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Evitare l’ovvietà: Intervista a Riccardo Fioravanti

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Volevamo tirare fuori la musica di Coltrane, non il sound del suo gruppo. Quello contenuto in "Coltrane Project" è il nostro suono.
Riccardo Fioravanti, come tanti musicisti, ama l'arte di John Coltrane. Ma - a differenza di molti altri - ha deciso di omaggiare la sua musica con un gruppo senza sassofonista. In Coltrane Project, insieme ai consueti compagni di ventura Bebo Ferra e Andrea Dulbecco, ha chiamato a raccolta tre trombettisti speciali: Fabrizio Bosso, Giovanni Falzone e Dino Rubino. Ne è uscito fuori un lavoro personale, che sintetizza l'idea e il pensiero di Fioravanti, musicista e uomo abituato ai percorsi in salita.

All About Jazz: Stai presentando dal vivo Coltrane Project. Sensazioni a riguardo?

Riccardo Fioravanti: Non ho nessun timore, suono con dei musicisti che sono prima di tutto dei miei amici. È tanto che stiamo insieme. Questo gruppo esiste da una quindicina di anni. Cresciamo insieme e suonare con loro è sempre una gioia. Le sfide aumentano e siamo sempre felici di andare avanti lungo la nostra strada.

AAJ: In questi anni ci sono stati momenti difficili o di tensione tra di voi?

R.F.: Mai, per fortuna (ride, ndr). A volte si discute, certo, soprattutto io e Bebo Ferra che siamo i più calienti del gruppo, ma sono sempre delle bellissime discussioni. Non ci sono mai stati litigi. Questo per l'amore della musica. Poi con Andrea Dulbecco, che è il più diplomatico, è veramente impossibile creare tensioni.

AAJ: All'inizio vi siete ispirati a qualcuno o il gruppo è nato in maniera del tutto spontanea?

R.F.: Siamo nati come quartetto, con Giampiero Prina alla batteria, che è venuto a mancare dieci anni fa. Era un mio amico fraterno. Mi aveva suggerito lui di fare un lavoro ispirato a Bill Evans (Bill Evans Project 2005, N.d.R.), ma senza il pianoforte. Non volevo in formazione lo strumento di Bill Evans. È stato abbastanza normale inserire il vibrafono, perché Andrea mi piaceva come musicista e perché mi sono reso conto che il suono del vibrafono lasciava molto spazio al contrabbasso. Avevo chiesto a Gabriele Mirabassi se voleva far parte della formazione, ma siccome in quel periodo era impegnato in un altro progetto, chiesi subito a Bebo di partecipare. Quando poi in seguito Giampiero è mancato abbiamo deciso di non sostituire la batteria; è stato come fare un omaggio al nostro amico.

AAJ: Qual è stato il momento di maggiore appagamento?

R.F.: Non saprei. Tanti. Ogni volta che esce un CD o finiamo un concerto c'è sempre una grande soddisfazione. Ogni volta che lasciamo il palco ci guardiamo in faccia come per dire: "caspita che bello! anche stavolta abbiamo raggiunto quello che volevamo". Difficilmente ci sono episodi negativi.

AAJ: In Coltrane Project manca un sassofonista, come per il lavoro su Bill Evans mancava il piano.

R.F.: La scelta di non utilizzare il sax è un punto di partenza. È un'idea ferma. Non solo, manca anche il piano di McCoy Tyner e la batteria di Elvin Jones, che erano altrettanto caratterizzanti del sound di Coltrane. Volevamo tirare fuori la musica di Coltrane, non il sound del suo gruppo. Quello contenuto in Coltrane Project è il nostro suono. Del resto era difficile rendere il suono torrenziale di Coltrane; abbiamo cercato di esprimere una nostra via.

AAJ: Avete anche coinvolto tre trombettisti: Fabrizio Bosso, Giovanni Falzone e Dino Rubino.

R.F.: Sì, è stata una situazione ancora più soddisfacente. Andare in studio con loro è stato bello e divertente.

AAJ: Hanno doti comuni o li avete scelti per i contrasti?

R.F.: In comune hanno una grande musicalità e ognuno ha una voce molto singolare. Sono tre persone diverse tra di loro, e anche dal punto di vista musicale sono diversi. Riescono però in questo lavoro a fondersi quasi come fossero una persona sola. Fabrizio è un grandissimo virtuoso della tromba, ha una tecnica pazzesca e un bellissimo suono; Falzone ha una follia geniale nel modo di suonare che mi affascina molto; Dino Rubino è anche un ottimo pianista e riesce a riversare nella tromba questa conoscenza armonica che si traduce in versatilità, mi piace per il suo lirismo, per il suo approccio poetico.

AAJ: Perché si sceglie e come nasce la voglia di intraprendere un percorso di rivisitazione di un repertorio così tanto battuto come quello di Coltrane, a costo di andare incontro a un qualcosa di già fatto?

R.F.: La voglia è data dall'incoscienza e dall'amore per Coltrane. Una figura che mi ha affascinato fin dagli inizi. Quando ancora non ero preparato per la sua musica ascoltavo "My Favorite Things," la suite di "A Love Supreme" e "Giant Steps". Ero catturato da questi brani, per la loro spiritualità, per la loro simmetria armonica. Mi piaceva anche il suono del soprano che rimandava all'oriente. Il nostro non è un lavoro fatto a scadenza, a orologeria, come quelli fatti per celebrare l'anniversario di questo o quell'altro musicista. Non mi è importato niente di tutto ciò, pensavo a questo lavoro da anni. Avevo voglia di farlo, tutto qui.

AAJ: Come pensi che reagirà il pubblico?

R.F.: Penso che sia un album che possa incuriosire i pubblico, almeno una volta tanto non c'è un sax e tutte le caratteristiche di Coltrane. La sua musica c'è, ma il nostro è un lavoro che si stacca dal contesto, cercando di incastrare il ritmo del contrabbasso, la chitarra acustica in primo piano e la marimba. Vorrei che la gente fosse incuriosità dalla mancanza di ovvietà.

AAJ: In scaletta ci sono tre origianli, uno a testa. In che modo li avete amalgamati con il resto del repertorio?

R.F.: Il mio "Blue Trane Bossa" era già un omaggio a Coltrane che avevo inciso sull'album Note basse, perché si basa sulla parafrasi del tema di Kenny Dorham "Blue Bossa," però pensato attraverso gli accordi di "Giant Steps". Mentre il tema di Bebo "Gentle Giant Steps" è chiaramente una parafrasi di "Giant Steps," però in ¾, quindi con un andamento diverso. "Descent" di Dulbecco è il più interessante di tutti. Perché ha voluto fare un omaggio alla suite "Ascension," partendo dal canto gregoriano per poi avvicinarlo alla spiritualità di Coltrane. Ne è venuto fuori una sorta di canto gregoriano moderno, con l'intreccio delle voci che sfociano in un'improvvisazione free, come accade un po' in "Ascension".

AAJ: Insegni Jazz all'Accademia del Suono di Milano e nei Conservatori di Brescia, Como e Cuneo. Qual è la pricipale nozione che cerchi di trasmettere ai tuoi allievi?

R.F.: La curiosità. Li spingo ad andare oltre i confini della musica. Cerco di incuriosire i miei allievi con diversi accostamenti. In questo momento, nella classe dove insegno a Cuneo, stiamo facendo un programma che si colloca tra l'impressionismo e Bill Evans. Cerchiamo di capire quanto la musica impressionistica abbia influenzato grandi personaggi come Kurt Weil, Jobim, Bill Evans e molti altri. Quindi tornare alle radici della musica europea fino ad arrivare a questi grandi musicisti del jazz. Parliamo di Chopin per esempio, che viene sempre considerato come un romantico e che è invece il primo grande impressionista. Abbattere le barriere è fondamentale. Ai ragazzi faccio suonare Bach, che a mio avviso è il primo grande bassista della storia, in assoluto.

AAJ: Pensi che le molte nozioni di cui i ragazzi oggi dispongono e la preparazione tecnica che riescono a ottenere nei Conservatori possa andare a discapito dell'espressività?

R.F.: Assolutamente no. La didattica mette in mano ai ragazzi dei mezzi per andare avanti, chiaramente poi c'è chi riesce a utilizzare al meglio questi mezzi per far uscire il proprio talento. Le nozioni non devono essere il fine per un allievo, ma uno strumento di partenza. Oggi in Italia ci sono molti talenti, con molta creatività. L'importanza della didattica da noi ancora non è molto capita, ma un musicista non può essere solo quello.

AAJ: Hai interessi extra musicali? In che modo influiscono sul tuo modo di concepire musica?

R.F.: Sì, uno di questi è la montagna. Mi piace moltissimo il trekking e l'arrampicata. Sono situazioni nelle quali mi concentro molto e dove entrano in contatto il mio corpo con la mia mente. Scrivo la maggior parte dei miei brani quando cammino in montagna, non quando sono a casa, dove perfeziono la tecnica. La creatività mi viene fuori quando sono in "un altro mondo".

AAJ: Pratichi anche joga. Dal punto di vista della concentrazione e della spiritualità c'è sempre una sorta di rimando a Coltrane?

R.F.: Direi di sì. Le due cose si collegano. Non sono credente, sono laico, ma ho una mia spiritualità. Lo joga, quando riesco a praticarlo con continuità, mi riconduce a una dimensione particolare. Trovo che la musica di Coltrane abbia molto di extra-terreno. Mi trovo d'accordo con una frase di Luigi Bonafede che ha detto: «a volte ascoltare la musica di Coltrane è imbarazzante, perché è come ascoltare una persona che prega». In effetti Coltrane era bagnato in questa spiritulità.

AAJ: Hai iniziato a suonare jazz in un club particolare come il Capolinea di Milano. Oggi il jazz in Italia è di moda e si sta spostando sempre di più dal concetto di jazz-club. Cosa pensi di questa mutazione?

R.F.: Auspico che nascano centinaia di posti per il jazz come, per esempio, il Parco della Muisca a Roma. È importante per il pubblico. Però mi piacerebbe che tornassero a nascere posti come il Capolinea. Perché quella era veramente come una casa dei musicisti e degli appassionati di jazz. A Milano un posto così non c'è più. Spero che ci sia la possibilità di ricreare situazioni culturali così interessanti. Il pubblico del jazz c'è, ed è maggiore rispetto al passato. C'è voglia di live. Abbiamo in Italia grandissimi jazz club, mi viene in mente Ferrara o Torino, mi auspico una fioritura di posti così.

AAJ: Nel frattempo ti stai dedicando a qualche altra situazione musicale?

R.F.: Sì, è un progetto che ho in mente da tempo. Andrò verso la direzione intrapresa con Note basse. Ci sto lavorando, ma non c'è ancora nulla di definito.

Foto di Roberto Cifarelli (la prima, la quarta, la quinta e la sesta), Efrem Abba (la seconda) e Giorgio Alto (la terza).


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