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Aria - Tempo Reale Festival 2021

Aria - Tempo Reale Festival 2021

Courtesy Simone Petracchi / The Factory PRD

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Aria—Tempo Reale Festival
Firenze
Limonaia di Villa Strozzi
21-23.06.2021

Ripartono i festival e anche Tempo Reale, storica istituzione della contemporanea, celebra l'evento titolando la sua rassegna "Aria," quella di cui tutti sentivamo il bisogno e che è indispensabile anche per produrre nuove idee musicali. Purtroppo, la prevista concretizzazione del titolo attraverso la messa in scena dei concerti sulla terrazza della Limonaia di Villa Strozzi è stata resa impossibile da un problema legato alla sicurezza degli spazi, per cui si è dovuto spostare i concerti nella sala della sottostante Limonaia, non meno suggestiva, ma alla quale mancava il richiamo alla libertà ritrovata.

La rassegna si è aperta lunedì 21 giugno con due concerti in solitudine. Il primo vedeva in scena il percussionista Michele Rabbia, alle prese con una moltitudine di oggetti che andavano da elementi di batteria a un laptop, passando per campanelli, coppette, vari tipi di piatti, archetti, palline, persino due diapason che, a un certo punto, hanno animato la scena scandendo i loro ritmi contrapposti sulla superficie del tamburo. Rabbia è maestro nella costruzione di paesaggi sonori in solitudine e anche in questo caso la sua performance, lunga ben oltre un'ora, non ha deluso: alternando sottilissime ricerche di suono, elaborazioni dei medesimi attraverso l'elettronica e momenti più intensi con sonorità e ritmi campionati, l'artista ha sviluppato un discorso narrativo coerente e toccante, mai ridondante—nonostante la considerevole durata—proprio grazie a un pensiero poetico ben preciso, articolato attraverso l'improvvisazione, dando vita a un concerto splendido.

A seguire il talentuoso chitarrista francese Julien Desprez, per il cui concerto c'era molta aspettativa e che dal punto di vista della tecnica e dell'originalità non ha tradito le attese. Attorniato da un numero impressionante di pedali disposti a emisfero, Desprez ha costruito la propria performance soprattutto sull'elaborazione elettronica dei pochi suoni emessi dalle corde—quasi assenti i fraseggi, del tutto le linee melodiche---e soprattutto dalle azioni effettuate sul corpo dello strumento—scuotimenti, colpi, pugni sul manico—ora autocampionandosi, ora distorcendosi, ma soprattutto lavorando con i piedi nella realizzazione di ritmi dalle sonorità più diverse, frammentati in modo drammaticamente marcato così da creare un forte contrasto tra gli alti volumi e i silenzi. Un lavoro personalissimo, molto impegnativo—il musicista è uscito grondante di sudore dai quaranta minuti del set—ma che, dopo i primi minuti di ammirato stupore, ha lasciato il posto anche a una qualche noia: troppo ripetitive le forme, troppo netti gli stacchi tra il fortissimo e il silenzio, cosicché sembrava di assistere a un quadro in bianco e nero rappresentante figure tutte uguali. Peccato, perché la bravura e l'originalità di Desprez sono sembrate innegabili, ma richiedono forse di stare al servizio di un pensiero più sviluppato.

La seconda serata, il giorno successivo, prevedeva tre set, due in solitudine e il conclusivo in trio. L'ha aperta Vincenzo Scorza, "scultore sonoro" spesso all'opera su musica di scena, che si è prodotto in una performance per sola elettronica di circa mezz'ora: mai aggressiva, senza troppe cesure, ma anche priva di spiccate originalità e di momenti marcatamente qualificanti, ha finito per apparire meramente "gradevole," senza destare grande interesse. A seguire, Dario Fariello ha invece impiegato assieme all'elettronica anche due sax, un sopranino e un soprillo (piccolo e raro strumento, di mezza ottava più alto del sopranino), per rendere più vario e complesso il tessuto sonoro. Sfortunatamente, però, ha utilizzato le due ance in modo troppo povero, ancorché originale, ovvero si è limitato a soffiarci senza quasi mai far vibrare la canna, producendo soprattutto gorgoglii e schiocchi, prodotti in sequenza e troppo fini a loro stessi, senza cioè usarli come dati da elaborare all'elettronica. Dopo un troppo insistito lavoro ai fiati, li ha poi abbandonati del tutto per passare all'elettronica, con la quale ha emesso rumori fissi e un po' aggressivi, assai poco adatti a dar vita a una trama drammaturgicamente significativa. Solo per un brevissimo tratto ha ripreso le ance, esprimendovi stralci di suono continuo, inscritto nello sfondo elettronico, dando in tal modo vita al passaggio più interessante di un set troppo sfrangiato per essere convincente.

Il concerto conclusivo vedeva in scena Zumtrio, formazione di artisti "di casa": il compositore e musicista elettronico Francesco Giomi, che di Tempo Reale è il direttore, il chitarrista Francesco Canavese e il batterista Stefano Rapicavoli, che hanno proposto una musica largamente improvvisata, ma basata su una serie di partiture grafiche. La presenza di tre artisti, con la loro interazione e la varietà di suoni messa in campo, ha senz'altro aiutato ad alzare il livello della creatività; a ciò va aggiunta la presenza di un chiaro concetto, presente nelle partitute, che ispirava anche le parti improvvisate; ancora, la provenienza dall'ambito jazzistico di Rapicavoli s'è fatta sentire, favorendo la presenza di ritmi maggiormente variati che non in altri set. Ma la differenza l'hanno fatta la sensibilità e la misura dei musicisti, che negli assoli hanno mantenuto costantemente una leggibilità e un'articolazione narrativa anche nei momenti più astratti, tecnicamente elaborati o legati all'alea. Ne sono stati esempio gli interventi tanto di Giomi—che usava sintetizzatori e una radio, con la quale richiamava voci e suoni da inserire in diretta nelle trame o da elaborare in forme di suoni originali— quanto di Canavese—che ha usato sia le corde, sia i pedali in modo forse convenzionale, ma anche non virtuosistico, bensì finalizzato al discorso musicale comune. Bel concerto, tra i migliori della rassegna.

L'ultima serata, mercoledì 23, prevedeva di nuovo due concerti solitari e s'è aperta con l'affermato compositore australiano Anthony Pateras, che ha presentato due brani per pianoforte ed elettronica, con elementi preregistrati. Lavori pacati ed intimistici, lenti e rarefatti, il primo quasi interamente incentrato sulle sfuggenti risposte, spesso dissonanti, del piano alle tracce registrate, il secondo invece dal suono più corposo e perciò maggiormente coinvolgente nell'ascolto. Qui, sebbene volutamente sfrangiata e sospesa, la traccia narrativa era presente; c'era però anche una certa ridondanza, né la cifra complessiva, pur singolare, poteva vantarsi di grande innovatività, rimandando in modo palese alle sperimentazioni della metà del secolo scorso. Ciononostante il concerto è parso tra i più interessanti della tre giorni.

Meno persuasiva, ancorché coerente e strutturata, l'ultima performance, opera della statunitense Lea Bertucci, che disponeva di vari strumenti: sax contralto, flauto traverso di canna, laptop, elettronica. L'avvio, interamente su suoni elettronici, pur etereo ed evocativo è parso piuttosto monotono, specie per la sua durata; le cose sono però mutate dopo un terzo del concerto, con l'intervento del contralto, suonato su brevi celle minimali che tuttavia si inserivano opportunamente nella trama elettronica sottostante. All'interrompersi di questa, la Bertucci è passata al flauto, per poi tornare di nuovo all'elettronica, a concludere in modo un po' incompleto un discorso complessivo appunto coerente, ma non particolarmente originale---gli stilemi erano tutto sommato ben noti—né caratterizzato da momenti indelebili.

Complessivamente la rassegna ha permesso di esplorare una significativa rosa di proposte della sperimentazione contemporanea, con particolare riguardo alla musica elettronica, uno spaccato le cui sorprese, qualità, ridondanze e contraddizioni ha mostrato la vitalità di un campo che, tuttavia, fatica ancora a trovare spazi per essere proposto a un pubblico più ampio degli appassionati.

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