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Jazz&Wine of Peace 2022

Jazz&Wine of Peace 2022

Courtesy Fabio Gamba

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Jazz&Wine of Peace 2022
Cormons, Collio e Brda slovena
19-13.10.2022

Con l'edizione 2022 il festival Jazz&Wine of Peace di Cormons tagliava l'importante traguardo dei venticinque anni di vita, festeggiati con un degno programma di concerti disseminati—come ormai da tempo avviene—sullo splendido territorio circostante, tra teatri locali, abbazie, castelli e aziende vinicole: artisti di grande levatura internazionale ed eccellenti musicisti "di casa," proposte innovative e concerti più tradizionali, con alcuni interessanti progetti più intimi e talvolta di frontiera proposti nella parallela rassegna "Taste," dove le degustazioni erano integrate allo spettacolo.

La rassegna si è aperta mercoledì 19 ottobre con una serata dedicata a un altro ben noto anniversario, il centenario della nascita di Charles Mingus, celebrato con due progetti speciali commissionati dal festival e andati in scena non prima di aver ricordato tre persone purtroppo dolorosamente scomparse nel corso dell'ultimo anno: due colonne del festival e dell'associazione Controtempo che lo organizza, quali erano Claudio Corrà e Fulvio Coceani, e un assiduo collaboratore della rassegna, il videoperatore Paolo Burato.

Mingus Fingers, primo dei progetti originali, vedeva protagonisti il sassofonista e clarinettista Daniele D'Agaro e il contrabbassista Alessandro Turchet, che hanno riproposto in forma intima alcuni dei brani del maestro di Nogales. Da "Self Portraits in Three Colours" a "Fables of Faubus," passando per "Duke Ellington's Sound of Love," talvolta riunendo più brani in medley senza soluzione di continuità, i due hanno dialogato nella lingua di Mingus, giocando sui colori dei legni degli strumenti—D'Agaro era spesso al clarinetto o al clarone. L'alternanza di momenti meditativi sulle note basse e di altri più dinamici e scintillanti, comunque sempre sviluppati attraverso fitti fraseggi intrecciati, ha virtuosamente trasfigurato le composizioni originali, esaltandone alcuni dei loro molteplici aspetti. L'eccellente riuscita è stata testimoniata dalle scuse che i due hanno dovuto rivolgere al pubblico, che richiedeva altri bis, impossibili per la necessità di lasciar spazio al secondo concerto.

La ricchezza del patrimonio lasciatoci da Mingus è emersa ancor più dal contrasto con il progetto successivo, The Music of Charles Mingus del quintetto Viceversa, diretto dal contrabbassista Giovanni Maier e includente la tromba di Flavio Davanzo e tre allievi del conservatorio di Trieste: Riccardo Pitacco al trombone, Gabriele de Leporini alla chitarra e Francesco Vattovaz alla batteria. Gli arrangiamenti originali, che vertevano in gran parte su altri brani rispetto a quelli del precedente concerto (l'unico in comune era "Duke Ellington's Sound of Love") hanno proposto al pubblico un sound e un'atmosfera completamente diversi: maggiore dinamismo, più spazio per i solisti, per una lettura che rimandava più da vicino alla tradizione rispetto al camerismo di D'Agaro e Turchet. Anche in questo caso, tuttavia, il concerto ha offerto elementi originali, grazie anche all'intreccio di tromba, trombone e chitarra, una strumentazione atipica per la musica di Mingus. Eccellente l'interpretazione di tutti i musicisti, tra i quali hanno stupito per varietà di stilemi i tre giovanissimi, che hanno mostrato una maturità da veterani. Da sottolineare che entrambi i progetti hanno già visto la luce su altrettanti CD.

Dopo l'eccellente inizio, il giovedì mattina è partita l'allegra peregrinazione per il territorio del Collio, per raggiungere le diverse sedi dei concerti. Prima destinazione la tenuta Jermann, a Dolegna, dov'era di scena il quintetto di Ferdinando Romano, con un programma largamente basato sull'album Totem. Avevamo avuto occasione di vedere la formazione dal vivo lo scorso anno al Firenze Jazz Festival e l'avevamo apprezzata molto; allora l'organico era quello che aveva registrato il disco, mentre stavolta ai fiati c'erano due musicisti diversi: Tommaso Iacoviello alla tromba e Gianluca Zanello ai sassofoni. Sarà il fatto che la formazione, ripresa l'attività dopo il covid, era più rodata, sarà che i due hanno portato un sound diverso, fatto sta che il concerto è stato davvero superbo anche alle orecchie di chi ben conosceva la musica, tanto da poter essere considerato uno dei più riusciti dell'intera rassegna. A Romano, oltre una grande presenza strumentale, vanno riconosciute l'eccellente capacità compositiva e la grande attenzione nella direzione del gruppo; ai due fiati la notevole verve e il bellissimo suono (da sottolineare la pulizia e la fluidità del soprano di Zanello); al batterista Giovanni Paolo Liguori la sensibilità e il perfetto rigore nell'accompagnamento ritmico; ma su tutti è spiccato Manuel Magrini, che ha mutato gli stilemi di brano in brano ed è stato autore di un paio di lunghi assoli davvero magistrali. Non è la prima volta che lo diciamo: si tratta di un pianista giovane ma già interessantissimo, che darà molte soddisfazioni agli appassionati di questa musica.

A seguire, chi scrive ha fatto un primo "assaggio" della rassegna Taste, all'azienda Borgo S. Daniele di Cormons, dove ha suonato e cantato la fisarmonicista toscana Sara Calvanelli. Un programma fatto perlopiù di canzoni popolari, non solo italiane, riarrangiate per lo strumento (a momenti l'artista si è avvalsa anche dei bordi dei bicchieri), certo non propriamente jazzistico, ma non per questo fuori contesto e comunque ben realizzato, ricco di invenzioni—la Calvanelli sperimenta anche nell'ambito dell'improvvisazione—e piacevolissimo. Un'interessante scoperta.

L'itinerante programma principale ha poi condotto, nel primo pomeriggio, al Castello di Spessa, per l'atteso concerto dei Pericopes + 1, interessantissimo trio che non è facile ascoltare nel nostro Paese. Il programma riprendeva i contenuti dell'ultimo album Up, del 2020, ma la formazione vedeva qui alla batteria Ruben Bellavia, che non ha però fatto rimpiangere Nick Wight. La musica, tutta molto intensa, mescolava con misura acustico ed elettronica, affidandosi ora ai lunghi e trascinanti assoli di Emiliano Vernizzi al sax tenore, ora alle trasversali invenzioni di Alessandro Sgobbio, con il batterista a fare da pernio e da filo conduttore. Forse un po' penalizzati dall'ambiente—una splendida sala del castello, però lunga e stretta, quindi acusticamente non ideale per una musica del genere—i tre si sono comunque fatti apprezzare, ed è un peccato che siano tutto sommato piuttosto trascurati da critica e organizzatori nostrani.

Il secondo pomeriggio prevedeva, a Villa Attems di Lucinico, uno dei concerti sui quali c'era più curiosità: il quartetto Elder Ones della cantante statunitense di origini indiane Amirtha Kidambi. La formazione ha proposto una musica che mescolava generi, contenuti e tradizioni anche molto diversi: acustica ed elettronica, con la stessa Kidambi che suonava tanto l'harmonium, quanto il sintetizzatore, mentre il sassofonista soprano Alfredo Colón faceva ampio uso di effetti; assoli jazzistici e musica carnatica; scrittura e improvvisazione; impegno sociale e politico, presente in gran parte dei testi. Il tutto fuso assieme a un'alta intensità sonora, sospinta dalla robusta ritmica di Lester St Louis al contrabbasso e Jason Nazary alla batteria. Il risultato, tuttavia, non è stato molto convincente, vuoi per una certa ripetitività dei temi e un'eccessiva uniformità delle atmosfere, vuoi—soprattutto—per un assemblaggio dei suoni assai confuso, che rendeva poco leggibili le varie voci e indistinguibili i contenuti narrati dalla cantante. Così, dopo un'iniziale interesse dettato dalla curiosità per la proposta, il concerto è scorso via lasciandosi alle spalle solo una grossa macchia sonora e l'impressione di una certa presunzione.

Tutt'altra atmosfera per la chiusura di giornata, la sera al Teatro Comunale di Cormons, quando è andato in scena Michel Portal, una leggenda della musica non solo jazz e non solo europea. Anche in questo caso, il programma seguiva quello del più recente disco dell'artista francese, MP 85, uscito nel 2020 e il cui titolo indica gli anni del musicista, che nel frattempo sono diventati ottantasette. Portati benissimo e con eleganza—come molti hanno osservato, con una punta d'invidia, all'uscita—ma che, nel bene e nel male, si vedevano. Portal è infatti sembrato stralunato (anche se, va detto, un po' lo è sempre stato...) e un po' stanco, si è qua e là lasciato guidare ora da Bojan Z, ora da Nils Wogram—che accanto a lui, con la potenza del suo trombone, sembrava un gigante —, ma ha anche suonato magnificamente come sempre, in particolare offrendo una struggente interpretazione della sua "Armenia." In breve, il concerto ha unito emozioni contrastanti: quelle che scaturivano dal sentirsi alla presenza di un anziano, illustre ma non del tutto inossidabile mito, e quelle prodotte dalla musica, comunque bellissima e arricchita dal lavoro degli altri straordinari musicisti—Bruno Chevillon è stato autore di un paio di assoli davvero unici, e anche il giovane batterista Lander Gyselinck è risultato una sorpresa. Un concerto, quindi, tanto eccellente, quando commovente.

La mattina del venerdì, come da tradizione, s'è aperta con il concerto nella sede forse più affascinante del festival: la romanica Abbazia di Rosazzo, ove ogni anno vengono rappresentate le proposte più intime e suggestive. Stavolta la scelta è caduta sul duo di Javier Girotto ai fiati e Vince Abbracciante alla fisarmonica, freschi dell'uscita per Dodicilune del CD Santuario. Aldilà del titolo—che rimanda a uno dei brani, "Il santuario degli animali," ispirato da uno spazio vicino a Roma ove centinaia di animali liberati dagli allevamenti vivono in libertà—la musica proposta non aveva molto di strettamente sacrale e includeva composizioni originali spesso richiamanti la musica popolare argentina, nel caso dei brani di Girotto, o del meridione d'Italia, nel caso di Abbracciante. Ciononostante, la raffinatezza dei fraseggi, la stretta interazione tra i due, la profondità dei temi e l'intensità con cui vi venivano ricavati assoli e dialoghi hanno fatto sì che la nobiltà dell'ambiente da un lato fosse rispettata, dall'altro valorizzasse ulteriormente la musica stessa. Rispetto al pur eccellente disco, infatti, lo spettacolo dal vivo è risultato ancor più emozionante, riscuotendo un grande successo dall'ampio pubblico presente e finendo per essere un altro dei momenti più alti della rassegna.

L'ora del pranzo era impegnata da un altro concerto della rassegna Taste, presso l'azienda Polje di Novali, frazione di Cormons, di scena il duo chitarra-contrabbasso di Eduardo Contizanetti (che di Taste è il curatore) e Stefano Senni. Un concerto relativamente breve, come previsto dal format, con un programma di composizioni del chitarrista e qualche evergreen, il cui punto di forza era comunque la cura del suono e l'appassionato interplay sfoggiati dai due artisti. Cosicché, complice anche l'intimità dell'ambiente e le vigne che risplendevano dalla enorme vetrata alle spalle dei musicisti, anche in questo caso il concerto è risultato una piccola gemma.

Completamente diversa l'atmosfera del concerto immediatamente successivo, a Villa Codelli di Mossa, dove si esibiva il trio di Gabriele Mitelli, con gli inglesi John Edwards al contrabbasso e Mark Sanders alla batteria. La formazione, della quale veniva presentato dalla We Insist l'appena uscito album Three Tsuru Origami, ha tardato un po' l'inizio a causa di un problema organizzativo e, anche per questo, ha fatto un concerto di inusitata brevità—circa trentacinque minuti—ma che ciononostante è stato probabilmente il più imprevedibile, libero e spiazzante dell'intera rassegna. I primi due brani, che prendevano ispirazione dal materiale dell'album, erano ampiamente destrutturati e rimandavano al free anni Settanta; la ritmica vi si muoveva con intensità prossima alla foga, tessendo a occhi chiusi una trama fittissima sulla quale Mitelli si esprimeva con la tromba, il soprano ricurvo e la voce, in totale libertà—a voler essere rigorosi, qua e là forse anche un po' troppa, ma comunque sempre con effetti più che apprezzabili. L'ultimo brano, iniziato anch'esso su spunti tematici provenienti dall'album, ha visto l'ingresso—con il soprano ricurvo di Mitelli—di Daniele D'Agaro, giunto lì per ascoltare e invece cooptato sul palco. Dieci minuti scarsi che sono stati l'apoteosi della gioia di far musica in libertà, con uno scoppiettare imprevedibile di suoni e una ludica intensità che ha travolto gli astanti, che quasi non si sono accorti della brevità del set. Quando la qualità—anche senza essere molto innovativa o prossima alla perfezione—ha la meglio sulla quantità.

Alla perfezione e all'originalità ambiva invece il prestigioso trio che si è esibito subito dopo a Villa Attems: Thunbscrew, ovvero Mary Halvorson, Michael Formanek e Thomas Fujiwara. Un'ambizione, però, che a giudizio di chi scrive—le valutazioni diverse, in ambito artistico, sono pur sempre legittime—è stata pagata sul piano dell'espressività e della comunicazione. Musica in prevalenza scritta e basata su arrangiamenti originali di classici del jazz, certo drasticamente trasfigurati, ma anche appiattiti su atmosfere monocordi; eseguita con maestria strumentale encomiabile, che però limitava le possibilità espressive certo di Formanek—tanto impeccabile, quanto calligrafico— e in parte di Fujiwara—autore di alcuni guizzi e il più intenso dei tre, ma anch'egli parso stretto in una gabbia—; con un'interazione rigorosa e magistrale, ma anche statica e poco inventiva. Il tutto al servizio della Halvorson, alla quale spettavano gran parte degli assoli e che ha sicuramente sfoggiato un'abilità invidiabile nelle ricerche armoniche, nella costruzione dei fraseggi e nella gestione del suono della sua chitarra tramite pedali elettronici, ma che è anche parsa sempre uguale a sé stessa. Con il risultato che, dopo tre o quattro brani, si è avuta la sensazione di trovarsi a un concerto da camera classico, lento, senza squilli e tutto sommato piuttosto noioso.

Il concerto serale, che chiudeva la giornata, prevedeva l'atteso trio inglese di Binker Golding, Moses Boyd e Max Luthert, spazzati però via all'ultimo momento da uno sciopero aereo e sostituiti dagli organizzatori—con ammirabile prontezza— dal duo di Pasquale Mirra e Hamid Drake. E chissà che non sia stata una fortuna, visto che il concerto andato in scena è stato un altro dei momenti più alti della rassegna. Forti di una strettissima intesa non solo artistica—il batterista americano ha speso alcuni minuti in una sentita e commovente dedica all'amico italiano—i due hanno dato vita a uno spettacolo intenso e colorato, ricco di colpi di scena e di suoni inusitati, interagendo "a vista" come purtroppo è ormai raro vedere. Un concerto anche piuttosto lungo, visto l'organico ridotto, ma che non ha avuto momenti di stanca o di ripetizione, grazie alla straordinaria inventiva degli artisti in scena. Una formazione che, a detta di chi aveva avuto altre occasioni di vederla, non delude mai e che anche in quest'occasione ha fatto la gioia di chi, più che il patinato mainstream nelle sue varie forme, nel jazz cerca la sorpresa, la ludicità e l'interplay. A giudicare dall'entusiastica reazione del pubblico, non sono pochi.

Mirra era anche protagonista di un altro concerto strepitoso, quello del sabato mattina nell'auditorium del Kulturni Dom di Nova Gorica, tenuto dall'ensemble Guantanamo di Fabrizio Puglisi. La formazione, che gioca con ritmi e temi d'ispirazione caraibica, è in piedi da oltre un decennio e già nel 2014 aveva pubblicato un apprezzato CD, ma in quest'occasione ha presentato soprattutto composizioni che finiranno in un lavoro di prossima uscita. Ne è scaturito un caleidoscopio di suoni e colori, basati sull'abbondanza di percussioni—oltre a Mirra, Luca Valenza alla marimba, Gaetano Alfonsi alla batteria, Danilo Mineo a congas e percussioni—ma perfettamente guidati dal contrabbasso di Davide Lanzarini e arricchiti dalle invenzioni alle tastiere di un Puglisi sempre più geniale e istrionico nell'uso percussivo e dissonante degli strumenti. Una vera festa musicale, entro la quale di particolare interesse è stata la ripresentazione in questa originalissima forma di brani della tradizione come "Ezz-thetic" di George Russell e "Un poco loco" di Bud Powell.

Nel primo pomeriggio il quartetto Sexmob del trombettista Steven Bernstein è risultata la migliore delle formazioni statunitensi andate in scena a Villa Attems. Anche in questo caso, un gruppo in piedi da anni ma che nel tempo non ha perso il suo smalto, grazie a un attento equilibrio tra accuratezza formale e creatività informale, all'intensità della proposta e all'estemporanea vivacità del suo leader, che ha costellato lo spettacolo di divertite gag. Al suo fianco, efficacie anche se non esaltante l'altosassofonista Briggan Krauss, notevole e solidissimo il contrabbassista Tony Scherr, perfino sontuoso l'esperto batterista Kenny Wollesen. Tra original, marcette e improvvisazioni magmatiche, c'è stato spazio anche per i temi di Amarcord e Goldfinger. Divertentissimo e coinvolgente.

Meno entusiasmanti i pur attesi concerti che hanno chiuso la giornata. Il primo, attesissimo e svoltosi nel Teatro Comunale di Gradisca d'Isonzo (una sede nuova per il festival), quello della "versione italiana" della Fire! Orchestra, frutto di una residenza padovana del trio che ne costituisce il nucleo—Mats Gustafsson a sax e flauto, Johan Berthling al basso elettrico, Andreas Werliin alla batteria—durante la quale si erano aggiunti Goran Kajfes alla tromba, Mats Aleklint e Sebi Tramontana ai tromboni, Zoe Pia a clarinetto e launeddas, Sara Ardizzoni alla chitarra elettrica e, in extremis per la serata, Fabrizio Puglisi. L'aspettativa è tuttavia andata assai delusa: non solo a detta di chi scrive l'orchestra è parsa slegata e ripetitiva—con il trio che batteva con insistenza le proprie strade senza dar né spazio, né ascolto agli altri membri—e ha mostrato carenze nella composizione dei suoni a livello sia di organico, sia dei singoli. Zoe Pia è parsa infatti un pesce fuor d'acqua accanto a un fin troppo impetuoso Gustafsson, tanto che a fatica si riusciva a udire il suono del clarinetto, mentre l'uso delle launeddas è sembrato tanto inutile da essere irrispettoso per il nobile strumento; dell'Ardizzoni, relegata dietro l'organico, si sono completamente perse le tracce; Tramontana —un vero fuoriclasse dello strumento, bisognoso però di spazi per potersi esprimere a proprio modo sui fraseggi e sui suoni—ha dato l'impressione a un certo punto di aver perfino smesso di cercare la partecipazione al suono complessivo, schiacciato com'era dall'impetuoso Äleklint che gli stava di fianco. La prova s'è avuta nel bis, iniziato con tre minuti di duetto dei tromboni—il momento migliore dell'intero set —, quando grazie allo spazio resosi disponibile è emersa sia la qualità dell'italiano—nettamente più interessante dello svedese—sia la bellezza di una costruzione musicale finalmente articolata e pensata. Forse una serata nata male, perché se la qualità della formazione fosse questa si sarebbe poco sopra un livello amatoriale.

Assai diverso, ma anch'esso deludente, il duo presentatosi al Teatro Comunale di Cormons e composto dal pianista norvegese Bugge Wesseltoft e dal DJ e sound designer tedesco Henrik Schwarz. Qui la strada era quella di coniugare dal vivo campionamenti e suoni elettronici con il pianoforte e le tastiere —Wesseltoft saltava infatti costantemente dal piano a varie tastiere, spesso suonandone più d'una contemporaneamente. Gli aspetti positivi del tentativo, che hanno anche attratto nell'ascolto dei primi brani, stavano essenzialmente nella creatività istantanea e nell'interazione visiva dei due artisti. Ci si fermava però qui, perché i ritmi scelti dal DJ sono sembrati quasi sempre vetusti e banali—da Disco anni Novanta, ha detto qualcuno degli astanti —, così come il minimalismo spesso scelto come risposta dal pianista, mentre molti dei suoni tratti dalle tastiere elettroniche da Wesseltoft sono sembrati perfino comici. Ammesso—e non concesso—che uno spettacolo di questo genere possa avere un senso, certo un teatro e una rassegna jazz non erano il luogo migliore per evidenziarlo. Infatti, pur con alcune ovvie eccezioni, gran parte del pubblico non è sembrata apprezzare la performance. Detto questo, un festival che si rispetti e che voglia offrire al proprio, variegato pubblico un programma non "ingessato" deve anche ampliare lo sguardo e tentare qualche scommessa. Anche a rischio di perderla, come è accaduto in questo caso.

L'ultima giornata s'è aperta al mattino alla Tenuta Villanova di Farra d'Isonzo, con il duo di Camilla Battaglia e Rosa Brunello, artiste che anche in questo caso chi scrive aveva avuto modo di apprezzare lo scorso anno al Firenze Jazz Festival. Da allora il progetto non ha subito sostanziali cambiamenti: intime meditazioni musicali a partire perlopiù da celebri canzoni pop, giustamente lontane dai tradizionali arrangiamenti jazzistici, rarefatte e ricche di fascino. In questo caso, tuttavia, l'uso dell'elettronica si è ulteriormente ridotto e le improvvisazioni della cantante si sono ampliate, facendosi ancor più eteree e trascendenti. Per il nostro gusto, erano preferibili i brani, minoritari, in cui la Brunello imbracciava il contrabbasso, oltre al gioiello in cui accompagnava in body percussion, usando anche la voce. E, sempre a nostro parere, forse per raggiungere la piena compiutezza questo comunque originalissimo progetto necessiterebbe di un più preciso concetto drammaturgico, per impedire un effetto di sfrangiamento e disorientamento che, qua e là, coglie l'ascoltatore quando le improvvisazioni si allontanano dai temi. Dettagli, comunque, che non hanno impedito al pubblico di apprezzare calorosamente la proposta, così com'era accaduto a Firenze.

Gli ultimi due concerti della rassegna erano targati United States. Quello del primo pomeriggio, nella maestosa cornice di Vila Vipolže— un vero e proprio castello in Slovenia, a cinquecento metri dal confine italiano, dove si dice abbia più volte soggiornato il Maresciallo Tito—vedeva di scena il trio del tenorsassofonista James Brandon Lewis. Ospite per la terza volta del festival, il musicista a confermato di essere uno dei migliori interpreti odierni dello strumento, sfoggiando un perfetto controllo dell'emissione e del fraseggio, una grande impetuosità—i suoi assoli, pur non definibili torrenziali, duravano minuti e minuti—ma soprattutto un suono limpido e corposo, fluido e variato nelle forme espressive. Ciononostante la musica è rimasta prigioniera del suo solismo, mostrando limiti da un lato nella direzione drammaturgica e dall'altro nell'organizzazione del trio— completato dal violoncello di Christopher Hoffman e dalla batteria di Max Jaffe. Questi ultimi sono rimasti ampiamente subordinati al lavoro di Brandon Lewis, limitandosi a un blando accompagnamento e a pochi, ristretti spazi di solo, cosa che ha in particolare penalizzato Hoffman, del quale nemmeno si è capito che uso facesse del suo atipico strumento. Un difetto, questo, che affligge gran parte dei trii sassofonistici pianoless, spessissimo privi di interattività men che paritetica e perciò limitati nello sviluppo creativo di gruppo. Quanto all'altro aspetto, la musica è parsa un pedissequo ripresentarsi di singole vetrine per le indubbie qualità del tenorista, capace perciò di vivere solo del suo suono e del suo virtuosismo fine a sé stesso, così da risultare via via sempre uguale. Cosicché, alla fine, se n'è tratta la conclusione che Brandon Lewis meriti soprattutto di essere accolto in una formazione con idee musicali più nitide e brillanti, che gli permetta di mettere a frutto al meglio le sue indubbie doti strumentali.

Il concerto che ha concluso l'edizione numero venticinque del Jazz&Wine of Peace, al Teatro Comunale di Cormons e nel pomeriggio inoltrato—per permettere il ritorno serale alla maggioranza del pubblico —, ha visto in scena il chitarrista Julian Lage, negli ultimi anni considerato tra i migliori interpreti dello strumento. A causa di un'indisposizione dell'ultimo momento del batterista Eric Doob, però, il preannunciato trio si è dovuto trasformare in duo, con la presenza del solo contrabbassista Jorge Roeder. Il cambiamento ha dato vita a un concerto molto intimo e dai toni pacati, ricchissimo di fraseggi dialogati, che ha esaltato le qualità di entrambi i musicisti. Pur nella pariteticità—che qui, appunto, c'era e ha dato i suoi frutti—ne è emersa in particolare l'abilità di Lage, che si pone pienamente entro la tradizione dello strumento che ha per maestro Jim Hall, sviluppandola—pur senza grandi innovazioni od originalità—grazie a un raffinato lavoro sulle corde e a una delicata ricerca armonica. Un mainstream moderno, insomma, per concludere, senza il "botto" ma con eleganza, una rassegna di quattro giorni e mezzo, con un programma di concerti selezionatissimo e di altissima qualità, in location che da sole valgono il prezzo del biglietto, su un territorio splendido dal punto di vista naturale e architettonico, tra degustazioni di vini strepitosi e ristoranti con incantevoli specialità regionali. Il festival più bello del mondo, ci è venuto più volte da pensare seguendolo, per la ventiduesima volta su venticinque. Un grazie a Controtempo e a tutti i suoi collaboratori per aver dato vita per un quarto di secolo a tanta bellezza, con l'augurio di continuare a lungo.

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