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Festival de Jazz de San Sebastián - Heineken Jazzaldia

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I festival jazz della Spagna basca condividono l'impostazione "democratica" del circuito maggiore europeo (tipo North Sea, Molde, Umbria Jazz): programmi densi, aperti a tutte le tendenze in campo, ma con chiare preferenze al mainstream del momento. Non fa eccezione Jazzaldia nella splendida San Sebastian, che in cinque giornate e ben dodici postazioni concertistiche quotidiane, nella sua edizione numero 47 ha offerto un eclettismo sonoro assoluto, ripagato da una partecipazione di pubblico straordinaria.

Si può ascoltare la stella vocale femminile e il downtown New York; il rock d'autore britannico e l'electro-jazz più alla moda; la fusion e il free jazz. È vero che così si accontenta tutti? O piuttosto si sceglie di non calibrare un'idea di tendenza, ricettivi verso tutti i management, ecumenici senza una proposta forte? D'altra parte le opzioni sono nette ormai da anni nelle rassegne continentali, e chi si aggancia al lungo treno delle kermesse "per tutti" deve per forza offrire un menu così variegato. I nomi erano comunque di livello: nella lunga lista svettavano Marc Ribot e Melody Gardot, Bobby McFerrin & Yellojackets oltre a Waterboys, Nils Petter Molvaer ed Enrico Rava.

Eravamo lì nelle serate finali. E non erano da perdere il recital di Antony Hegarty con grande orchestra e il set di Neneh Cherry con The Thing. Entrambi in programma nelle principali sedi europee per circa un mese ma senza neppure una data in Italia! (E se questo non è significativo...)

Il grande vocalist americano ha approntato un set sinfonico molto impegnativo—con ensemble diversi in ogni luogo—che rivisita il meglio del suo repertorio e inaugura composizioni nuove che finiranno nell'imminente Cut the World, brano utilizzato anche da Marina Abramovich nell'ultima sua performance.

Ascoltando Antony ci torna in mente una riflessione sull'utilizzo dell'orchestra. Quale può essere il senso di questo rivestimento ambizioso, di questo gonfiare armonicamente le pop songs, di questo sforzo anche produttivo? Non so, anche altri protagonisti illuminati (vengono in mente Peter Gabriel, Sting..) hanno preso questa direzione con esiti alterni, a volte imbarazzanti..

Antony forse è più portato, per il tipo di struttura "lirica" di molti suoi pezzi: certo è che così si enfatizza il lato tardo-romantico delle interpretazioni e si minimizza quello "soul," il più intrigrante.. Il primo quarto d'ora, comunque, è magnifico, Antony è in stato di grazia e l'esecuzione di "Cripple and the Starfish" non si dimentica. La vocalità è in fibrillazione, i colori angelici e quelli baritonali scivolano uno nell'altro con una padronanza emozionante, che viene ribadita in "The Crying Light" e "You Are My Sister". In seguito, il manierismo della coloritura orchestrale (35 elementi!, sono quelli dell' Et Incarnatus Orkestra) non evita sapori dolciastri (glockenspiel, ottavini e arpa non sono il massimo, tra le massicce sezioni di archi e fiati) e lo stesso Antony spezza il flusso dei brani con interventi discorsivi sull'eco-sostenibilità, sul riscatto delle donne in politica eccetera eccetera. In fondo al concerto, la versione solitaria di "Hope There's Someone" è il picco assoluto. Comunque, un lavoro di tutto rispetto.

Tutt'altra temperatura per l'atteso set di Neneh Cherry e The Thing, in Plaza Trinidad davanti a un folto pubblico. Si è molto parlato di questo meeting, quasi sempre con lodi convinte. In effetti, quella che poteva rivelarsi una curiosità per appassionati e nulla più, è cresciuta invece come una proposta di notevole livello. L'arma vincente del quartetto risiede nella semplicità e nell'immediatezza. Entrambi gli elementi (cantante e trio) ricevono forza espressiva l'uno dall'altro. Neneh è intelligente nella capacità di interagire e dialogare musicalmente, senza mai prevaricare; i tre scandinavi riescono in questa occasione a lavorare bene sulle forme brevi, mettendo a frutto la loro passione per il rock, scavando con acume sui riff e gli archi melodici. Dunque niente di cervellotico, anzi poche strutture ma ben stilizzate e giusto spazio per i violenti crescendo che The Thing sanno dosare come pochi al mondo.

Il repertorio è quello dell'album omonimo, ma non solo. Accanto al brano-guida, diventato Dream Baby Dream, sorprendono alcune scelte come Call the Police della cantante blues e zydeco Stephanie McDee e nientemeno che Wrap Your Troubles in Dreams, standard anni '30 di Broadway! Le rivisitazioni da Don Cherry e Ornette Coleman non mancano come alcuni originals molto energici di ciascuno degli elementi del gruppo.

Ingebrigt Haker-Flaten, malgrado un contrabbasso preso in prestito, ha suonato magnificamente, come d'altra parte le altre due pedine del trio, Mats Gustafsson e Paal Nilssen-Love. Neneh Cherry si rilancia in maniera non banale, rispolverando il suo carisma, al servizio però di un suono ruvido, poco accomodante, che infatti non è stato accolto in platea con grida di giubilo.

Riservate invece al supergruppo "Miles Smiles," latore di una fusion piuttosto prevedibile però con una buona forza funky. L'idea di rifare brani di Miles senza particolari trovate può essere divertente; alcune sortite di Wallace Roney e Robben Ford possono essere gustose; la ritmica di Omar Hakim (batteria) e Darryl Jones (basso) è granitica. Ma ben presto il set si rivela come una rutilante sequenza di assoli, tipicamente da festival estivo. Completano la formazione Joey De Francesco all'organo Hammond e Rick Margitza ai sassofoni.

Foto di Luca Vitali.

Ulteriori immagini di questo festival sono disponibili nella galleria dedicata al concerto di Neneh Cherry & The Thing


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