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Biennale Musica 2021 - Drammaturgie vocali

Biennale Musica 2021 - Drammaturgie vocali

Courtesy La Biennale di Venezia - Andrea Avezzù

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Venezia
Varie sedi
17—26.9.2021

Lucia Ronchetti è la prima donna ad essere nominata alla direzione artistica di Biennale Musica dopo sessantaquattro edizioni di monopolio maschile. Un fatto che ci appare come un evento straordinario solo per il fatto di essere tardivo; ci si domanda perché mai non sia potuto accadere prima e si auspica che non debba rimanere un caso isolato nei decenni a venire della manifestazione. Ronchetti, che fa seguito alla direzione di Ivan Fedele durata nove anni, ha portato una decisa ventata di rinnovamento nell'impostazione generale. La visione di Fedele è stata altamente qualificata, con uno sguardo alla realtà internazionale orientato in ogni angolo del mondo e a volte interessato a stimolanti connubi con l'arte visuale. La sua impronta tuttavia si manteneva per lo più all'interno di una musica contemporanea intesa come espressione attuale e controversa di una ricerca di matrice colta, condizionata da una propria storia e un proprio linguaggio ingombranti. Se poi talvolta si cercava di sconfinare nell'ambito jazz, si aveva l'impressione che si trattasse di una doverosa ospitalità nei confronti di un altro genere riconosciuto e "rivale," proponendo cammei esemplificativi di un jazz canonico e di richiamo, non della sperimentazione più trasversale e compromessa con l'elettronica o con le più variegate tradizioni culturali.

Al contrario la direzione di Ronchetti si è dimostrata decisamente aperta ad una contemporaneità appunto più trasversale, che travalica i generi e che persegue modi e mezzi di produzione, distribuzione e comunicazione diversificati, rivolgendosi ad un pubblico più eterogeneo. Le sue scelte programmatiche per questa edizione della Biennale, sottotitolata Choruses, sono risultate subito chiare e semplici, quasi lapidarie, raggruppando il materiale selezionato per filoni portanti. Innanzi tutto si sono accesi i riflettori sulla voce, presentando una vasta gamma di possibilità compositive e interpretative, dalla musica corale alle solo performance, da una forte connotazione teatrale al confronto con l'elettronica... In secondo luogo è spiccata evidente un'attenzione per la componente femminile nella musica contemporanea, trascurata in passato; quest'anno compositori, interpreti e performer per la stragrande maggioranza sono state appunto donne.

La sezione "Solo Voice" si è rivelata particolarmente significativa sotto il profilo dell'intreccio di mentalità e modalità espressive eterogenee, presentando quattro solo performance diversissime fra loro di esponenti di ambiti che difficilmente s'intersecano fra loro. L'egiziano ZULI è un operatore a tutto campo, uno sperimentatore sonoro che sarebbe riduttivo definire DJ tout court o protagonista dell'hip-hop. La sua musica elettronica trae origine da registrazioni effettuate sul campo in situazioni eterogenee; materiale che filtrato e deformato ha permesso di dare corpo a una sorta di improvvisazione elettronica, assemblando le infinite possibilità concesse dalla sua strumentazione. Ne è risultata una stratificazione satura di suoni e voci, a tratti ruvida, ma senza percorrere quelle marcate, regolari cadenze ritmiche che di solito caratterizzano proposte sonore di questo ambito. Da un certo momento in poi si è aggiunta anche la voce dello stesso ZULI, inaspettatamente filtrata dalla mascherina, oltre che dall'elettronica. Il volume elevato ha avuto ovviamente il suo peso nel dare compattezza e spessore alla massa sonora. Le luci infine hanno costituito un indispensabile complemento: quattro serie di faretti disposte a varie altezze, a corona attorno al performer, proiettavano fasci di luce mobili e cangianti, con colori e grigliature variabili, inserendo effetti consonanti, ma non necessariamente sincroni, con l'andamento musicale. Il risultato della performance nel suo inscindibile insieme audio-visivo è stato di forte impatto, ma abbastanza uniforme, senza un'organica, ineludibile parabola narrativa, fino a raggiungere l'inattesa, un po' troppo repentina conclusione.

Tre sere dopo, sempre al Teatro del Parco a Bissuola (Mestre), il ricorso alle luci dei faretti era ancora presente, ma in modo meno determinante, nella performance di Joy Frempong, ghanese ma cresciuta in Svizzera e residente a Berlino dal 2008. Change and Change è il titolo del lavoro pensato per la Biennale e comprendente campionamenti sonori registrati a Venezia, in cui Frampton ha alternato mezzi, linguaggi e atteggiamenti diversi con una disinvoltura quasi disorientante. Nella parte iniziale, con una declamazione che poteva ricordare negli accenti certi esempi di poesia afro-americana, inclusa perfino una citazione di Angela Davis, è stato eretto un inno al cambiamento come fonte di ogni opportunità. Hanno poi fatto seguito situazioni diversificate: un canto ghanese in cui la componente etnica era filtrata e snaturata dall'elettronica, momenti dai toni colloquiali decisamente ammiccanti e easy, un siparietto che sembrava tratto dal teatro di figura, in cui ha dato voce a quattro personaggi impersonati da pupazzetti collocati davanti a lei...
Nel complesso la performance ha prodotto una strana ed inestricabile mescolanza, abbastanza possibilista, di impegno e disimpegno, di predominante comunicazione verbale e canto dall'emissione naturale, non virtuosistica, di parodia e teatralità. Il tutto, commentato da una musica elettronica piuttosto prevedibile e condotto con mano leggera e autoironica, ha reso la breve esibizione onesta, sicuramente originale e godibile, anche se non del tutto esaltante.

Non molto diversa nelle intenzioni, ma condotta con un background musicale e un approccio totalmente diversi, è stata la composizione "Is it cool to try hard now?," in prima italiana, della compositrice irlandese Jennifer Walshe. Video brevissimi presentavano i titoli e i diversi spunti di partenza delle varie sezioni. I reconditi nuclei d'origine fanno riferimento a Monteverdi, alla Callas o Erik Satie, ma anche a Gwyneth Paltrow o al funky; ogni volta però questi pretesti venivano trasformati e sviluppati in esternazioni personali, declamate o cantate con la ben scandita pronuncia inglese dell'Irlanda. Nell'interpretazione della Walshe si sono così susseguite diverse movenze: le onde di un flusso melodico lento, un testo frenetico e frazionato quasi come uno scat, un canto ben marcato nelle metriche e nella dizione... Il commento della musica elettronica procedeva di pari passo, contribuendo al tutto. All'interno del percorso sono risultate determinanti la componente gestuale e teatrale dell'autrice-interprete, la sua scanzonata azione scenica, la sua carica ironica e parodistica, con esiti molto coerenti ed efficaci, che possono essere letti come una critica caustica ai social media oggi abusati.

Con il concerto dell'albanese Elina Duni si è entrati in un altro mondo ancora: non quello di compositori-performer che eseguono la propria musica, ma quello di una classica cantante che interpreta un vasto repertorio di canzoni popolari, più o meno note. Uno dei suoi quattro cd pubblicati dalla ECM dal 2012 al 2020 si intitola Partir e da quando è uscito nel 2016 il suo tema ispiratore costituisce il canovaccio per le sue solo performance. Il repertorio di volta in volta può variare leggermente, ma le canzoni, appartenenti a diverse culture e affrontate nelle lingue relative, sono tutte accomunate dal tema della partenza, per lo più forzata da motivi di disperazione e di speranza; ...anche il matrimonio può essere visto come un viaggio verso l'ignoto o un sogno ad occhi aperti può rappresentare un modo per trascendere la dura realtà per sopravvivere.

Anche nel concerto veneziano, in cui la cantante si è accompagnata con la chitarra, tamburi a cornice e pianoforte, le culture del bacino del Mediterraneo costituivano la matrice prevalente del repertorio scelto, ma inaspettatamente è comparsa anche uno standard come "Willow Weep for Me," reso irriconoscibile dalla sua versione. La performance è stata unificata da vari fattori: dai tempi medio-lenti e dal tono per lo più triste e nostalgico delle canzoni, dal timbro morbido e caldo della sua voce, assestata sul registro medio, dalla partecipazione emotiva delle sue interpretazioni, dal giusto peso drammatico dato di volta in volta ai testi, dalla presenza scenica mai debordante, che ha irretito il pubblico per la sua naturalezza. Un'esibizione molto concentrata e persuasiva, che dopo pochi minuti è culminata nell'emozionante, lenta e partecipatissima interpretazione di "Amara terra mia," di Modugno-Bonaccorti.

Molte altre proposte vocali si sono ascoltate negli ultimi quattro giorni del festival. In occasione dei 1600 anni dalla fondazione di Venezia, nella suggestiva cornice della Basilica di San Marco, riutilizzata quest'anno da Biennale Musica dopo tempo immemorabile, ha spiccato l'esecuzione di "Canti liturgici," per coro misto a cappella, composto nel 2005 da Valentin Silvestrov, autore nato a Kiev nel 1937 e stimato da Alfred Schnittke e Arvo Part. I dodici canti autonomi (dal "Canto natalizio, al "Credo" all'"Ave Maria..."), intimamente concatenati in sequenza senza interruzioni, hanno visto un membro di ogni sezione del coro emergere di volta in volta in evidenza con funzione solista. Gli impasti armonici ora più consonanti secondo la tradizione classica, ora più arditi portando a soluzioni più innovative, e il procedere dinamico, per lo più lento e ieratico, hanno delineato l'affascinante, avvolgente complessità di questa partitura.
Considerata anche la collocazione dell'evento sotto le cupole dorate di San Marco, con il coro disposto alle spalle della ricca iconostasi, ed usufruendo quindi della risonanza dello spazio, più raccolta del previsto, si è assistito ad un esempio di attuale musica corale sacra di coerenza e consistenza estreme. Una musica tutto sommato senza tempo, in cui l'ascolto reciproco ha portato gli interpreti a una fusione armoniosa ed esaltante; encomiabili la preparazione e l'equilibrio assoluto dimostrati dalla Cappella Marciana, prestigiosa istituzione veneziana dalla storia secolare, sotto la direzione di Marco Gemmani.

Della compositrice finlandese Kaija Saariaho, a cui la Biennale ha assegnato il Leone d'Oro alla carriera, è stato eseguito in prima assoluta "Reconnaissance," per coro, percussioni e contrabbasso, su libretto di Aleksi Barrière, il cui testo era proiettato sullo scabro muro di fondo del Teatro alle Tese dell'Arsenale. Il testo appunto, prevalentemente cupo e apocalittico, che in parte prende spunto dal film Solaris di Tarkovskij, ha costituito una griglia statica e vincolante su cui modellare l'andamento del coro, ora compatto ora movimentato in masse contrapposte con effetti drammatici. La parte scritta per l'elettronica si è sovrapposta come un controcanto moderato, per lo più offuscato, mentre le percussioni e il contrabbasso hanno aggiunto di tanto in tanto accenti solo apparentemente stranianti. Sotto la direzione di Marcus Creed le voci del coro Accentus, di cui sono emerse in evidenza soprattutto le sezioni antitetiche dei soprani e dei bassi, hanno reso compattezza e riverberi foschi a questa partitura impegnativa, in cui in una dimensione cosmica si respira un nero fatalismo, una narrazione che sembra unire riti ancestrali e un destino inesorabile per l'umanità.

A conclusione del concerto, con un'esecuzione impeccabile da parte dello stesso Accentus, è risultata di propensione del tutto contrapposta la breve composizione "Per 24 voci adulte o bianche," scritta da Sylvano Bussotti nel 1967, la cui reinterpretazione, già in programma, è stata dedicata all'autore, scomparso a Milano cinque giorni prima. Lineare e chiaro lo svolgimento di questa parabola esecutiva: dopo un esordio caratterizzato dall'esplosione di un vociare anarchico, esagitato dell'ensemble, provocatorio e scanzonato al tempo stesso, una corista, impossessatasi del podio della direzione, ha portato l'ordine tramite una conduction dai gesti lapidari, ottenendo dai compagni forti unisoni collettivi e glissando esasperati. Appena l'improvvisata direttrice è scesa dal podio per tornare nei ranghi si è subito regrediti all'estemporaneo, sgangherato vociare individuale, poi smorzatosi gradatamente col defluire dalla scena degli esecutori uno alla volta con un'aria frustrata. Come non vedere in questo lavoro un'allegoria di certi comportamenti sociali?
Un'ultima annotazione sul pubblico: oltre che numeroso, in questa edizione di Biennale Musica è parso ancor più eterogeneo, curioso e soprattutto più giovane che in passato.

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