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Batteria, jazz e progressive. I nuovi progetti di Alberto De Grandis

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Mi piacerebbe fare un album tributo a The Rotters' Club degli Hatfield and The North, un disco che ha plasmato la mia musicalità
Nel panorama del prog jazz elettrico italiano con forti derivazioni rock, i D.F.A. (Duty Free Area) di Verona hanno occupato un posto di primo piano. Non tanto per essere uno dei pochi gruppi tricolori ad avere raggiunto una certa notorietà internazionale, quanto per aver elaborato negli anni (il gruppo si è formato nel 1993) un'identità musicale che si rifà in modo assolutamente originale alla fusion britannica degli anni Settanta. Un'operazione tentata in passato da molti, ma riuscita davvero a pochissimi. Il loro canto del cigno è stato 4TH, uscito nel 2008 per la Moonjune di Leonardo Pavkovic, l'album più jazzy della loro scarna discografia e quello che ha raccolto i maggiori consensi anche da parte della critica non necessariamente legata al piccolo, e a volte claustofrobico, mondo del progressive.

Purtroppo da allora il quartetto ha cominciato a rallentare le apparizioni e l'anno scorso la tragedia dell'improvvisa scomparsa dell'apprezzato tastierista e compositore Alberto Bonomi. Capitolo chiuso? Lo abbiamo chiesto ad Alberto De Grandis, classe 1970, vigoroso batterista e vocalist della band veronese, che ha anche legato il suo nome alle più belle e creative composizioni del quartetto, molte delle quali firmate insieme proprio al compianto Bonomi.

All About Jazz: Come sei diventato batterista e quali sono stati i tuoi maestri?

Alberto De Grandis: È stato quasi inevitabile seguire le orme di mio padre che ha accompagnato la mia infanzia a colpi di walzer e mazurke e che ha suonato la batteria e cantato per quarant'anni a livello amatoriale in diverse piccole orchestre. Non sono poi mai mancati dei buoni vinili in casa. A tal proposito ci stati sono due batteristi in particolare che mi hanno letteralmente folgorato e convinto a rispolverare una vecchia batteria Trixon che dormiva in cantina. In ordine cronologico si trattava di Ian Paice dei Deep Purple e di John Henry Bonham dei Led Zeppelin, che è il mio autentico idolo. In realtà ho iniziato tardi a suonare la batteria, verso i 16 anni. In precedenza battevo dappertutto ma usando solo le mani: ero appassionatissimo di musica afro-brasiliana e di ritmi funky, ma, come dicevo, è stato il rock ad avermi piacevolmente "deviato" e, da allora, non ho più mollato le bacchette.

AAJ: Oggi se dovessi scegliere un modello, quali potrebbero essere i tuoi punti di riferimento a livello di tecnica e tocco?

A.D.G.: Ci sono molti batteristi che mi piacciono e a cui "cerco" di ispirarmi. Diciamo che prediligo i batteristi che trasmettono una grande passione nel suonare e che interagiscono con i musicisti con cui suonano unendo gusto, equilibrio e sensibilità, facendo musica nella musica. A questo proposito mi fa impazzire Gary Novak, lo seguo e lo ascolto molto. L'album Paint the World del 1993 con Chick Corea mi ha letteralmente strabiliato. Adoro l'immenso talento di questo fuoriclasse che alla batteria unisce tecnica sublime e "tiro micidiale". Ma la lista delle fonti d'ispirazione è molto lunga. Ho amato molto Chad Wackerman, Billy Cobham, Michael Giles, Pierre Moerlen, Gary Husband, e tanti altri. Tra i giovani mi piace molto Mark Guiliana e, in definitiva, preferisco i batteristi versatili, ma con un'identità ben precisa.

AAJ: Qual è il tuo rapporto con il jazz?

A.D.G.: Non sono un batterista jazz, ma ascolto più volentieri il jazz del rock. Anche se più che al jazz mainstream le mie preferenze vanno a quello elettrico che si avvicina al rock. In ogni caso preferisco i modelli in cui il linguaggio è piacevolmente contaminato con altri generi magari etnici. Dove si respira il folklore della terra di provenienza dei musicisti. Ad esempio, Trilok Gurtu, Mahavishnu Orchestra, Avishai Cohen ecc.

AAJ: E cosa ne pensi dei batteristi jazz prestati alla musica rock o progressive?

A.D.G.: Credo che i batteristi jazz "aperti" possano assolutamente arricchire il rock e soprattutto il progressive che è di per sè un genere già ampio e libero da schemi e stili. Un genere dove il gusto personale ha sempre prevalso sulle regole funzionali.

AAJ: Come hai sviluppato nel tempo le tue doti di compositore e, soprattutto, come avviene il processo creativo?

A.D.G.: Fin da piccolo creavo le mie elementari melodie, mi veniva spontaneo e mi chiedevo perchè non tutti fossero in grado di farlo naturalmente. Mi piaceva creare delle piccole idee, mettendo insieme istintivamente frammenti di cose che ascoltavo. La musica girava continuamente nella mia testa come una trottola finché non mi sono deciso di provare a sviluppare davvero qualche idea. Dopo aver compreso i principi fondamentali dell'armonia ho messo le mani sul piano o sulla chitarra e pian piano ho cominciato a creare dei collage embrionali con i miei D.F.A. nella nostra prima cantina. Il processo creativo è difficile da spiegare; può partire da una idea ritmica spesso e volentieri, un giro di basso su cui si costruisce l'armonia e la melodia. Altre volte ho scritto prima la melodia e successivamente la ritmica. Mi è sempre piaciuto mettere insieme dei "mattoni" che potessero essere compatibili e avere un senso logico. Mi appassionano i numeri e quindi un po' di matematica l'ho usata nel costruire le mie composizioni. E dopo essermi regalato il primo sequencer midi la malattia si è estesa ed il processo creativo è diventato quasi un gioco.

AAJ: I D.F.A. sono uno pochi dei gruppi europei di fusion che per inventiva, soluzioni timbriche e dinamismo hanno saputo affrancarsi da un certo jazz rock ipermuscolare e grossolano per intraprendere un percorso del tutto originale e, sotto il profilo musicale, simile a quello battuto da band britanniche come quelle di Bill Bruford, Phil Miller's In Cahoots, Pierre Moerlen's Gong, Allan Holdsworth I.O.U, National Health e altri. Che ne pensi?

A.D.G.: Sì, ma aggiungerei tra le fonti d'ispirazione anche Gentle Giant, King Crimson, Brand X e UK. Ci siamo sempre ispirati alla musica inglese e le icone che ami e con cui cresci ti lasciano inevitabilmente un marchio ben preciso, scolpito per sempre. Una specie d'impronta che si sente chiaramente nei nostri dischi. Mi piace anche pensare che tutto quello che è uscito nella nostra musica sia una sorta di abbraccio globale a tutti i maestri che abbiamo ascoltato. La verità però è che non ci siamo mai ispirati a un solo gruppo in particolare e credo che questo sia stato un bene per noi.

AAJ: Il quarto album dei D.F.A., è stato forse quello della piena maturità e della consapevolezza delle proprie energie creative. Tutto è, rispetto altri album, maggiormente bilanciato e colorato di jazz...

A.D.G.: Sono d'accordo. Quella del nostro ultimo album è poi una storia lunga. Nel 2004 dovevamo capire se ricominciare a scrivere o prenderci un periodo di pausa per una serie di motivi. Abbiamo scelto di ricominciare a lavorare seriamente, convinti che sarebbe stato l'album più bello e probabilmente l'ultimo: e così è stato. Con 4TH ci siamo presi delle belle soddisfazioni, a volte lo riascolto e faccio fatica a credere che siamo noi a suonare. È chiaro che ci sono molti riferimenti al jazz, ma anche al funk e alla musica latinoamericana. Gli arrangiamenti sono molto curati ed è sicuramente un disco molto più complesso e maturo di Lavori in Corso e di D.F.A.. Rispetto agli altri album qui c'è un'influenza maggiore della musica della scuola di Canterbury e devo dire che un album che ho imparato a conoscere non molti anni fa mi ha dato non solo qualche suggerimento, ma è stato fonte di ispirazione: sto parlando di The Rotters' Club degli Hatfield &The North.

AAJ: Lo scorso anno è tragicamente scomparso il tastierista dei D.F.A., Alberto Bonomi. Puoi ricordarlo?

A.D.G.: Ero a Montréal per un periodo di "ricerca" quando ho appreso questa notizia terribile. È difficile descrivere 15 anni di condivisione, di impegno, di amicizia profonda nella complicità e nei contrasti che l'hanno contraddistinta. Lui era la nostra forza in quanto metteva il suo talento e la sua musica al servizio della band. Eravamo così diversi e spesso nelle soluzioni compositive ci scontravamo perché lui amava i Genesis e io il jazz rock, ma proprio per questo ci completavamo perfettamente. Con Alberto una parte di me se n'è andata ed è come se i D.F.A. siano definitivamente scomparsi con lui. È come se 4TH sia stato il suo sigillo finale prima di lasciarci. Devo dire che Alberto è stato fondamentale per portare a termine l'album e che senza di lui i D.F.A. non avrebbero mai fatto un salto di qualità.

AAJ: Ci puoi parlare degli altri membri dei D.F.A e se il gruppo può dirsi definitivamente sciolto? O ci sono possibilità di un ritorno con una nuova formazione?

A.D.G.: Credo proprio che Luca e Silvio (il bassista Luca Baldassari e il chitarrista Silvio Minella, N.d.R.), con i quali sono cresciuto e che continuo a frequentare, abbiano ormai preso la decisione di dedicarsi alle loro meravigliose famiglie. Ogni tanto per provare qualche emozione strimpelliamo qualcosina nella nostra sala prove, ma il destino dei D.F.A era già segnato nel 2009 perché fisiologicamente non c'erano più i presupposti per pensare di fare un altro disco e magari metterci 7 anni a registrarlo.

AAJ: Attualmente con chi stai lavorando?

A.D.G.: Dopo un periodo, diciamo di "riposo creativo," ho cercato di distrarmi musicalmente collaborando con altri musicisti anche perché i miei interessi e la mia voglia di fare è sempre viva. Con i 3s Amis, che mi vedono insieme alla cantante Bruna Sardo e al chitarrista Samuele Lorenzini, suono percussioni, batteria e canto e con loro mi diverto molto. Facciano un repertorio di covers che abbracciano più culture con brani tratti dai repertori di Avishai Cohen, Bjork, Camille ecc. Si tratta di un viaggio immaginario dal Medio Oriente al nord Europa, passando dal Mediterraneo, e che prevede anche riletture di classici della canzone napoletana. Si tratta di un progetto nato da poco e ancora da sviluppare seriamente, ma con delle belle potenzialità soprattutto se riuscissimo a scrivere qualcosa di nostro. Oltre a questo trio ho anche un quintetto eclettico chiamato Bittersweet con un repertorio jazz/acid-jazz/latin/soul con dei bravi musicisti e una cantante jazz straordinaria che si chiama Rossana D'Auria. Anche in questo caso si tratta sempre di covers: Esperanza Spalding, Incognito, Rachelle Ferrel, Rad e anche qui non si sa mai che nasca qualcosa di inedito in futuro. Ovviamente il mio grande desiderio è quello di scrivere un nuovo album, tutto mio: magari un nuovo progetto sulla scia dei D.F.A.

AAJ: C'è stata recentemente anche una collaborazione più vicino alla sfera progressive con i greci Ciccada, o sbaglio?

A.D.G.: È vero sono stato contattato da Marcello Marinone di AltRock che mi ha proposto di entrare in studio per suonare nell'album d'esordio di questo gruppo di Atene, A Child in the Mirror. Mi sono divertito, ma è stata solo un episodio anche perché il loro approccio un po' troppo pomposo e barocco al progressive non fa parte del mio bagaglio musicale.

AAJ: So che sei invece un appassionato di musiche etniche e tradizionali. Pensi di sviluppare progetti musicali che incrociano la cosiddetta world music?

A.D.G.: Adoro Le Mystère des Voix Bulgares e la loro incredibile polifonia vocale mi ha letteralmente cambiato la vita dal punto di vista armonico. I loro arrangiamenti sono impressionanti e l'emozione che trasferiscono è qualcosa di raro indescrivibile. Una passione condivisa con i miei amici sardi Andhira con cui ho collaborato realizzando in 4TH il sogno di arrangiare un loro pezzo, "La Ballata de 'si sposa 'e Mannorri." Non parlo degli Andhira a caso: con loro sono sempre in contatto e tra l'altro hanno da poco sfoderato il loro album nuovo, Naktirando, a cui ha collaborato anche Mauro Pagani. Sarebbe davvero bello proseguire questo gran bel sodalizio. Per il resto, rimango molto aperto alle contaminazioni e ai nuovi incontri: ad esempio, l'Occidente che incontra musicalmente l'Oriente mi ha sempre affascinato.

AAJ: Dunque tanti progetti, ma tutti ancora in una fase di elaborazione.

A.D.G.: Esatto. Teniamo conto che il panorama musicale offre pochissimi spazi a proposte di ogn tipo, figuriamoci quelle ai margini dell'establishment. Ho scritto dei nuovi brani, ma non ho ancora trovato dei partner con cui condividere stabilmente il mio progetto. Mi piacerebbe anche fare un album tributo a The Rotters' Club degli Hatfield and The Norh, un disco che ha contribuito a plasmare la mia musicalità e, credo, di molti appassionati anche di jazz. Sono sempre in contatto con Leonardo Pavkovic, patron della Moonjune e scopritore dei D.F.A., che potrebbe fare uscire un DVD di una nostra storica performance al festival americano Nearfest. Vedremo, intanto non smetto di sognare e suonare.


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