (e Modirzadeh passa al soprano, come poi per tutto il resto del disco).
"Free the Idea," a seguire, è contrassegnato da un bel movimento interno, mentre il più breve "One Bar Lowe" ci offre sul finire un dialogo tra i soli fiati. Il lato B si apre poi con "Almost Not Crazy," di marca vagamente ornettiana (il tipo di organico certo aiuta), in cui Vijay Anderson ha modo di regalarci un ragguardevole assolo finale, prima del conclusivo "Crooked Blues," più che mai giocato nel segno del collettivo, della coralità.
Disco certamente molto istruttivo.
Track Listing
Raphael; Free the Idea; One Bar Lowe; Almost Not Crazy; Crooked Blues.
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Ecumenico ma (abbastanza) esclusivo, non sopporta la musica – e l’arte in generale – di routine, rassicurante e dozzinale, preferendo, se proprio deve, il brutto all’inutile. Un ideale spaccato dei suoi amori musicali (che non si limitano al jazz; e più o