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Debora Petrina

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Debora Petrina è un fiume in piena. Bastano una frase, un accenno, una piccola sollecitazione a scatenare tempeste di parole e di pensieri. Ma non poteva essere diversamente visto che con le parole e i pensieri Petrina ci gioca continuamente, ed ogni sua esibizione trasuda di inesauribile vitalità. E allora tra ricordi affettuosi, viaggi oltreoceano resi possibili dal fornaio, premi inaspettati, incontri sorprendenti, progetti ambiziosi, e sogni nel cassetto emerge la figura di un'artista a tutto tondo. Curiosa, onnivora, con le antenne ben sintonizzate su tutto ciò che la circonda, un rapporto speciale con la propria voce e il proprio corpo, una riconoscenza dichiarata verso Cuba, New York, San Francisco, il ricordo indelebile di quella gente e un'opera moderna nel mirino.

All About Jazz: Nasci come pianista classica innamorata di autori come Morton Feldman [in Early and Unknown Piano Works], Kurtag, Maderna e arrivi al CD In doma, canzoni per voce, basso e batteria, tra Ascanio Celestini ed Elliott Sharp. Un bel tragitto non trovi?

Debora Petrina: Dall'esterno parrebbe proprio così, che una mattina mi sono svegliata cantando e scrivendo delle canzoni, mentre fino al giorno prima suonavo musica contemporanea al pianoforte! Ma le cose sono sempre diverse da quelle che appaiono: l'esigenza di scrivere musica si è fatta sentire consapevolmente quasi una decina di anni fa (in precedenza, all'epoca del Conservatorio, 'storpiavo' i brani altrui e riempivo di foglietti scritti il mio studio, ma era più che altro una specie di sfogo).

Ho cominciato a scrivere le prime note (il primo pezzo è un brano per flauto traverso, e risale al 1999!) un po' timidamente: non avendo studiato composizione e con ancora la soggezione degli autori che conoscevo, faticavo a credere in ciò che mi usciva in modo istintivo. Poco dopo, un evento luttuoso nella mia famiglia ha letteralmente fatto esplodere una creatività su più fronti: la composizione, il canto, la danza.

All'epoca avevo un progetto con una cantante ma mi sentivo un po' inibita nel farle sentire i miei lavori. Così registravo e suonavo in pubblico i miei esperimenti compositivi al pianoforte, mentre tenevo per me quelli in cui c'era anche la voce (anche se ricordo un invito alla prima edizione del Musicultura Festival a Mantova, nel 2002 mi pare, in veste di cantautrice/pianista, a fianco di Lidia Ravera, con un mio pezzo intitolato 'Saremo a Sanremo'!...). Dunque non c'è stato un cambiamento di rotta, ma un'evoluzione, lo sviluppo di un'esigenza che è divenuta sempre più chiara.

L'interpretazione degli autori contemporanei è continuata in modo parallelo: l'esecuzione del Concerto di Maderna risale solo al 2008, così come la collaborazione con l'Orchestra di Padova non si è mai interrotta (alla scorsa Biennale di Venezia abbiamo eseguito Frank Zappa e John Adams), né il mio interesse per Feldman e Cage (anzi, è di prossimo annuncio un concerto di brani pianistici scritti da questi due autori per la danza, che interpreterò con una importante danzatrice italiana).

A volte il cantautorato si avvicina molto alla musica cosiddetta contemporanea, come nel caso di una mia rielaborazione di un brano di Frederic Rzewski, dall'originale per 4 vasi intonati e voce recitante, ad una versione per pianoforte e voce (con un bel po' di materiale aggiunto!). Le stesse canzoni del mio disco non si incasellano nella tradizione italiana, ma risentono di altri influssi e ascolti. Che non sono solo la musica classica e contemporanea, ma anche il rock e il jazz. Alla fine si tratta di etichette che la musica del futuro dovrebbe guardare con sospetto...

AAJ: In doma, il tuo ultimo e apprezzato lavoro, è tante cose insieme ma soprattutto testi e voce. Cos'è per te la voce? Come ci lavori?

D.P.: La voce fa parte di tutte quelle scoperte 'tardive,' come la composizione e la danza: credo si tratti di un 'corpo parlante,' molto profondo e viscerale, che ha avuto bisogno di qualche scossone per trovare il coraggio di uscire. Fin da piccola il canto è stato un compagno di paure e di attese, un canto inventato, con testi o linguaggi inesistenti; e credo proprio di averlo ereditato da una madre molto fantasiosa che inventava una canzone dopo l'altra. Quando ho cominciato a prendere coscienza del mio corpo, come corpo che esprime, ecco che è comparsa la voce.

Non vorrei soffermarmi in disquisizioni psicanalitiche, ma credo che il pianoforte, strumento astratto e colto per eccellenza, abbia per così dire soffocato tutte queste istanze più irrazionali e profonde, che si erano manifestate prima di cominciarne lo studio. Lo studio della vocalità è avvenuto parallelamente a quello della danza contemporanea (dove l'uso della voce è normale): per anni ho studiato la tecnica con cantanti di jazz, e per anni ho lavorato in performance che richiedevano un uso della voce non convenzionale. Ma mi è servito soprattutto il lavoro autonomo, quello alimentato dalle mie personali inclinazioni, e dai miei ascolti. La voce è parte del corpo, e come il corpo si modifica con le esperienze, l'umore, la maturazione personale. Emettere un suono è come fare un gesto, anche il più piccolo e semplice, e sentire l'ampiezza del movimento, il peso dell'arto che si muove, la linea che disegna. Niente a che vedere con l'artificio, ma con la sperimentazione sì.

Non mi piacciono le voci che sanno essere solo melodiose,'belle' per definizione. Preferisco voci interessanti, che sanno comunicare anche altro, un po'come i visi delle persone: meglio un volto 'brutto' ma espressivo, che un volto da bambola...

AAJ: Veniamo ai testi. Come nascono? Come arrivano alla forma definitiva?

D.P.: I miei testi nascono principalmente dalle esperienze, quotidiane, presenti e passate. Fin da adolescente nei lunghi tragitti in treno scrivevo frasi e annotazioni. Vengo da una famiglia di letterati (io sono la pecora nera in tal senso!), e credo di aver mutuato da lì l'amore per la letteratura e la poesia, per la parola, le sue declinazioni e sfumature. Mio padre (professore di italiano e latino) fin da piccolissima mi faceva giocare con i sinonimi e i contrari, e con pensieri scritti ad ogni occasione; e così mi sento a casa con il linguaggio, con cui mi piace giocare, anche a nascondino. Mi alletta l'idea che un testo possa divenire fonte di interpretazioni diverse, che ognuno possa leggervi una propria storia, attraverso le immagini che suggerisce. E a volte può scaturire da un approccio apparentemente oggettivo, legato alla realtà, come nel caso di "SMS," che cita messaggini anonimi di un free press. O come nel caso di una canzone non pubblicata nel disco, che riporta fedelmente le comunicazioni scritte ad un non udente, così come si presentano nei fogli dei block-notes originali, ma che, proprio per il loro essere affiancate, assumono significati che aprono altri spazi di poesia. In questo modo il personale e il drammatico trovano una loro cifra universale, che li apre a diverse letture.

AAJ: Sempre su In doma usi lingue diverse: Lo spagnolo per "Asteroide 482," l'ungherese per "SMS," l'inglese per "She - Shoe" e "Pool Story" e naturalmente l'italiano...

D.P.: Premetto che non sono così poliglotta come sembra... ma mi piace giocare con i linguaggi e i loro suoni, questo sì. L'unica lingua che mi sono messa a studiare davvero, oltre all'inglese ovviamente, è l'ungherese, che ho usato nel mio disco; si tratta di una lingua che mi ha incuriosito quando studiavo musica a Budapest, proprio per la sua stranezza di suoni, che non hanno alcuna parentela con quelli dell'est Europa. La parola 'pianoforte,' ad esempio, che in tutte le lingue fa riferimento a 'klavier,' nell'ungherese ha un suono quasi africano... 'zongora'!

Ad ogni modo, a parte i giochi linguistici, di cui sono ghiotta, mi sono sempre interrogata sulla relazione, che indubbiamente esiste, fra la lingua di un popolo, la sua natura, e la sua vocalità. La maggior parte delle donne spagnole, ad esempio, ha una voce dal timbro grave, e un'emissione molto 'di pancia,' senza falsetti e note soffiate; le giapponesi, al contrario, hanno una voce molto acuta, argentina, e modulante, come una musica. E gli esempi possono continuare, anche solo con i dialetti italiani: chi non nota la differenza fra il timbro di una siciliana e quello di una veneta, al di là dell'inflessione? Questo mi fa pensare che la voce è davvero radicata nell'anima, e ne esprime i respiri, i cambiamenti. Un po' come la gestualità, che si modifica a seconda dello stato d'animo, delle età, delle esperienze. Ricordo che da piccola facevo molto caso al timbro dei 'sì' di mia madre, se avevano un'inflessione dal grave all'acuto o viceversa... Nelle mie ultime canzoni, quelle non ancora pubblicate, sto preferendo l'inglese, che si presta, più dell'italiano, a ritmiche veloci e asimmetriche (di cui faccio largo uso!). Ma l'italiano rimane la lingua musicale per eccellenza, quella che ti consente di modulare la parola come se fosse una linea melodica.

AAJ: "She-Shoe" oltre che un brano del tuo CD è anche una performance dove oltre alla voce i protagonisti sono il corpo e il movimento...

D.P.: E' nata come performance, come 'solo' di danza contemporanea, in cui però la sedia che usavo come 'partner' e il suono erano amplificati da piccoli microfoni a contatto, e pure la mia voce (in sussurri) era ripresa da questa microfonazione. Il tutto veniva processato dal vivo da Emir Bjiukic, che è ospite anche di In doma.

La performance è basata sull'idea dell'alterazione dello schema corporeo: porto un paio di scarpe coi tacchi, ma la scarpa sinistra sta sulla sua mano sinistra. Da qui l'illusione ottica di avere una terza gamba, e la successione di immagini che si autogenerano senza fine, come in un anagramma. Mentre studiavo allo specchio la performance, ho visto queste immagini come metafore: lo stare con una gamba all'aria, l'equilibrio precario, la caduta, il tenersi tenacemente attaccati ad un unico appiglio, ma anche il sembrare un essere tentacolare, i movimenti che mi suggerivano corse a fianco di un treno, giochi di bimbi, lo stare sdraiati sull'erba, l'avere una capigliatura non appropriata. Tutte immagini a doppio, a volte triplo senso; metafore della mia vita e della mia personalità, ma credo anche della vita di molti artisti, soprattutto donne... Ecco che ne è nata la canzone, che è divenuta il finale della performance di danza. L'inglese mi è servito per le rime e i giochi di parole, che aprivano significati ulteriori anche per gli italiani. C'è un verso, nel ritornello, che strizza l'occhio all'origine della canzone, ma anche ad un bellissimo brano, poco noto, di Jack Bruce: "I Sleep with the Dancers in My Room...," viene da Can You Follow, ed esprime benissimo un'esperienza per me quotidiana, dentro e fuori metafora!

AAJ: Hai interpretato stravolgendoli diversi brani dei Radiohead. Una scelta dettata dall'amore verso questa band? Cosa pensi della scena musicale di questa prima decade di millennio?

D.P.: E' vero, con i Radiohead l'ho fatto in modo più metodico, ma molto tempo fa. E' un lavoro che io chiamo di dis-cover, ovvero pezzi scritti da altri, che mi diverto a riarrangiare, a volte con ampia libertà. Le prime vittime sono stati proprio i Radiohead, ma l'ho fatto poi con canzoni dei Beatles, dei Doors, di Nick Drake, di Lucio Battisti, di Bruno Martino, di Nick Cave, di Tom Waits, di Lou Reed, di Annie Lennox... I Radiohead mi piacevano, e avevo anche nelle orecchie le superbe rielaborazioni pianistiche di Brad Mehldau, così piene di inventiva da essere migliori dell'originale, almeno per me. Anch'io ho fatto una versione di "Exit Music," ma con la voce. Tuttavia quello su cui ad un certo punto mi sono accanita è stato un album in particolare: Amnesiac. Un album ostico da trattare al pianoforte, perché molti dei pezzi sono pieni di elettronica e con le voci spesso alterate, senza melodie riconoscibili; nel caso di "Pulk/Pull Revolving Doors" ho inventato tutto di sana pianta, eccetto il testo. Il progetto si chiamava Don't Forget: Amnesiac (2003/2004).

In genere ascolto quello che è successo o succede fuori dall'Italia, dove gli artisti trovano condizioni migliori per sviluppare i proprio talento in modo autonomo e originale. La mia esperienza riguarda soprattutto gli Stati Uniti (mi riferisco a New York e California): qui i musicisti che conosco inventano forme e stili che per me sono il futuro della musica, e, solitamente, 'se la tirano meno.' Sì, perché sono più abituati di noi alla competenza musicale, e anche alla competizione: studiano di più, il livello è più alto, suonano di più, anche se poi vengono in tournèe in Europa per racimolare qualche soldo. Ma sono sicuramente dotati di un'energia e di un'umiltà che qui è difficile trovare: è da loro che attingo tanti stimoli per continuare in questo difficile percorso.

Non dico che in Italia non ci sia nulla di nuovo, ma bisogna comunque cercarlo col lumicino, perché la parola d'ordine sembra essere 'copiare,' e pare che non si possa far nulla, a livello discografico e di concerti, se non si assomiglia a qualcosa che già si è affermato. E poi c'è la questione dell'immagine: un artista si fa conoscere perché assume un atteggiamento, perché suona scalzo o col cappello a punta, e purtroppo è questo che passa e resta nel pubblico. E' un momento di crisi, certo, di ripiegamento, e anche di mancanza di coraggio. Non ci sono le risorse, ed è facile cadere nel vittimismo. E' da queste difficoltà che bisogna invece trarre la forza. Ad esempio creando più connessioni fra generi 'alti' e 'bassi,' rafforzando la base costituita da noi musicisti, in opposizione a quella dei mercanti della musica, che ne stanno soffocando l'anima. Ampliando il confronto fra la musica classica, il jazz, il rock, la canzone d'autore, mescolando le conoscenze, le esperienze, le forze umane.

AAJ: Che significato ha avuto per te ricevere nel 2007 il Premio Ciampi? Ha rappresentato una svolta per la tua carriera?

D.P.: Il Premio Ciampi era il quarto concorso di quel tipo che provavo. Degli altri tre, uno si era concluso con una lettera anonima di un giurato che non riteneva il testo della canzone all'altezza (ma la lettera non era firmata!). Gli altri due erano stati più soddisfacenti, con l'arrivo alle semifinali e varie dimostrazioni di stima, anche da parte del pubblico. Ma il Ciampi è giunto davvero inaspettato. Sapevo che in questo tipo di concorsi vale la solita vecchia storia della conoscenza, del favore, ma nel mio caso io ero completamente fuori da qualsiasi gioco, e assolutamente nuova della scena. C'è poi da dire che il responso mi è arrivato a braccio ingessato e quando la speranza di suonare ancora stava lentamente svanendo... E' giunto inaspettato anche perché il mio modo di comporre canzoni non è esattamente allineato alla tradizione italiana popolare; nella motivazione del Premio si citavano l'originalità, l'ironia e la freschezza dell'invenzione, il che è davvero sorprendente, per un premio 'all'italiana': un motivo in più di orgoglio, per me. E' di sicuro l'evento che più mi ha dato motivazione, che più mi ha resa chiara la bontà e veridicità del mio percorso.

AAJ: Nel 2008 hai suonato a New York in duo con Michael Sarin allo Stone di John Zorn. Cosa ti ha lasciato questo tuffo nella scena downtown della Grande Mela? Ha cambiato qualcosa nel tuo modo di fare musica?

D.P.: Mi ha lasciato soprattutto il ricordo della gente, e non solo quella di New York ma anche quella di San Francisco; un pubblico attento, vivace e curioso, che viene da te dopo il concerto, ti fa domande, ti fa capire che la musica appena ascoltata gli ha messo in moto idee, emozioni, e non te lo nasconde: una anziana signora mi ha paragonato a Laurie Anderson, e un giovane ragazzo a Frida Kahlo... Effettivamente sono tornata a casa con una marcia in più. I musicisti americani sono assolutamente disponibili: Elliott Sharp (che mi ha invitato allo Stone e ha suonato in un pezzo del disco), Mike Sarin (che ha imparato i brani per il concerto in un paio d'ore), Emily Bezar e Amy X Neuburg (due cantautrici/strumentiste di San Francisco con cui ho condiviso il palco del Café du Nord), Amy Kohn (la mia amica cantautrice/pianista di New York, che appena mi ha conosciuta mi ha lasciato il suo appartamento per studiare...). Una vera lezione di apertura mentale, generosità e volontà di condivisione. In generale tutti i musicisti americani che ho avuto la fortuna di conoscere personalmente, da Terry Riley ad Anthony Coleman, fino a David Byrne, con cui ho solo avuto uno scambio di e-mail, non hanno alcun pregiudizio nei confronti di stili e generi, e sono stati fondamentali non solo per lo sviluppo del mio lavoro, ma anche per la mia personalità.

AAJ: Che ruolo ha l'improvvisazione nel tuo personale mondo espressivo ?

D.P.: Quello che scrivo è sempre pensato e fissato, magari cambiato centomila volte, ma fissato. Tuttavia viene da improvvisazioni. Non avendo alle spalle lo studio in composizione, vado d'istinto, mi lascio guidare dalle mani e dalla voce. Però mi piace scegliere con cura i materiali, non lasciarli al caso. L'improvvisazione dal vivo interviene in alcune parti aperte, soprattutto se suono con altri musicisti. Mentre in passato l'ho praticata di più con la voce ora la sto sperimentando al pianoforte, alle tastiere e persino con il sintetizzatore. C'è un progetto, in particolare, con due jazzisti, Stefano Senni (contrabbasso) e Jimmy Weinstein (batteria) che è per me un fondamentale banco di prova: di scritto c'è solo qualche tema, qualche suggerimento, il resto è improvvisazione. Nell'improvvisazione si scatenano forze misteriose, strane connessioni fra istinto e cervello. Si prevede il presente, e dal presente si viene 'previsti.' Per me l'improvvisazione è da anni pratica consueta nella danza contemporanea, ma nella musica le dinamiche sono assolutamente le stesse: l'ascolto, la relazione con se stessi e con gli altri, l'equilibrio fra incoscienza e coscienza. Quando non c'è nulla di preparato viene fuori in modo diretto la propria indole, la si impara a conoscere, ad accettare, a correggere.

AAJ: Altra esperienza oltreoceano riguarda l'Instituto Cubano de la Musica. Interesse particolare per la musica dell'isola caraibica o sei stata spinta da altre motivazioni?

D.P.: Avevo frequentato un corso sulla musica pianistica afro-americana, sia teorico che pratico durante il quale mi aveva colpito un autore cubano del 1800, Manuel Saumell, il progenitore della musica nazionale cubana. Le sue Contradanzas, di nemmeno una facciata l'una, avevano due temi, il primo di matrice europea-ottocentesca (con influenze beethoveniane o chopiniane), il secondo chiaramente africano, con ritmi molto sincopati. L'interprete che suonava queste danze doveva improvvisare, sul secondo tema soprattutto, per far ballare la gente, e così mi è venuto in mente di scrivere dei 'prolungamenti' di queste danze, in uno stile non dell'epoca, ma personale. La cosa mi è talmente piaciuta che non smettevo più...: ho scritto undici lunghe rielaborazioni, che sono piaciute all'addetto culturale dell'Ambasciata Cubana in Italia. Le ho suonate a Roma, nel corso del Festival della Cultura Cubana, e poi ho ricevuto un invito ufficiale da parte dell'Instituto Cubano de la Musica (l'istituzione musicale più importante a Cuba) per dei recital al Teatro Roldàn e al Memoriàl José Martì all'Avana. L'invito era lusinghiero, ma non prevedeva un rimborso spese per il viaggio, o un cachet... Così è passato quasi un anno, fino a che ho trovato per caso (dal fornaio del mio paese!) un bando di concorso del GAI (Giovani Artisti Europei) per artisti invitati ufficialmente all'estero con progetti personali; ho partecipato e ho vinto, e così sono potuta andare a Cuba, e vivere una delle esperienze più particolari della mia vita. Ho anche rilasciato un'intervista per la storica Radio Progresso: il tutto è documentato da una specie di resoconto che scrissi per un giornale specializzato su Cuba.

AAJ: Cosa stai ascoltando in questo periodo ?

D.P.: L'ultimo ascolto è "Sweet Dreams" degli Eurythmics... una canzone della mia infanzia, che sto 'discoverizzando' proprio in questi giorni, con l'aiuto di un po' di bulloni incastrati nelle corde del piano... Ma in realtà ascolto assolutamente di tutto, soprattutto cerco di scoprire gruppi che mi incuriosiscono. Ho appena sentito un concerto di Rob Mazurek, col progetto Sound Is, e, colpita dal batterista, ho scoperto che è lo stesso del gruppo rock chicagoense Tortoise, uno dei miei preferiti.

Cerco di assistere a più concerti possibile, soprattutto di jazz sperimentale, 'genere' che rimane più aperto, senza confini. Due nomi fra tutti: i Bad Plus e Ben Allison, due esempi di musica senza barriere, che sa agganciare il rock, la canzone, l'estro strumentale...

AAJ: Cosa sta bollendo nel pentolone creativo di Debora Petrina?

D.P.: Ho una collaborazione in corso da cui mi aspetto grandi cose, musicalmente parlando: si tratta di Jherek Bischoff, musicista a 360 gradi, consigliatomi da David Byrne. Jherek è un compositore e arrangiatore di Seattle (ma anche bassista in vari collettivi, fra cui Parenthetical Girls e Dead Science), che sta mettendo mano ad alcuni miei brani, ovvero li sta colorando con il suo mondo fantastico fatto di strumenti classici e moderni insieme, e di stili senza etichette. Poi un'altra collaborazione, stavolta nell'ambito della musica contemporanea, con Simona Bertozzi, una delle migliori danzatrici italiane: assieme interpreteremo alcuni brani di John Cage e Morton Feldman appositamente scritti per la danza negli anni cinquanta (per pianoforte, pianoforte preparato, toy piano, rullante e bicchiere...). La prima esecuzione sarà a in maggio a Padova, per il Centro d'Arte. Poi il progetto con Stefano Senni e Jimmy Weinstein, di cui ho parlato prima: è un lavoro collettivo, in cui i pezzi sono di tutti e tutti contribuiscono a crearli. Ed infine il lavoro sulle nuove canzoni, un lavoro quotidiano, prima da sola al piano e alle tastiere, poi con gli altri musicisti.

AAJ: Come ogni artista che si rispetti avrai un sogno nel cassetto...

D.P.: Il mio sogno è di allargare sempre di più quel pentolone creativo... e di riuscire a fare solo quello nella vita, senza dovermi occupare di promozione e insegnamento, che mi rubano molto tempo prezioso! Oltre ai progetti menzionati, mi piacerebbe svilupparne altri con musicisti classici (ho nel cassetto - in senso letterale! - vari brani per canto e pianoforte di amici compositori, che vorrei avere il tempo di studiare).

Un sogno in particolare sarebbe quello di entrare nel cast di un'opera moderna; c'ero quasi riuscita qualche anno fa: nel 2006 Giovanni Mancuso, il vincitore dell'Orpheus di Spoleto (un concorso internazionale per nuove opere di teatro musicale) mi aveva chiesto di 'cantare' in Obra Maestra, un'opera ispirata alla figura di Frank Zappa. Cantare nel senso più lato del termine, ovviamente, con emissioni di tutti i tipi, anche con l'ausilio di megafoni e altri giocattoli che modificano la voce. Ma il direttore del teatro ha preteso che ci fossero solisti convenzionali, dalla voce impostata...

Forse il sogno nel cassetto (oltre a un duetto con David Byrne) è proprio questo: fare musica, che sia mia o degli altri non importa, in un ambiente che non abbia pregiudizi di sorta.

Foto di David Prando (la prima e l'ultima)


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