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Jazzfestival Saalfelden 2014

Jazzfestival Saalfelden 2014
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Saalfelden 28-31.08.2014

A bocce ferme il 35° Jazzfestival di Saalfelden presentava un programma meno appariscente rispetto a precedenti edizioni, con meno densità di nomi altisonanti e meno eventi imperdibili. Ma forse proprio per la mancanza di aspettative clamorose, grazie alla solida direzione artistica tra certezze e curiosità e per quelle alchimie speciali che regolano le cose del jazz, quella del 2014 si è rivelata edizione particolarmente riuscita. Compatta, qualitativamente elevata, ha evitato qualche clamorosa caduta di tono che in precedenti edizioni costellava fisiologicamente -vista la quantità di musica proposta-la kermesse di fine estate della cittadina austriaca. Gettiamo allora uno sguardo, in ordine sparso, a ciò che è successo.

Doveva essere l'evento del Festival ed evento è stato. Parliamo naturalmente di Henry Threadgill e dell'Ensemble Double-Up. La sua musica ha ormai raggiunto una sorta di classicità in movimento, carica di tensione, tanto stratificata nella struttura, quanto lineare nella fruizione e appagante nella rielaborazione. Nel primo movimento Threadgill si defila lateralmente sul palco -solo qualche sortita dinanzi all'ensemble-con la musica che viaggia da sola grazie a meccanismi che si incastrano alla perfezione. La tuba di Joe Davila funziona da braccio armato dei pensieri del leader e consente al resto dell'ensemble di procedere con estrema fluidità. I due pianoforti (David Virelles si distingue per originalità rispetto a un Jason Moran più ortodosso) forniscono combustile in abbondanza. Nel secondo movimento il pensiero di Threadgill si fonde con lo spirito di Lawrence D. "Butch " Morris attraverso una conduction che produce un flusso magmatico denso, incandescente e inesorabile, in un crescendo emotivo che rimarrà a lungo fissato nel ricordo degli spettatori.

La chitarra è stata una presenza costante e per niente discreta della rassegna, invadendo le frequenze con scariche ad alto voltaggio e debordando spesso nei territori del noise. Non possiamo non partire dal duo Marc Ribot/Nels Cline che si è abbattuto come un uragano sulla giornata iniziale del festival. Che si trattasse della versione acustica -la prima parte del set-o quella elettrica, tra una selva di pedaliere, di cavi e di manopole, l'onda d'urto è stata devastante. Arpeggi impossibili, distorsioni oltre la barriera del suono, droni implacabili, idee senza soluzione di continuità hanno dato vita a una musica visionaria, potente, nella quale la maestria improvvisativa è solo un mezzo per dar forma ad un processo creativo ben oltre i generi. Si viene così risucchiati in un buco nero vorticoso e stordente, proiettati in una dimensione che sfida le leggi della fisica.

Ritroviamo Cline nel trio "Eyebone" di Jim Black e nel quintetto "Unfold Ordinary Mind" di Ben Goldberg. Caratteristiche comuni alle diverse formazioni frequentate o dirette dal rosso batterista (su tutte AlasNoAxis Quartet) sono una massiccia dose di energia, una marcata inclinazione rock in termini di scrittura e organizzazione del materiale sonoro ed un apporto percussivo, metronomico ma con figurazioni di grande elasticità. Aggiungiamo il wurlitzer liquido e acido del giovane Elias Stemeseder, la chitarra di Cline tra morbide invenzioni melodiche, improvvise gragnuole elettriche, paesaggi sonori tra contemplazione e incubo, e l'idea di uno dei set più riusciti e coinvolgenti della rassegna incomincerà a prendere forma.

Delizioso il concerto del quintetto del clarinettista Ben Goldberg -alla prese con l'ostico clarinetto contralto-costruito su strutture di base semplici e riconoscibili -blues, bop, gospel, klezmer-linee melodiche accattivanti, coralità polifonica dei fiati di Rob Sudduth e Kasey Knudsen e la solita entusiasmante sensibilità interpretativa di Nels Cline. In questa scorpacciata di impulsi elettrici le "Protest Songs" di Marc Ribot, improbabile menestrello alla chitarra acustica da qualche parte tra Woody Guthrie e Leonard Cohen, suonano benefiche e stranianti, recupero di una tradizione dimenticata, quanto mai attuale e attualizzata dal geniale musicista di Newark.

Il trio di Sylvie Courvoisier regala un set di classica eleganza e raffinatezza con la batteria genialmente naive di Kenny Wollesen a dar risalto alle scorribande furiose sulla tastiera della pianista svizzera mentre il contrabbasso spesso archettato di Drew Gress fornisce il collante necessario. Courvoisier e le magie elettroniche di Ikue Mori completano lo struggente "Claws and Wing" Trio di Erik Friedlander. Composta dopo la scomparsa della moglie, la musica ha toni discretamente elegiaci, formalmente ineccepibile, con i fondali elettronici di Ikue che tolgono possibili derive caramellose e la spingono verso territori onirici nei quali la delicatezza delle atmosfere si sovrappone ad una scrittura scarna, essenziale, percorsa da brividi. Nel concerto serale Friedlander presenta una versione più ammorbidita del trio vuoi per la presenza di uno strumento come la fisarmonica, vuoi per la scelta di materiale compositivo di immediata presa, dai toni folklorici, vuoi per l'utilizzo del set percussivo minimalista di Satoshi Takeishi.

Un marchio a fuoco indelebile l'ha impresso la pianista giapponese Satoko Fujii. Il set solitario è stato tra i picchi della rassegna, un rapporto con il pianoforte totale e fisico, con la pancia dello strumento manipolata per ricreare sonorità vicine a certo minimalismo nipponico e la tastiera spesso violentemente percossa. Musica dai forti contrasti, quindi, dalla profonda carica drammatica, a tratti pericolosamente ridondante (la formazione accademica della leader?) ma proprio per questo ancor più violenta emotivamente, in uno stile personale indirizzato più verso la ricerca profonda del suono che non sullo sviluppo/elaborazione di possibili strategie compositive.

Il quartetto denominato Kaze è invece rigorosamente organizzato e condotto dalla pianista attraverso una sapiente regia. Ampio spazio viene concesso ai compagni di viaggio, in particolar modo all'insolita frontline composta dalle trombe, tutt'altro che ortodosse, del marito Natsuki Tamura e di Christian Pruvost. Ricerca timbrica esasperata, manipolazione delle colonne d'aria, densità sonora continuamente mutevole e lo scintillante pianismo di Fujii esaltano un set partito un po' in sordina e cresciuto minuto dopo minuto.

Tutt'altro che memorabile il set di tromba solo di Natsuki Tamura tra grugniti, sospiri, oggetti giocattolo, con qualche brandello di melodia non sufficiente a conferire senso compiuto all'esibizione. Così come l'hardcore jazz degli Hang Em High, chitarra basso martellante, batteria monolitica, il solo clarinetto basso di Lucien Dubois in grado di imprimere qualche significativa accelerazione improvvisativa. E nemmeno l'atteso trio "Stirrup" di Fred Lonberg-Holm ha incantato. Nick Macri al contrabbasso e Charles Rumback alla batteria sono parsi piuttosto anonimi e il violoncello carico di elettronica del leader, impegnato anche alla chitarra, ha fatto sì la parte del leone ma veleggiando su composizioni di facile presa e lasciando una sensazione di piacevolezza piuttosto fugace.

Apprezzabile il quartetto austro-olandese "A Day in My Life," autore di un set pulito, essenziale con l'irregolare spinta propulsiva di Michael Vatcher alla batteria e Peter Herbert al contrabbasso a sostenere le evoluzioni dei sax di Herwig Gradischnig e Max Nagl, tra cool jazz e lampi free. Non sono passati certamente inosservati i giovani texani riuniti dal contrabbassista norvegese Ingebrigt Håker Flaten sotto il nome di "The Young Mothers" (Frank Zappa docet?). Il sestetto si muove in una sorta di torre di babele stilistica e sonora, miscelando hardcore jazz con metal, rap e rock, hip hop e free. Potremmo parlare di anarchia sonora, di non sense estetico, di proposta farraginosa ma alcuni momenti sono irresistibili e l'impatto sonoro del gruppo non può lasciare indifferenti.

La presenza italiana si è concretizzata nell'infuocata esibizione di Roy Paci & Corleone, miscela esplosiva di chitarre, fiati e la sulfurea tromba del leader che porta a scatenarsi nel ballo non solo il pubblico della piazza ma anche quello più compassato del mainstage. Chiusura affidata al trio di Joachim Kuhn e al leggendario Archie Shepp. Sostenuto dall'impeto pianistico di Kuhn, Shepp recupera alcune sue storiche composizioni come "Mama too Tight" , richiama alla memoria le sue incursioni nella musica nord-africana grazie al guembri e al canto di Majid Bekkas ma la voce ruggente del suo sax e il sacro fuoco dell'improvvisazione lasciano sempre più spazio ad una sorta di (auto)celebrazione del tempo che fu.

Foto
Maurizio Zorzi.

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