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Esotismi all’IRCAM

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Forse il titolo è fuorviante ma richiama alcune delle impressioni provate all’atelier-concerto organizzato dal noto istituto di ricerca francese IRCAM presso il Festival Printemps des Arts de Monte-Carlo. Partirò dal fondo, ossia dalla sensazione che le tecnologie IRCAM pare servano in modo sempre più lampante, oltre che a riorganizzare le sensibilità in modi e forme razionali talvolta dai risvolti inquietanti, ad assorbire ed inglobare le esperienze e le sperimentazioni musicali del mondo, restituendocene un’immagine spesso esotica [esotizzante] dai risvolti talvolta ambigui. Qualcuno sobbalzerà se aggiungo che la mattinata non è stata delle più esaltanti a livello musicale quanto piuttosto è stato interessante assistere ad una presentazione dettagliata della mentalità musicale dell’IRCAM, sintetizzata nel motto più volte ripetuto, formazione, ricerca, sperimentazione.

La sensazione che ha lasciato una mattinata di ascolti guidati è che forse l’Utopia del suo padre fondatore Pierre Boulez condensata dai suoi eredi risulta meno utopica e ancor meno calata nel presente e nel mondo post-moderno, globalizzato e anti-illuminista che viviamo. In fondo era radicale, utopico, visionario il tentativo di serializzare ogni fattore costitutivo della composizione, non solo le altezze, ma anche durate, dinamiche, timbri, modi di attacco, portando alle estreme conseguenze il puntillismo di Webern.

La cronaca dell’atelier-ascolto si dipana in tre proposte che vogliono dare conto delle esperienze di tre diverse generazioni e stili targati IRCAM. Tre modi e sensibilità che cercano il mondo trovando in modi diversi.

Metallics (1994-1995) di Yan Maresz (1966) è un’opera emblematica per capire le ultime ricerche dell’IRCAM, forse è una delle più famose e belle. Scritta per tromba e tecnologia in tempo reale, l’opera trova la sua vera chiave espressiva nella sordina - dispositivo metallico che applicato alla tromba ne modifica il suono, attutendolo e variandone il timbro. Il progetto composizionale di Maresz si concentra sulle diverse sordine utilizzate per la tromba e sui diversi usi che ne sono stati fatti. A partire dalle trasformazioni operate dalle varie sordine [che non sempre risultano filtri armoniosi, per non dire che possono produrre una vasta gamma di veri e propri rumori] sono state poi applicate sintesi con filtri, trattamenti, spazializzazione e decentramento dei suoni direct-to-disk su Mac. La sperimentazione, la tradizione e l’esperienza dello strumento e dell’applicazione della sordina hanno prodotto un’opera pulita, ben equilibrata, dove distillazioni, compressioni, filtri e sintesi incrociate hanno estratto via via dal suono ogni sua parte ‘brutta’ e ‘rumorosa’ per restituirci un prodotto depurato e sintetico. Per quanto l’impatto all’ascolto sia molto suggestivo poiché la tecnologia pare edificare i suoni di una intera orchestra con cui interagisce il trombettista, il suono filtrato e depurato lascia perplessi. Ancor più perplessi se nelle orecchie echeggiano ancora i rumori, voluti, cercati, osannati, fatti diventare suono da Kagel.

Erba nera che cresci segno nero tu vivi per soprano e voce di sintesi (1999-2001) di Mauro Lanza (1975) è una riflessione sul rapporto tra musica e linguaggio - non la sua retorica, ma la sua forma musicale. Influenzato dalle teorie della linguistica generativa, Lanza spiega la propria opera dicendo di “trovare molte analogie tra il modello di linguaggio come struttura ad albero con più livelli gerarchici e l’idea del ritmo sviluppata in questo pezzo”. E ancora “tutti i patterns condividono lo stesso antenato, vero scheletro ritmico che si sviluppa di modo organico durante tutta la durata del pezzo dandogli pregnanza e trasparenza, un orientamento alla nostra percezione della complessità”. Dal punto di vista strettamente musicale il compositore veneziano ha utilizzato la sintesi per modellizzazione fisica con l’aiuto del programma sviluppato all’IRCAM Modalys che trasforma nulla di meno che i suoni prodotti da strumenti esotici come il gamelan (strumento esotico per eccellenza), timbali, koto, xilofono, tubi di metallo e altra “paccottiglia” del genere, integrando poi il tutto con testo e voce. Lo spirito di Kagel viene salvaguardato in parte da un’interpretazione dove la fisicità del canto e dell’interpretazione giocano un ruolo significativo. Poesia + voce + elettronica + parole sembrano sovrapporsi in un crescendo che si riversa nell’acuto finale. A differenza del precedente pezzo, si avvertono le aberrazioni dell’esotismo. Lo scarto, il rumore, la paccottiglia vengono anche qui formalizzati e filtrati (ma non depurati) per costituire poi la base ritmica con cui la soprano interagisce. Un’unica perplessità sta nell’interpretazione della soprano a cui pare mancare un tocco di delirio quel tanto che basta per percepire che il senso del gioco si è incrinato o rotto anche in lei.

L’epilogo spetta a Gerard Grisey (1946-1998) e ai suoi “Prologue” tratto dagli Espaces acoustiques I e Nouvelle piece. I due pezzi sono storia della musica (spettrale). Il fine ultimo della composizione e della sua esecuzione non è libertario ma strumentale allo strumentista. Attraverso Modalys, il software per la sintesi del suono basata sui modelli fisici, Grsiery agisce sulle cellule melodiche giocando sulle altezze di uno spettro d’armonie. Tutto parte e torna a questa cellula. Il suo viene atomizzato per poi essere riedificato in una sovra struttura quale l’opera è. La voce del “Prologue” deve superare se stessa per cogliere le vibrazioni, per gestire (come ha scritto Grisey) “la dialettica tra il delirio e la forma”. Meno esotico dei precedenti, Grisey inquieta per il suo rapporto con il mondo dei suoni, per il suo modo di scomporli minutamente, di dargli nuova veste. Esotizzanti le sue riflessioni sul ruolo passivo delle vibrazioni quando chiama in causa il sitar ed altri strumenti e quando costringe la propria interprete a muoversi su quella linea.


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