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Jazzfestival Saalfelden 2022
Saalfelden, Austria
18-21.8.2022
Spesso i lettori si abituano a leggere in diversi report sulla scena jazzistica accenni alla "scena scandinava," come se questa fosse un monolite che si aggira nel più ampio panorama afro-euro-americano. In realtà questa scena è policroma, polifonica, può far interagire i suoi elementi come farli brillare in progetti individuali. Come è stato dimostrato nella recente edizione del festival di Saalfelden, che ha acceso molti dei suoi riflettori su di essa.
Il compositore e batterista Gard Nilssen (norvegese) ad esempio, è stato artista residente ed ha meritato un ampio consenso. Il suo progetto più eccitante è quello della Supersonic Orchestra16 elementi, album della Odin, If You Listen Carefully The Music Is Yours -, una giungla sonica con tre bassi, tre batterie, diversi sassofoni, due trombe e un trombone, che rinverdisce con brio la tradizione moderna delle orchestre europee: un pullulare di riff e contrappunti ad incastro, melodie essenziali, talvolta anche narrative, una coerenza di scrittura e improvvisazione che scivola in scioltezza e ammalia.
Di sostanza anche il suo trio con Andre Roligheten ai fiati e Petter Eldh al contrabbassoè appena uscito il loro ECM, Elastic Wave, a nome Gard Nilssen Acoustic Unityche si affida a spunti dapprima "ayleriani" per sviscerare poi un linguaggio che lambisce sia il free americano storico che una morbidezza d'accenti più vicina al cool. Non troppo originale, ma di solida fattura. Non bastasse, Nilssen è propulsivo nel trio rock-jazz-psichedelico Bushman's Revenge e collaboratore in altri concerti estemporanei. Concerti che da tre anni in qua si svolgono in diverse sedi: oltre alle consuete pedane del Congress Saalfelden e del Nexus, il festival coinvolge la cittadina portando i musicisti in brevi escursioni montaneMountain Trackso allo Stadtpark o dentro la Gruberhalle, ex piccola fabbrica dismessa, intrecciando percorsi musicali che infittiscono il programma dalle 9 del mattino fino a notte.
Rimaniamo in tema di batteristi norvegesi perchè anche Paal Nilssen-Love era presente con Circus, organico di sette elementi che ha presentato una lunga suite disuguale negli esiti ma assai stimolante nel suo eclettismo espressivo. La musica tocca diverse stazioni, con spazi anche per fisarmonica e voce, e termina con una esplosione di fulminante hardrock dovuto alla chitarra selvaggia di Oddrun Lilja.
Al sax contralto un altro talento, stavolta danese, la trentenne Signe Emmeluth's Amoeba, anche leader di Amoeba, quartetto protagonista di un set vivace e nervoso, in cui frasi melodiche assertive e lancinanti dialogano con un inconscio sonoro invece nebuloso e indeterminato ("Chimaera," Øra Fonogram). Emmeluth non riesce a scavare sul materiale, viaggia già altrove per proporre nuove idee. Da seguire.
Altra danese, Mette Rasmussen, sempre sax contralto, non sbaglia un colpo. Qui ha affondato un notevole acuto, raccogliendo assieme alla batterista Savannah Harris la proposta del festival che ha commissionato loro un programma di musiche inedite. Insieme al bassista Petter Eldh (che strumentista!) e alla maga di campionamenti elettronici Val Jeanty, sotto il nome di Økse, le due leader hanno offerto il set forse più interessante del programma. Tenute insieme dalle invenzioni dei "suoni trovati," voci e percussioni che Val mescola con fantasia, le partiture hanno valorizzato le durate brevi, inglobando con tempi fulminei ritmi jazz e tribali, funk e minimalisti. Aspettiamo un'incisione, ne vale la pena.
Il sestetto franco-americano di Emile Parisien ha dato forma, come prevedibile, a una sorta di incrocio afro-mediterraneo di buona fattura tecnica. Il leader ha iniziato in modo affascinanate con una cadenza sinuosa, con il sax quasi a simulare un mizmar nordafricano e uno sviluppo modale; poi ha preso il sopravvento una struttura schematica, con assoli a turno, molto free quelli al piano di Roberto Negro, più eleganti-melodici quelli della chitarra di Manu Codija e della tromba di Theo Croker}.
E poi è arrivato l'uragano. Un uragano da Chicago di nome Isaiah Collier. Il quale ha inondato la platea per quasi due ore senza respiro di una musica densa come la lava, aggressiva ed esultante. Le sue collane di frasi, al tenore o al soprano, riescono ad amalgamare il lessico di Coltrane (soprattutto), ma anche di Kirk, Mitchell, Sanders, rievocando di proposito le strutture a spirale dei tormentoni coltraniani, specie in ritmo ternario, con la fragranza di "My Favorite Things" che aleggia, oppure gli schizzi espressionisti di Roscoe Mitchell che si sciolgono in fretta però in 4/4 swing torrenziali. Collier ha 24 anni e sono prodigiosi la sua qualità tecnica ed il suo fervore emotivo. Ovunque si leggono guidizi entusiastici sul suo album Cosmic Transitions (Division 81 Records), che in parte si possono anche condividere. Ma la domanda è: se ha ragione Isaiah a riprendere con passione i maestri del passato, periodo 1960-65, allora aveva ragione anche Wynton Marsalis con i suoi ricalchi da Miles, Hubbard, Morgan?
Un vero maestro si è invece dimostrato il pianista Jason Moran, che ha suonato in solo e con la Trondheim Jazz Orchestra. In solitudine, Moran ha sfoggiato una sicurezza costruttiva di prim'ordine, organizzando un repertorio seducente che mischia con sapienza virtuosismo ed espressività, saltando da Bud Powell a James P. Johnson e Jaki Byard, soffermandosi su perle personali come "Re Animation," sfruttando bene tutta la gamma linguistica dello strumento. Con la Trondheim, che è organico flessibile e disponibile a diverse sfumature, Moran ha mostrato un lato del suo stile più riflessivo e di ampio respiro ed ha lasciato spazio agli interventi di solisti quali Eirik Hegdal, Ole M Vågan, Mette Rasmussen, tra gli altri.
Meno in forma invece Vijay Iyer, che aveva elettrizzato durate l'estate assieme a Linda May Han Oh e Tyshawn Sorey, sostituiti a Saalfelden da Matt Brewer e Jeremy Dutton. Amplificati non a dovere, i tre hanno dato la sensazione di ripetere pochi schemi con una certa stanchezza, pur lavorando sui materiali assai belli di Uneasy (ECM).
Tra i concerti collaterali ha giganteggiato il trombettista Cuong Vu, specie in un magico duetto con Ted Poor alla batteria. Altri set: il quintetto Rucker, il Lisbon Underground Music Ensemble, Christoph Cech Jazz Orchestra Project, il quintetto della catalana Alba Careta Group, quello di Vincent Courtois, il solo di Katharina Ernst, Piled Up della cantante Cansu Tanrikulu con Simon Jermyn, Nick Dunston e Lukas König.
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