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Brda Contemporary Music Festival 2023

Brda Contemporary Music Festival 2023

Courtesy Ziga Koritnik

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Medana, Slovenia
Brda Contemporary Music Festival
Sala Cinematografica Medana
14-16.9.2023

Giunto alla sua tredicesima edizione, il Brda Contemporary Music Festival ha, se pur di poco, cambiato sede —dal pittoresco borgo di Smartno al vicinissimo paesino di Medana, sempre su una delle meravigliose alture del Collio sloveno —ma ha conservato lo spirito e il clima, che ne fanno una rassegna a dir poco unica nell'attuale panorama musicale. Anche quest'anno, infatti, il festival voluto e diretto da Zlatko Kaućić è stato un'intensa esplorazione dei molti modi di fare improvvisazione in Europa, ha mescolato la musica ad altre arti e ha visto l'entusiasta partecipazione di appassionati e artisti provenienti da diversi paesi —Slovenia, Italia, Austria, Germania —desiderosi di conoscere e sviluppare una musica che esca dai sempre più ossificati schemi che ormai prevalgono anche in ambito jazzistico.

Com'è consuetudine, la rassegna s'è aperta alle 18,00 del giovedi —quest'anno il 14 settembre —con un introduzione festosa e parzialmente estranea allo spirito del festival e si è conclusa nella tarda serata del sabato con il concerto dei partecipanti all'immancabile workshop affidato a un protagonista dell'improvvisazione europea, stavolta il sassofonista svedese Mats Gustafsson. In mezzo, altri dodici concerti —alla media di oltre quattro per serata —con formazioni diverse per composizione, ispirazioni, forme espressive, accomunate però tutte dalla libertà creativa.

Il concerto di apertura —che, se non fosse stato per il tempo, visto il suo carattere avrebbe dovuto tenersi nel cortile a fianco della sala in cui si è svolta la rassegna —vedeva in scena il dj Francis I., alias Francesco Ivone, giovane e apprezzato trombettista che in questo caso ha affiancato lo strumento all'elettronica per prodursi in un mix di hip hop, rap, jazz e altro: se ritmi e sonorità non erano pienamente in tono con quanto sarebbe poi seguito, l'improvvisazione anche qui la faceva da padrona e si è così annunciata sotto una diversa forma.

Subito dopo, unico tenutosi fuori dalla sala, è stata la volta di un concerto connesso alla mostra fotografica allestita per l'occasione nel suggestivo e risonate sottosuolo della Casa Commemorativa di Gradnik e Zorzut. Lì, sotto lo sguardo dei musicisti immortalati dal fotografo sloveno Igor Petaros, Massimo De Mattia ha dato vita a tre improvvisazioni per flauto solo. Un concerto giocoforza relativamente breve, ma ricchissimo di contenuti, nel corso del quale l'artista pordenonese —uno dei nostri migliori interpreti dello strumento, che è però inopinatamente difficile ascoltare al di sotto della linea del Piave —ha dato un saggio dei suoni che è capace di trarre dai suoi strumenti e della fantasia con la quale costruisce tessiture libere e guizzanti, ma anche coerenti e narrative.

Giusto il tempo di rientrare nella sala principale ed è stata la volta del duo del batterista sloveno Vid Drašler e della violoncellista inglese Hannah Marshall. Quest'ultima, navigata improvvisatrice con esperienze in campi diversi e con numerosi artisti di primo piano, ha mostrato una molteplicità di tecniche e forme espressive all'archetto, al pizzicato e con effetti percussivi, risultando di fatto la voce conduttrice di un dialogo nel quale il compagno rispondeva perlopiù con sfregamenti e suoni attutiti, dando vita a un concerto intimo e meditativo, dalle atmosfere velatamente tormentate. Di tutt'altro tenore il quartetto di Timi Vremec, salito sul palco subito dopo e che, assieme al bassista elettrico sloveno, era composto da altri due suoi connazionali, Robi Erzetič alla batteria e Aleš Valentinčič alla chitarra elettrica, e dalla friulana Clarissa Durizotto a clarinetto e sassofono contralto. Una formazione caratterizzata da un'energia strabordante, materializzata in particolar modo dall'artista italiana che, sempre centrale sulla scena, si è prodotta in lunghe prolusioni improvvisate, in larga misura su dinamiche elevate e continue, senza pause né silenzi, magneticamente catalizzanti l'attenzione degli ascoltatori. Una forma espressiva conservatasi anche nei brani in cui la Durizzotto ha imbracciato il clarinetto, assecondata (forse anche troppo) dalla batteria di Erzetič e viceversa virtuosamente stemperata dalle pennellate della chitarra di Valentinčič, con il leader impegnato soprattutto in un'opera di equilibrata direzione del suono complessivo. Solo negli ultimi brani sono stati proposti scenari diversi, con suoni più rarefatti, che hanno valorizzato ancor più le qualità dei due archi e hanno mostrato le molteplici possibilità del quartetto, pur conservando l'impatto sonoro di fondo che caratterizza il progetto.

A concludere la prima serata è spettato al batterista sloveno Urban Kušar, alla testa del suo singolare quartetto con ben tre sax: i contralti di Tilen Lebar e Jure Boršič, il soprano e il tenore di Cene Resnik. Batterista dall'ampio bagaglio stilematico, Kušar ha dettato dal suo strumento tempi e direzioni ai suoi tre compagni, i quali —ben calati nello spirito improvvisativo europeo che caratterizzava la rassegna —hanno disegnato linee sghembe e astratte, quasi prive di lirismo, frammentando gli interventi e le tessiture. Ne è emerso in particolare Resnik, da tempo protagonista della scena non solo slovena, che ha mostrato una superiore capacità di ascolto e di costruzione istantanea, ora intervenendo con grande varietà dinamica e stilistica, ora affrancandosi dal contesto, così da lasciare spazi ai compagni e preparare nuovi contributi sulla base della propria percezione della scena. Formazione molto interessante, da riascoltare nei suoi sviluppi, auspicabilmente anche su documentazioni discografiche.

I concerti del secondo giorno —che nel primo pomeriggio aveva visto l'avvio del workshop di Gustafsson —sono stati aperti alle 18,00 dalla sassofonista danese Mette Rasmussen, che si è esibita in un lungo e variegato solo al contralto. Anche in questo caso una personale interpretazione della tradizione improvvisativa europea, con dinamiche intensissime, tessiture molto "piene," uso di tecniche estese, tra le quali, oltre ai colpi d'ancia e altri tipici artifici, hanno colpito un curioso modo di emettere schiocchi a bocca aperta e, soprattutto, un interessante ed elaborato lavoro di emissione privando lo strumento dell'imboccatura, cosa che spesso dà luogo a suoni monocordi e che la Rasmussen ha saputo coniugare alla variazione tonale. Oltre a questo, la performance era arricchita da un grande uso del corpo, con l'artista che non solo ha costantemente mutato posizione sul palco, ma è perfino scesa in platea, suonando seduta a terra o issandosi sulle poltroncine. Aldilà dello spettacolo, questa modalità ha prodotto ovvi effetti sia sull'emissione, sia sui riverberi acustici nella sala, diventando parte della produzione del suono. Un concerto suggestivo e stimolante di un'artista senza dubbio ricca di idee, alla quale può solo essere imputata una limitata gestione della dinamica, mantenuta quasi sempre su intensità elevate: una scelta stilistica, certamente, ma che ha comunque limitato la pur ricca varietà sonora.

Il tempo per una rapida cena e, alle 20,00, le slovene Tea Vidmar e Irena Tomažin hanno offerto un sorprendente e abbastanza inusitato esempio di improvvisazione vocale. Mescolando eco popolari, stilemi contemporanei e sperimentazione, le due hanno dato vita a una tessitura di gorgheggi, lamenti, suoni di gola, brevissime melodie, rumori, in continua variazione e contrappunto. Una performance straniante e spiazzante, non facilissima da seguire e da decodificare, che ha colpito certo per la ricchezza di forme espressive e per l'abilità tecnica, ma anche per la mobile ricchezza dell'affresco complessivo che alla fine ne è scaturito. Una proposta per molti aspetti un po' a latere rispetto ad altre, ma che proprio per questo è apparsa come un valore aggiunto, interrogando gli ascoltatori sulle possibilità che questo tipo di lavoro vocale può aprire all'improvvisazione in generale.

Le proposte originali e in parte a latere erano comunque molteplici in questa edizione del Brda Contemporary Music Festival: lo era infatti anche quella offerta dalla catalana Núria Andorrà, salita sul palco subito dopo per un solo di percussioni. Il suo strumentario era incentrato su un ampio tamburo, utilizzato però nei modi più diversi. Dopo un inizio con percussioni lievi, effettuate con bacchette da vibrafono, l'artista ha infatti sviluppato la parte più interessante della performance lavorando sulle pelli con un piatto, con i quali otteneva stridori, rimbombi, rari rintocchi scintillanti, attraverso quella che appariva una divertita lotta con lo strumento. Si è poi passati a più criptico e un po' sterile lavoro con alcune palline, fatte rimbalzare sulle pelli, cui si sono aggiunte quattro ciotole; gli effetti del tutto hanno avuto momenti interessanti, non valorizzati però da un eccessivo prolungamento dell'artificio e da una conclusione del concerto giunta un po' improvvisa. Spettacolo dunque assai stimolante, anche per l'originalità del modo in cui la Andorrà affrontava la prova in solitudine, ma che forse poteva essere più compiuto e coerente.

La serata si è conclusa con il concerto forse più atteso, nel quale il padrone di casa Zlatko Kaučič ha fatto da bilanciere tra i sassofoni della Rasmussen e dell'ospite speciale Mats Gustafsson, impegnato anche al flauto. Un concerto che si poteva prevedere a tinte forti, visto che, oltre quanto aveva già fatto vedere la sassofonista danese, anche l'artista svedese è noto per l'energia con la quale suona il baritono e lo interpreta usando tecniche estese. Un po' a sorpresa, invece, la performance si è sviluppata in modo abbastanza diverso: se la Rasmussen, pur mettendoli al servizio della costruzione collettiva, ha sostanzialmente riproposto gli stilemi già mostrati un paio d'ore prima, mantenendo anche elevata la dinamica, Gustafsson ha invece largamente tenuto da parte le prolusioni torrenziali che spesso lo caratterizzano, interagendo con frasi frammentate, talvolta esplosive ma brevi, talaltra impressionistiche e dall'intensità moderata. Una misura, accentuata dal prolungato uso del flauto (suonato anche diviso in parti, con effetti singolari ma non solo rumoristici) e da alcune pause per lasciar suonare i compagni in duo, che ha donato alla formazione grande varietà dinamica e timbrica. Ma a dirigere la scena e a dare equilibrio al trio è stato in primo luogo proprio Kaučič, artista capace di cogliere tutto ciò che accade sul palco nel corso di un'improvvisazione e grazie a ciò di regolarne il flusso, dettandone tempi e intensità. È quanto accaduto anche in quest'occasione, l'unica che il batterista sloveno si era ritagliato nella rassegna di quest'anno: Kaučič è apparso il regista del trio, ora cambiando scenari con improvvisi interventi decisi su piatti e tamburi, ora stemperando eccessi dinamici producendosi in soffusi rumori, ora rialzando energia e velocità con progressive accelerazioni. Un musicista che ogni volta che lo si ascolta stupisce per come si conferma.

L'ultima giornata ha preso il via già alle una, con un altro set che mescolava la musica con un'arte diversa, la poesia. Di scena Nazim Comunale, a declamare alcune delle sue liriche —parte in inglese, parte in italiano —con l'ausilio del trombettista friulano Flavio Zanuttini. A dispetto della limitata presenza del pubblico, dovuta all'ora, e della scivolosità del tipo di performance, il concerto ha funzionato piuttosto bene: merito di Comunale, che ha cadenzato i testi in modo non propriamente recitativo ma comunque espressivo e che si prestava all'interazione con la musica, e soprattutto di Zanuttini, che ha operato sui suoni della sua tromba con l'ausilio di un piatto sospeso a mo' di gonga e dell'elettronica. Ne è scaturito un caleidoscopio di suoni cangianti, ora di supporto e accompagnamento alla voce, ora protagonisti, senza comunque mai né sopravanzare, né entrare in conflitto con essa. Un set singolare e suggestivo, che si è concluso con un contrappunto di voci, grazie alla distribuzione dell'ultimo testo ai presenti in sala, invitati a recitarli contemporaneamente a scelta libera.

Finita la seconda sessione del workshop, i concerti sono ripresi alle 18,00 ancora con un set di musica e poesia, ben diverso però dal precedente. Di scena la poetessa slovena Vida Mokrin Pauer assieme al connazionale Aleksander Arsov, che in questo caso si limitava a un accompagnamento con chitarra elettrica ed elettronica. Si è probabilmente trattato del momento più tradizionale della rassegna, con atmosfere tra la musica popolare e il recitativo cantautorale, ma è egualmente risultato interessante, vuoi perché momenti di improvvisazione hanno fatto capolino più volte, vuoi grazie alla singolare personalità della poetessa, non giovanissima e apparentemente impacciata, ma che invece ha interpretato in modo singolare, ballando per gran parte del suo canto recitativo.

Ben diverso quanto proposto di seguito dalla vocalist svedese Sofia Jernberg, che avrebbe dovuto cantare nella chiesa di Medana e che è invece poi stata dirottata sulla sala principale: in un set necessariamente breve a causa dello sforzo richiestole, la cantante ha dato un saggio dell'impressionante ventaglio di possibilità espressive che fanno parte del proprio bagaglio, alternando brani interamente composti di suoni gutturali ed emissioni vocali atipiche, altri di ispirazione contemporanea, altri ancora più lirici e ispirati —direttamente o indirettamente —all'ambito lirico. Poco più di mezz'ora che ha lasciato a bocca aperta per originalità e virtuosismo, lasciando solo un po' di perplessità riguardo al significato drammaturgico complessivo. Comunque un'artista interesantissima, che ha già avuto qualche spazio in Italia e che merita seguire con attenzione.

Dopo di lei si è tornati a immergersi nello spirito della composizione istantanea dialogata con il duo formato dalla pianista austrica Elisabeth Harnik e dal sassofonista finlandese Harri Sjostrom, abbastanza noto agli appassionati italiani per le sue frequenti collaborazioni con il nostro Gianni Mimmo. Un concerto estremamente libero e articolato, nutrito dall'ottima compensazione stilistica dei due protagonisti: entrambi con un approccio aperto e informale ai rispettivi strumenti, ma tendenzialmente rarefatto e interiore per la pianista e viceversa esplosivo, impressionistico e materico il sassofonista. Dall'ascolto reciproco e dalla costruzione interattiva delle tessiture è così emerso un discorso nel quale le distorsioni sonore, gli schiocchi e le urla del finlandese —particolarmente incisive quando ha imbracciato il sopranino —venivano accompagnate e attutite dall'alternanza di clusterse pause del pianoforte, che dettava anche cambi di atmosfera e ritmo. Una fusione di suoni e stilemi che conferiva senso espressivo anche alle invenzioni più estreme. Per chi scrive, probabilmente il concerto più bello dell'intera rassegna.

Come di prammatica, la conclusione del festival è spettata alla formazione composta dai partecipanti al workshop; poiché chi scrive ne faceva parte, ne descriveremo anzitutto alcune caratteristiche "interne."

Il workshop vedeva la partecipazione di ben venti elementi —più batterie, chitarre e bassi elettrici, quattro ance, due trombe, tuba, contrabbasso, violoncello, tamburello e voce —includenti musicisti d'esperienza, allievi della scuola di Kaučič a Nova Gorica e anche alcuni dilettanti; Gustafsson lo ha condotto non solo con pazienza e rispetto delle diverse abilità, ma anche con una grande sensibilità e una comunicativa quieta e quasi intima, narrando nelle pieghe del lavoro esperienze personali e aneddoti delle sue collaborazioni con alcuni grandi maestri dell'improvvisazione. Dopo una serie di indicazioni riguardanti il suo modo di dirigere l'improvvisazione —sostanzialmente una conduction basata su segni in parte personalizzati—si è lavorato al fine di eseguire una sua composizione improvvisata, "Plugs Extended -to Dror Feiler," che includeva una partitura grafica (di fatto poi non molto utilizzata) e una serie di scenari gestibili a discrezione del conduttore, senza alcuna parte notazionale scritta. Non vi è stata una vera e propria "prova generale" —che avrebbe forse influenzato la freschezza improvvisativa del set —ma solo delle sperimentazioni limitate, utili a dare a tutti le coordinate per sentirsi a proprio agio all'interno dell'ampio collettivo. Lo stesso Gustafsson prendeva parte alla realizzazione sonora, intervenendo a momenti sia col baritono, sia con flauto, sia con un piccolo flauto etnico in legno.

Come inevitabile in questi casi, essendo sul palco e fin troppo concentrato sul "fare," chi scrive non può in alcun modo dare una valutazione del concerto, durato un po' più di mezz'ora. La percezione è stata quella di un divenire fluido, in un'alternanza di concitazione —con gli interventi delle batterie e delle chitarre elettriche, ma anche del leader al baritono —e di rarefatta levità —l'iniziale alternarsi puntillistico dei singoli suoni, guidati solo dal riempimento degli spazi che si aprivano, lo scambiarsi dei duetti, i rari assoli dei fiati. Con una conclusione dinamicamente più intensa, la sola che ricordava certi lavori di Gustafsson, quali la Fire Orchestra. Il pubblico, comunque, è parso apprezzare, tributando alla formazione applausi non inferiori ad altri concerti.

Volendo trarre delle valutazioni conclusive dalla rassegna, non si può che ribadire quanto detto inizialmente: forse ancor più che in altre occasioni, il Brda Contemporary Music Festival si è confermato un'appuntamento unico nel suo essere una vetrina per conoscere quanto accade in Europa in settore—quello dell'improvvisazione "radicale" —che pur destando sempre più interesse tra musicisti e appassionati fatica ancora a trovare spazi "istituzionali" per svilupparsi e dar mostra di sé a un pubblico più ampio. Di qualcosa del genere si sentirebbe senza dubbio la necessità anche nel nostro Paese ed è auspicabile che la eco prodotta dal BCMF sia da stimolo per organizzarne quanto prima. Nell'attesa, appena fuori porta, continuiamo a goderci questo festival.

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