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Craig Taborn e Borderlands Trio a Roma
Casa del Jazz, Parco della Musica
Roma
25, 28.11.2023
La fase finale della programmazione d'autunno alla Casa del Jazz di Roma ha offerto l'opportunità dell'ascolto ravvicinato di due tra le personalità al vertice del pianoforte, e della creazione musicale in senso lato, in circolazione oggi. Craig Taborn, a Roma in solo e Kris Davis, con il trio Borderlands, interpretano due orientamenti complementari di un'idea che si colloca nell'universo vasto dell'improvvisazione. Ambedue radicati nella tradizione nero-americana, ne esprimono con sensibilità in parte affini le articolate sfaccettature, al punto che loro stessi hanno voluto intrecciare il proprio operato, prima con un'esperienza di duetto pianistico nel CD Duopoly del 2016, poi registrando un intero album in duo, inciso nello stesso anno ma pubblicato due anni dopo, dal titolo Octopus. Documento molto significativo, che rivela una profonda empatia artistica.
Dunque, ascoltarli a distanza di tre giorni nella stessa programmazione romana ha rappresentato senza dubbio una significativa esplorazione. Le differenze dell'atteggiamento personale, dell'approccio fisico alla tastiera, del tocco erano evidenti: più sanguigno e muscolare, percussivo quello di Taborn, delicato e sviluppato in sottile filigrana quello della pianista di origine canadese. Ma molto simile è la sensibilità nella stesura di una narrazione in costante bilico creativo, alla ricerca di una tenace sfida con l'inatteso. Le sospensioni minime della frase, le incrinature del ritmo e delle iterazioni circolari entrano nella prassi esecutiva e narrativa dei due musicisti come due costanti di primaria importanza, in un modo che ricorda grandi loro predecessori. Paul Bley, in particolare.
Il solo di Taborn alla Casa del Jazz parte in effetti con una figura circolare, iterata della mano sinistra, sulla quale si innestano piccole infrazioni, digressioni, nuclei ritmicomelodici che entrano in contrasto. Indipendenza e interdipendenza tra pensieri musicali diversi in confronto dialettico. Senza soluzione di continuità, senza allentamento di concentrazione, arriva il secondo brano, analogo nell'impianto di circolarità e combinazione, ma più aperto allo scandaglio di alternanze dinamiche e timbriche. Il tocco si va precisando, estremamente articolato e diversificato.
Poi si entra in un free denso e arroventato, con ribaltamento espressivo e di approccio. Con l'ombra di Cecil Taylor che fa capolino. L'orizzonte è multiplo, il punto di vista spiazzato da costanti modificazioni. Poliritmi e inesauribili sfumature. Un episodio afroamericano, con profonde inflessioni blues e tinte gospel si manifesta poi nella dialettica tra introspezione e condivisione. Le radici affiorano in superficie, l'articolazione delle mani è così ricca da ricordare Art Tatum. Poi, con mirabile ribaltamento del registro narrativo, arriva la ballad "But Not for Me," annunciata da frammenti melodici e armonici, articolata con la sola destra. Un canto sospeso nel vuoto, a singole note, scarno e pesato in ogni passaggio. La parte finale è lirica, delicata. Ma anche qui la densità dell'espressione è dominante.
Lo stesso atteggiamento di libertà e ardita esplorazione è trasportato nell'ambito del trio con Borderlands, esibitosi al Teatro Studio del Parco della Musica a causa delle condizioni meteorologiche. Accanto a Davis, Stephan Crump al contrabbasso ed Eric McPherson alla batteria, danno luogo a un dialogo in cui fa ancora legge il piccolo scarto della frase, dell'andamento ritmico, della forma. In un contesto di organico strumentale dove ormai tanto è stato detto, i tre scelgono la prassi delle voci che si dipanano autonome, apparentemente slegate le une dalle altre, ma in realtà strettamente correlate, attente a quanto si va modellando nel paesaggio d'insieme.
Non mancano i riferimenti tematici, che affiorano dai due album registrati dal trio per l'etichetta Intakt, ma tutto si svolge nella piena libertà di queste trame non lineari. Il prodigio sta nella sintonia che scaturisce da tale autonomia di movimento, in cui la coesione, spesso molto intensa, si va rapprendendo nel corso degli sviluppi in una sintonia a tratti tellurica, ma in continuo respiro tra densità e rarefazione, tra figure astratte, metafisiche, e aperture liriche avvolte dai silenzi. Quanta magia, quanto rispetto. Non è solo dialogo, è osmosi, intuizione, interazione.
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