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Jazzfestival Saalfelden 2012

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Saalfelden - 23-26.08.2012

Edizione sontuosa quella del Saalfelden Jazz Festival 2012. Divisa tra Short Cuts (piccolo teatro per formazioni ridotte) e Main Stage (sala da mille posti per gli eventi principali, sempre sold out) la rassegna ha brillato di luci spesso talmente intense da essere accecanti ma anche mostrato, in una organizzazione solitamente perfetta, qualche piccola crepa nella scelta organizzativa. Come quella di "riservare" ai giornalisti un'area con posti in piedi (Short Cuts) e di costringerli a corse affannose per conquistarsi il posto a sedere (Main Stage). O, dal punto di vista delle scelte artistica, di inserire tra formazioni dal peso specifico straripante gruppi inadeguati usciti malconci da un confronto improponibile. Ma la forza purificatrice della grande musica ha come al solito spazzato via dubbi e perplessità, anche se una minima riflessione su questi aspetti sembra doverosa.

Lo stato dell'arte. Sono un paio i concerti che per forza progettuale, coerenza espressiva, equilibrio tra scrittura e improvvisazione, peculiarità di suono e visione prospettica occupano il gradino più alto del podio. Mary Halvorson ha presentato formazione e musica che hanno dato vita a Bending Bridges (Firehouse 12), tra i candidati ad album dell'anno. Con una ritmica geniale ed elastica come quella formata da Ches Smith e John Hebert ed una front line da paura con Jon Irabagon (sax alto) e Jonathan Finlayson (tromba) la giovane chitarrista ha mostrato quanto la lezione braxtoniana possa tradursi in musica dalla dirompente forza comunicativa se adeguatamente irrorata da elementi rock, blues e pulsazioni metropolitane dalla forte connotazione ritmica. Autrice di assoli visionari e deliranti sorretti da una ferrea logica, Halvorson è riuscita a rendere compatibili e stimolanti situazioni apparentemente inconciliabili, tra stop and go, riffs contagiosi trasformati in turbolenze sonore cariche di dissonanze, momenti di pura poesia e improvvisazioni tra astrattismo e minimalismo sonoro. Con compagni di viaggio dalla forte personalità stilistica ed espressiva messa al servizio di una progettualità comune.

Ritroviamo il batterista Ches Smith questa volta come leader dei These Arches, ossia Andrea Parkins alla fisarmonica ed elettronica, Mary Halvorson alla chitarra, Tony Malaby al sax tenore e Tim Berne al sax alto. Il giovane batterista newyorchese mostra notevoli doti di band leader, di fine compositore e di versatile percussionista muovendo le pedine a disposizione sulla scacchiera di una musica sofisticata ma assolutamente vitale. Composizioni secche, nervose, articolate con continui scarti ritmici e cambi di atmosfera, unisoni dei fiati, deragliate caotiche, dolci melodie accennate, la libertà dell'improvvisazione nel rispetto della forma. È musica che nasce dalle parti di Brooklyn e ne respira a pieni polmoni la moltitudine di umori ma Smith e i suoi musicisti la trasformano in musica dei nostri giorni tout court.

L'uragano Cline e la sorpresa (o forse no) Scheinman. L'avevamo conosciuta nei gruppi di Bill Frisell, nei lavori solistici e in alcune apparizioni orchestrali come violinista sensibile, curiosa, aperta, con la ricerca sulla voce strumentale a prevalere sull'esibizione virtuosistica. Con il progetto "Mischief & Mayhem " Jenny Scheinman ha mostrato la sua natura più dirompente, oseremmo dire quasi selvaggia. Merito delle continue incursioni nei territori del rock, della world meno battuta, della musica delle radici e della sua capacità di frullare il tutto con energia e coerenza impressionanti. E merito della presenza devastante della chitarra di Nels Cline in grado di trascinare l'esibizione su livelli di fisicità contagiosa. Con la batteria di Jim Black e il basso di Todd Sickafoose a sostenere ritmi impossibili ma anche a fungere da boa di riferimento per la tumultuosa navigazione a vista.

Si diceva della chitarra di Cline. Beh è riuscita, sotto la sigla BB&C, nell'impresa di oscurare persino il contralto di Berne, che da gran signore qual'è, si è dedicato ad un oscuro quanto prezioso lavoro di tessitura timbrica e di controcanto che ha esaltato ulteriormente, con l'ausilio di uno scatenato Jim Black alla batteria, la dirompente performance di Cline. Il chitarrista californiano ha trasformato il proprio strumento in una macchina sonora infernale, un caleidoscopio di colori acidi e fulminanti, un produttore di sheets of sound metallici che dapprima stordiscono e poi rilasciano una benefica sensazione di euforia. Il risultato è una sorta di caos primordiale che frantuma qualsiasi regola precostituita, abbatte la barriera del suono, assorbe e rilascia una tale energia che al termine dell'esibizione l'ascoltatore ha la sensazione di galleggiare senza peso nel vuoto cosmico.

La presenza. Benché non abbia presentato nessun progetto a proprio nome, Tim Berne è stato un fattore della trentatreesima edizione del festival, una sorta di eminenza grigia discreta e affascinante. Della presenza nei gruppi di Ches Smith e Nels Cline abbiamo detto, non ci resta che riferire del duo "senza rete" con il contrabbassista francese Bruno Chevillon. Due improvvisatori/esploratori che hanno creato musica a tratti sublime, attraverso composizioni istantanee dalla forma quasi geometrica, dove nella ricerca della purezza del suono si sono incontrate razionalità, fantasia e profonda ispirazione. In un concerto dove l'intimità di certe atmosfere si è alternata a momenti di minimalista asprezza, Berne e Chevillon hanno incrociato i loro mondi espressivi non proprio contigui sul terreno di una spiccata sensibilità e del rispetto reciproco. Affascinante.

Il gruppone. Ossia una serie di concerti che, qui in secondo piano, avrebbero fatto la fortuna di molte rassegne del vecchio continente e d'oltreoceano. La pianista Aki Takase si è presentata con due differenti progetti. In Kanon, trio completato dal trombettista Alex Dorner e dal chitarrista rumorista Kazuhisa Uchihashi, Takase ha battuto i sentieri di un'esplorazione sonora a tratti radicali, permeata comunque da un senso melodico definito nel quale i silenzi hanno giocato un ruolo altrettanto importante rispetto a dissonanze o cluster improvvisi. Con lo storico quintetto che ha registrato gli album dedicati a Fats Waller e W.C. Handy la pianista si è invece avventurata in una rilettura del blues in linea con le caratteristiche peculiari dei precedenti progetti. Abbiamo assistito così ad un alternarsi divertente di swing e New Orleans style filologico, con improvvise aperture free, collettivi mingusiani e l'irriverenza luciferina scaturita a piene mani dalla voce e dal banjo di Eugene Chadbourne.

Il quintetto Riptide del batterista Gerry Hemingway ha presentato una musica magnificamente scritta, raffinata ma vigorosa, con un gradevole susseguirsi di atmosfere cangianti legate dal fil rouge di sofisticati arrangiamenti. Suono corposo e dinamico, grazie ai fiati di Ellery Eskelin e Oscar Noriega, attraversato da scariche elettriche, il basso di Kermitt Driscoll e la chitarra di Terence McManus, Riptide ha fatto centro, anche se è mancato il guizzo per il decollo definitivo.

L'incontro tra John Butcher, storico rappresentante del free inglese, ed il Red Trio, piano trio emergente della scena improvvisativa portoghese, poteva dare adito a qualche perplessità, anche in relazione alla differenza generazionale. Ed invece il set ha fugato ogni dubbio confermando quanto di buono era già emerso nel recente disco pubblicato per la No Business, Empire, pur in una dimensione più introspettiva. Il trio, abituato alle esplorazioni più ardite anche dal punto di vista timbrico, non ha avuto difficoltà ad assecondare le evoluzioni di Butcher, in controllo assoluto sia su sax soprano che su tenore, tra scarti imprevedibili, iterazioni cromatiche, caotiche improvvisazioni e cellule melodiche che aprivano squarci luminosi in tenebre dal sapore claustrofobico.

Ken Vandermak è giunto a Saalfelden con il trio Side A, proposta inedita e insolita per la presenza del pianoforte. Proprio lo strumento armonico (interessante il norvegese Havard Wiik) ha indirizzato il concerto verso atmosfere tra avanguardia e contemporaneità. Il formidabile Chad Taylor ha creato con la batteria un magma ritmico/timbrico nel quale si sono insinuati i fiati di Vandermak. Torrenziale, con echi coltraniani al sax baritono, rarefatto, quasi cameristico al clarinetto, il multistrumentista di Warwick ha dato per l'ennesima volta dimostrazione di grande forza espressiva, innata curiosità e visione a 360° gradi sul mondo musicale.

Gli italiani. La presenza italiana al festival era assicurata quest'anno dal quintetto del giovane pianista Giovanni Guidi, alla testa di una formazione con Dan Kinzelman al tenore, Francesco Ponticelli al contrabbasso e i quotati Shane Endsley alla tromba e Gerald Cleaver alla batteria. Il concerto ha vissuto sull'alternarsi di fasi ricche di energia e grande intensità esecutiva (interessante l'omaggio alla musica di Ornette Coleman) con altre nelle quali la componente melodica era predominante, anche se talvolta non completamente risolta. Come al solito scintillante la tecnica di Guidi, decisamente sottoutilizzata la tromba del "Kneebody" Shane Endsley, al servizio di una musica assai godibile e ben eseguita ma dall'identità ancora in via di definizione.

La delusione. Doveva essere l' Evento della rassegna, ne è risultata la grande delusione. Fondata nel 1961 da Muhal Richard Abrams, padre riconosciuto dell'avanguardia chicagoiana, l'Experimental Band diede il là ad una straordinaria fucina di talenti (l'AACM) che avrebbero negli anni successivi tracciato alcune delle più fulgide traiettorie della musica improvvisata. Cinquant'anni dopo Abrams ripropone quell'esperienza irripetibile riunendo una band da sogno con musicisti del calibro di Henry Threadgill, Roscoe Mitchell, George Lewis, Wadada Leo Smith, per citarne alcuni. Ma a mancare è stata proprio un'idea musicale, un progetto che andasse oltre la semplice vetrina di qualità solistiche peraltro già ampiamente note, un pensiero organizzato in grado di realizzarsi compiutamente grazie all'apporto dei talenti presenti e al carisma di Abrams. Un velo di polvere di stelle su un pezzo di storia della musica afroamericana e... una fitta al cuore.

Il gran finale. Il concerto conclusivo rimmarrà impresso nella memoria dei fortunati presenti per la musica straordinariamente vitale, ricca di umori, elettrizzante, contagiosa pensata dalla mente onnivora di Rob Mazurek ed eseguita con la solita maestria dagli Underground versione Sao Paulo. Ma anche per il torrenziale assolo di quasi venti minuti che un Pharoah Sanders in stato di grazia ed in pieno furore creativo ha regalato ad una platea in religioso silenzio e col fiato trattenuto. Un eroe della stagione storica del free ed un visionario della scena di Chicago si sono incontrati sul terreno comune di una musica universale, senza confini, dalle salde radici, intrisa di contemporaneità ma decisamente proiettata verso il futuro.

Foto di Claudio Casanova.

Ulteriori immagini di questo festival sono disponibili nelle gallerie dedicata ai concerti di Mary Halvorson e Pharoah & The Underground


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