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Biennale Musica 2023

Biennale Musica 2023

Courtesy Andrea Avezzù

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Biennale Musica 2023
Venezia, varie sedi
16—29.10.2023

Anno dopo anno le scelte artistiche di Lucia Ronchetti non finiscono di sorprendere. Alla Biennale Musica 2023, in un articolato e disinibito panorama della contemporaneità, la direttrice ha inserito anche due eventi di grande richiamo, invitando due protagonisti ormai consacrati dalla storia e non appartenenti all'ambito della musica contemporanea come abitualmente inteso; entrambi trasversali e difficilmente imitabili, tanto da essere diventati icone assolute e mitiche: Brian Eno e John Zorn.

Quest'ultimo, nel tour per celebrare i suoi settanta anni, ha fatto tappa anche a Venezia nell'ultimo giorno del festival, esibendosi all'organo del Conservatorio. D'altra parte dalla fine degli anni Settanta Zorn ha dato prova della sua onnivora trasversalità postmoderna, essendosi espresso in diversi campi ed esperienze: dai lavori di maggiore valenza jazzistica, per esempio a capo del gruppo News for Lulu, all'improvvisazione estrema ma guidata dei Game Pieces; dalla nutrita serie dei Filmworks alle numerose e impegnative composizioni di musica cameristica contemporanea, riunite in raccolte mirate; dalle esperienze d'impronta hardcore, in cui Zorn si espone come altosassofonista dalla pronuncia esasperata e corrosiva, al farsi promotore del rinnovamento della musica ebraica e del klezmer sia a capo del suo gruppo Masada, nelle versioni acustica ed elettrica, sia come produttore dell'esclusiva etichetta Tzadik...

Quanto alla musica del settantacinquenne Brian Eno, dopo aver traghettato negli anni Settanta il minimalismo verso gentili movenze pop-folk, ha poi affrontato ricerche più mirate e ambiziose, curando sempre con il massimo rigore ogni aspetto delle sue edizioni discografiche: non solo la concezione progettuale e le modalità d'incisione, affiancato dai compagni di strada di volta in volta più idonei, ma anche i sofisticati aspetti tecnici della post-produzione, della promozione e distribuzione, fino al controllo assoluto della veste grafica delle copertine, sempre essenziale e astratta, quasi spartana.

Al musicista britannico, riconosciuto come uno dei massimi propulsori della Ambient Music, ma anche come produttore, creatore di opere video e di installazioni sonore, nonché come ideatore di apps e di software musicali, la Biennale Musica ha attribuito il Leone d'Oro alla Carriera 2023. Vale la pena di riportare un passaggio significativo della motivazione di questo prestigioso riconoscimento: ..."Lo studio di registrazione concepito come meta-strumento compositivo, regno di elaborazione, moltiplicazione e montaggio di frammenti sonori registrati, simulacri acustici, oggetti sonori autonomi, ha permesso a Brian Eno di creare spazi elettronici immersivi che si trasformano e permeano la realtà acustica nella quale siamo immersi, modulandola secondo drammaturgie sempre cangianti."

Al Teatro La Fenice la messa in scena in prima assoluta di Ships, per solisti e orchestra amplificata, ha costituito un evento imperdibile. Questo lavoro, nato originariamente nel 2014 come installazione site specific, attuando un'esperienza di manipolazione del suono nello spazio, è stato in seguito tradotto in un album (The Ship, Opal, 2015), che risulta uno dei più programmatici e riusciti degli ultimi anni. Ships costituisce infine l'estensione di quei precedenti per approdare all'attuale rappresentazione teatrale multimediale. Le sonorità fluide dell'Oceano, le profondità del relitto del Titanic e rumori di fondo della Prima Guerra Mondiale costituiscono i riferimenti su cui si basa la musica, frutto di un inestricabile intreccio fra spunti acustici e registrazioni, modificazioni, flussi di sonorità elettroniche. L'unicità dell'evento veneziano sta anche nel fatto che con quest'opera articolata e complessa Eno sembra aver esasperato, esteso in modo eloquente la sua capacità organizzativa di quell'estetica che negli ultimi due decenni aveva privilegiato un prosciugamento dei contenuti tematici e dei risultati formali. Nella maggior parte dei CD di quel periodo, in solitudine o a capo di formazioni molto ridotte, prevalevano infatti una poetica intimista, un processo di astrazione per migrare in spazi cosmici, in atmosfere cullanti, serene, ipnotiche, quasi mai inquietanti.

Se in Ships il compositore—performer è riuscito brillantemente in questo cambio di registro, in questa operazione di gigantismo comunicativo è perché aveva a disposizione la Baltic Sea Philharmonic, un'ampia compagine, giovane e capace di muoversi su palco senza il supporto di spartiti, reattiva agli input gestuali del direttore e orchestratore Kristjan Järvi. Quest'ultimo, all'occorrenza anche improvvisato percussionista, ha gestito una sorta di conduction dapprima con movenze lente, ieratiche, sacerdotali, poi con atteggiamenti sempre più dinamici e istrionici, quasi danzando fra gli strumentisti; egli si è rivelato il celebrante di un rito che via via ha preso toni e spessori diversi, motivando in ogni istante i suoi giovani collaboratori.

Sul palcoscenico si è dipanato uno spettacolo immaginifico, fluttuante fra situazioni diverse: un lento ingresso dei musicisti ha sottolineato un altrettanto pigro introito musicale che molto gradualmente è sfociato in un crescendo epico, martellante, dai richiami ancestrali; discrete melodie su scale discendenti hanno lasciato il posto a un severo recitativo di Peter Serafinowicz affiancato dalle note cristalline dell'arpa; interventi chitarristici relativamente coriacei di Leo Abrahams, storico sodale di Eno, hanno convissuto con minute trame fruscianti; di nuovo uno spunto melodico incantatorio, condotto inizialmente dai flauti, è progredito via via verso la pienezza quasi parossistica del collettivo...

Quanto agli interventi vocali di Eno, che saltuariamente era affiancato da Melanie Pappenheim e da parti corali preregistrate o cantate dagli orchestrali, hanno esposto un timbro morbido, ora deciso ora carezzevole, intonando un canto intimo e allusivo, a tratti velato da un certo disincanto, da uno scettico distacco. L'elettronica ha inoltre contribuito a distorcere la sua voce verso acutezze metalliche o risonanze evanescenti. Un'altra componente importante, connessa con il suono e il percorso musicale è stato il sapiente uso delle luci, da quelle prevalenti, suffuse e calde, a quelle istantanee, fredde e abbaglianti, fino a creare un episodico e suggestivo effetto di fuoco sotto le pedane su cui si ergevano gli esecutori.

Quello che ha sempre convinto pienamente nei circa 120 minuti di questa rappresentazione eminentemente collettiva—come il leader e demiurgo britannico sostiene che debba essere ogni opera d'arte—è stata la qualità del suono, risultante dalla stratificazione di fonti sonore diverse, ma sempre tenute sotto controllo e integrate fra loro magistralmente; un suono avvolgente, vibrante di oscillazioni timbriche, che ha caratterizzato una specie di improvvisazione organizzata, regalando una festa ai fan entusiasti che gremivano La Fenice.

Se sul palco di Ships il ricorso ad un tenue fumo artificiale si è rivelato un espediente un po' prevedibile, non sempre indispensabile, esso ha rivestito un peso determinante in Orbit—A War Series, lavoro della compositrice austro-tedesca Brigitta Muntendorf, presentato la sera seguente al Teatro alle Tese, anch'esso in prima assoluta. In questo caso il pubblico, sistemato su dei pouf disseminati nella sala a pianta centrale, si è trovato immerso in una nebbia fitta e persistente, con una visibilità massima di una quindicina di metri. Un suono denso, fosco, stratificato, di natura elettronica, è stato emanato nello spazio da 32 canali con un incombente effetto multifonico, alternando fasi martellanti, rari spunti melodici, bombardamenti acustici e visivi, complici i faretti mobili che dall'alto hanno proiettato lampi, colori e pulsazioni violente. Inframezzata al flusso sonoro, la componente vocale, originata da voci di donne registrate in diversi paesi e clonate dall'intelligenza artificiale, ha denunciato gli abusi contro il corpo femminile, ricorrenti in diversi contesti storico-sociali.

Questa impegnata composizione della Muntendorf ha presentato quindi una concentrazione ossessiva di situazioni contrastanti, di tragedie prevalentemente belliche, producendo situazioni frastornanti e ineludibili, soprattutto evidenziando il senso d'impotenza che ogni individuo, in particolare di sesso femminile, prova di fronte ad eventi socio-politici ma anche ecologici, che sempre più spesso lo sovrastano in questo mondo antropocentrico. La parabola narrativa di Orbit sembra escludere prospettive di speranza, di una rinascita ad una convivenza civile, a meno che la conoscenza e la denuncia, passaggi indispensabili per una consapevole presa di coscienza, non siano di per sé anticipazioni di speranza. Forse, proprio nello smorzamento del suono nelle battute finali di questo lavoro dalle tinte forti è possibile intravedere un segno di ottimismo nei pochi secondi in cui emerge un flebile, lontanissimo e sereno canto popolare femminile.

Non molto dissimile nell'impostazione spaziale e nei risultati sonori, ma non nelle premesse storico-culturali, la composizione Glockenbuch IV, per elettronica multicanale, del tedesco Marcus Schmickler, che intende produrre una sorta di catalogo filtrato, artefatto e risonante delle campane delle chiese veneziane. Analoga a Orbit è risultata la disposizione del pubblico, e in questo caso anche dell'autore-performer, nella sala a pianta centrale. Simile anche la funzione dei faretti che dall'alto oscillavano, mimando il movimento delle campane e costituendo una componente scenica importante a commento del flusso musicale. Verso il finale dell'esecuzione la tensione ha raggiunto una parossistica densità, per poi allentarsi e tornare ad esili rarefazioni, a rintocchi di campane, inserendo anche un frammento di canto corale femminile in lontananza; di nuovo un imponente scampanio, un parossismo ritmato, voci distorte... In definitiva Glockenbuch IV si è imposto come un lavoro molto deterministico e compatto di musica elettronica, allucinato e tutt'altro che consolatorio, articolato in un percorso cangiante, che, nonostante l'inoffensivo anzi gioioso spunto ispiratore, ha aggredito l'ascoltatore traumatizzandolo. Anche questa esperienza percettiva, che non ha permesso ai fruitori in sala grandi possibilità di riconoscersi, d'interagire, di riflettere, d'intravedere vie alternative, non ha lasciato molti spiragli all'ottimismo, alla fiducia sulle condizioni di vita nel mondo attuale e futuro.

Un opportuno recupero, l'unico concerto non in prima assoluta fra quelli ascoltati nei quattro giorni della mia permanenza alla Biennale, è stata l'esecuzione di composizioni di Fausto Romitelli a quasi vent'anni dalla sua prematura scomparsa. Nelle Lesson I, II, III, per otto o dieci strumenti ed elettronica, dal ciclo Professor Bad Trip l'autore intendeva impossessarsi dell'energia trasgressiva e delle sonorità sature del rock per coniugarle con il determinismo strutturale della scrittura colta. Non è assolutamente il caso di parlare d'improvvisazione riguardo alla convinta interpretazione che ne ha dato l'ensemble Ictus di Bruxelles, tuttavia la partecipazione degli strumentisti nell'affrontare i passaggi delle partiture è stata tale da conferire una grana timbrica peculiare e una concitata risolutezza al sound individuale e del collettivo. Da sottolineare in particolare i trascinanti interventi solistici della pianista e soprattutto del violoncellista. Un ruolo importate è stato inoltre riservato alle due chitarre elettriche e in genere all'elettronica, che sembravano svolgere la funzione di deformare e nello steso tempo amalgamare il tutto. Una musica scontrosa, mai statica, dotata di una grande ricchezza timbrica e di sorprese continue, ha proceduto alternando ondate turbolente e poche rarefazioni, fino a giungere alle fragorose battute finali.

Wolfgang Mitterer, vulcanico sperimentatore ben noto anche in ambito jazzistico, è stato uno dei protagonisti della serie di concerti per organo proposti in questa edizione della Biennale; si è esibito all'organo del Conservatorio "Benedetto Marcello," uno strumento "speciale" in quanto si avvale anche del suono di un secondo organo. Ai due lati del palcoscenico infatti si fronteggiano un organo principale, sulla destra, dotato di tastiere e registri, ed uno più piccolo, sulla sinistra, collegato al primo tramite trasmissioni meccaniche che corrono sotto il pavimento. È lo stesso Mitterer a spiegare in una dettagliata nota in catalogo il modo di procedere per integrare le sonorità degli organi con le emissioni della "macchina" elettronica che proietta suoni nello spazio del palcoscenico attraverso canali multipli. Si tratta quindi di un'operazione complessa quella di riuscire a governare all'istante tante fonti sonore alla ricerca di una sonorità multiforme ed espansa; quanto all'ascoltatore, non è facile comprendere come questi mezzi differenti si connettano fra loro. Il performer tedesco, sorta di one-man band del futuro, in Requiem for a Beautiful Dream ha imbastito un'improvvisazione organistico-elettronica in cui si sono concretizzate varie situazioni. Il suo frenetico armeggiare intorno ai registri degli organi, alle tastiere e ai pedali, nonché ai computer ha generato un andamento frammentario, tutt'altro che dotato di una visione strutturale unitaria. Questo può rispondere ad una precisa scelta estetica, previlegiando l'imponderabilità dell'alea con esiti di ansiogena instabilità: non sono certo mancate fasi convincenti, con poderosi crescendo e sorprendenti impasti sonori, a tratti con fremiti minuti, anche se nel contempo sono comparsi momenti di disorientante occasionalità.

All'interno della "Biennale College Musica," serie di concerti dedicati ai giovani emergenti, è il caso di soffermarsi brevemente su due performer trentenni, freschi di prestigiosi corsi di formazione e proiettati verso coraggiose sperimentazioni: Jaehoon Choi e Severin Dornier. Quest'ultimo, in Kaijü, performance audiovisiva per specie meccaniche, ha concepito uno spazio scenico di semplicità concettuale, in cui un ragno meccanico si aggirava lentamente, riprendendo tutto ciò a cui si avvicinava con curiosità e proiettando simultaneamente le immagini in movimento su uno schermo disposto sullo sfondo. Gli spostamenti di questo ragno-robot, che poteva ricordare l'animale meccanico che allieta Marcello Mastroianni in quel film singolare che è La decima vittima, girato da Elio Petri nel 1965, sono stati ad un certo momento affiancati da un altro "attore": un piccolo drone che si è alzato in volo con un tenue ronzio e ha perlustrato la zona, registrando anch'esso le immagini di ciò che captava.

In Brushing Improvisation No.2, per mappatura dei gesti di spazzolamento attraverso tecnologie mediate, Choi ha agito su una tavola verticale quadrata, sfregando su di essa due pennellesse piatte, dotate di mini tastiere elettroniche da comandare con indice e medio di ciascuna mano. Entrambe le performance descritte, soprattutto la prima, sono risultate molto personali e ingegnose quanto ai mezzi tecnologici utilizzati, dando origine ad aspetti teatral-visivi stravaganti nella loro minimale concezione scenica. Più marginali e deboli però si sono dimostrati i risultati musicali di queste azioni: le sonorità prodotte, (fruscii, tenui colpi, attriti, vaghi aloni...) non erano altro che la risultante acustica, o il timido commento, degli spostamenti e delle soste dei meccanismi che si muovevano in scena.

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