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Intervista a Remo Anzovino

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Mi attrae l'idea di affondare le radici nel passato per proiettare il suono verso il futuro.
Remo Anzovino, compositore e pianista di Pordenone, oltre che avvocato penalista, ha all'attivo due soli album, ma una serie impressionante di riconoscimenti e approvazioni da parte di critica e pubblico che lo hanno reso uno dei casi più intriganti del panorama pianistico della Penisola.

Un'attenzione improvvisa, inaspettata, ottenuta grazie a una formula semplice, ma dal grande impatto: l'indovinato accostamento della musica con l'altra sua grande passione, le immagini in bianco e nero dei film muti d'inizio Novecento. Gli abbiamo rivolto alcune domande per capire meglio il suo "mondo musicale".

All About Jazz Italia: Tra gli addetti ai lavori serpeggia l'idea che il tuo modo di fare musica sia esclusivamente mirato al raggiungimento del consenso popolare, di guadagno facile. Sei un avvocato, quindi parola alla difesa.

Remo Anzovino: Faccio musica, semplicemente, e cerco di non disperdere una buona dose di spontaneità, forse questo la rende più accessibile, più accattivante. E sono sempre attratto dalla danzabilità. Un elemento non secondario nelle mie composizioni, perchè riguarda l'istinto ancestrale dell'essere umano di muovere il corpo mentre va una musica. E questo mi attrae. Mi fa comunque un po' sorridere questa domanda perchè molte delle musiche che ho scritto sono nate per il cinema muto, una fonte ispirativa tutt'altro che commerciale, direi. Forse alcune cose mie possono sembrare semplici, in certi casi, se si vuole, anche elementari. Ma per arrivare a questa sintesi, a volte anche per un solo brano, mi ci vogliono mesi e mesi di lavoro, per raggiungere un grado di essenzialità che mi soddisfi appieno.

AAJ: Qual è stata la critica più feroce che ti è stata mossa finora?

R.A.: Che io sappia, nessuna francamente che meriti tale aggettivo.

AAJ: Ci parli della tua passione per le immagini di vecchi film e come è nata l'idea di metterle in relazione con la musica?

R.A.: Sin dalla prima esperienza di composizione di nuove colonne sonore per grandi capolavori del cinema muto, mi sono accorto che alcune di queste pellicole erano ancora modernissime, certe inquadrature, alcuni attori in particolare. E così, quando ho avuto l'opportunità di esibirmi in concerto al Festival di Venezia nel 2007, ho pensato di invertire il rapporto tra la musica e le immagini e fare in modo che fossero alcune sequenze cinematografiche a contrappuntare visivamente la musica, con un approccio ai visual molto punk-rock.

AAJ: Atmosfere struggenti, musica evocativa, pellicole in bianco e nero. C'è molta nostalgia in quello che fai, perché sei attratto da tutto questo?

R.A.: Mi attrae l'idea di affondare le radici nel passato per proiettare il suono verso il futuro. Di proiettare, durante il concerto, sullo schermo i nostri tabù, utilizzando però scene tratte da grandi pellicole del passato, mostrando come spesso all'epoca chi si metteva dietro la macchina da presa avesse molta lungimiranza e molto coraggio.

AAJ: Perché la tua musica coinvolge così tanto chi l'ascolta?

R.A.: Perchè non scrivo per necessità, ma per il reale bisogno di dire qualcosa che non riuscirei altrimenti ad esprimere, e perché metto in primo piano l'elemento del racconto, che al compositore consente di usare una chiave non autobiografica, fortemente narrativa e cinematica, che fa essere la musica di chi l'ascolta e non di chi la scrive.

AAJ: La notorietà crea delle inevitabili aspettative. È cambiato negli ultimi tempi il tuo modo di proporti sul palco?

R.A.: Più che la notorietà sono le etichette a creare in altri aspettative mal riposte. Così se qualcuno ti cataloga nella categoria jazz (nel cui ambito peraltro a mio avviso oggi rientra spesso la migliore musica contemporanea scritta), il purista - che a volte coincide anche con un addetto ai lavori - si aspetta di sentire un piccolo Errol Garner suonare. Può così rimanere spiazzato nell'ascoltare un compositore che usa il pianoforte come un semplice colore tra gli altri, che ricorre all'improvvisazione come a uno degli ingredienti stilistici, unendolo ad altri assai distanti, come il melodramma, la canzone napoletana, il punk, certa musica sinfonica dei primi del Novecento... Il mio modo di propormi sul palco è cambiato, certo, ma non per la notorietà, piuttosto perché non nasco artisticamente sul palco, bensì dietro le quinte di un teatrino delle mia città a comporre musiche di scena per la prima compagnia che mi scritturò. Avevo diciotto anni. Oggi mi sento a mio agio e credo di avere uno stile sobrio e personale sul palcoscenico che corrisponde alla mia indole, ma che mi permette di liberare le sensazioni - a volte fortissime - che provo mentre suono davanti al pubblico che è venuto ad ascoltarmi.

AAJ: Sei di recente stato in concerto all'estero. Quali sono state le differenze che hai notato, in termini di accoglienza, risposta in generale, con il pubblico italiano?

R.A.: Non grandi differenze, entusiasmo, rispetto e affetto per il mio progetto e per la mia musica, come in Italia. Forse potrei dire meno inibizione. Ci sono miei brani idealmente dedicati alla danza, e molte persone, per esempio quando eseguivamo "Tabù," si alzavano in piedi per ballare, anche se eravamo in teatro.

AAJ: A una domanda sul disco che ti ha cambiato la vita hai risposto Explorations di Bill Evans. Ci racconti come è andata e perché?

R.A.: Un amico di famiglia me lo suggerì, ero un ragazzino, avevo 13 anni. Ho consumato quel vinile. E non so quante volte l'ho ricomprato e regalato in CD. Scott La Faro, indimenticabile al basso. C'è una luce in quel disco inspiegabile, è di una bellezza epocale. Per me non è neppure più jazz, è un disco che ha talmente e radicalmente cambiato la musica e in particolar quella per trio piano, batteria e contrabbasso che è musica classica.

AAJ: Dopo un album come Tabù, fortemente caratterizzato dalle sonorità del tuo trio (pianoforte-fisarmonica-chitarra), come pensi di proseguire l'avventura musicale senza rischiare di ripeterti?

R.A.: Meditando e studiando. E, discograficamente parlando, tacendo per un po.' Ma accumulando nuove esperienze live, di scrittura e di collaborazione.

AAJ: Musicalmente parlando, quali sono i tuoi tabù e come pensi di poterli sfatare?

R.A.: L'uso della voce umana. Che userò quando troverò la chiave stilistica e l'artista che mi convinceranno della necessità di farne uso nella mia musica.


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