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A dialogo con Alessandro Lanzoni

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Classe 1992, Alessandro Lanzoni ha già alle spalle un percorso artistico di tutto rispetto, collaborazioni con artisti di primo piano (giovanissimo, aveva già registrato con Lee Konitz) e riconoscimenti importanti (lo scorso anno ha vinto il referendum di Musica Jazz come miglior nuovo talento italiano).

Dopo averlo seguito in varie occasioni fin da quando aveva diciassette anni e averlo visto recentemente in scena in situazioni diverse (clicca qui per leggere la recensione del concerto del gruppo di Nico Gori e qui per quella del suo piano solo a Firenze), siamo andati a trovarlo in occasione dell'uscita del suo nuovo CD -Seldom, inciso con il suo trio e Ralph Alessi (CAM Jazz) -per parlare del suo attuale momento artistico.

All About Jazz: Parlaci dal percorso iniziato lo scorso anno con Dark Flavour -del quale il tuo ultimo CD conserva la parte ritmica della formazione, andando però musicalmente assai oltre, non solo per la presenza di Ralph Alessi.

Alessandro Lanzoni: Decido di entrare in sala di registrazione solo quando sento la necessità di fotografare il pensiero musicale a cui sono arrivato. È stato così anche i due CD che citavi: avevo le idee chiare sul percorso che avevo fatto e volevo fissarle. Certo, è vero che Dark Flavour è molto più semplice di Seldom: era il primo disco con il mio trio e per me era molto importante e significativo il lavoro che avevo fatto con Matteo Bortone e Enrico Morello... era la prima volta che avevo lavorato seriamente con un gruppo veramente mio. In passato, ho avuto altre esperienze da leader, ma senza la percezione di come si potesse rafforzare un gruppo attraverso il lavoro, la riflessione comune e la condivisione sulla musica che si è prodotta nel caso del trio con Matteo ed Enrico.
Dark Flavour rappresentava, quindi, l'esito della mia prima esperienza di questo genere. È anche per questo che avevo deciso una scaletta di standard e mie composizioni, brani relativamente semplici, per liberare le nostre possibilità improvvisative. Una scaletta comunque varia, per soddisfare una mia esigenza costante, non solo come musicista ma anche come ascoltatore: se il clima rimane sempre lo stesso, se in un concerto non c'è varietà, io mi annoio anche quando sono spettatore -perfino quando suona qualcuno che comunque ha cose personali da dire.

AAJ: Come hai iniziato la tua collaborazione con Bortone e Morello?

A.L.: Durante alcuni corsi di Siena Jazz, anche se in tempi diversi. Con entrambi c'è stata fin da subito una forte intesa, molto naturale, che mi ha spinto a inaugurare un percorso con loro. Dopo l'uscita del primo CD abbiamo continuato a collaborare regolarmente ed effettivamente il mio modo di comporre è cambiato. Per Seldom, in primo luogo, ho fatto attenzione ad essere meno banale nelle scelte armoniche. Sono sempre stato molto affascinato dalla complessità armonica e, al tempo stesso, mi è sempre venuto molto naturale navigare entro armonie difficili e passare in modo logico da un accordo a un altro per formare progressioni complesse, ma dotate di senso. Per questo ho cercato di comporre tenendo conto di questa mia predilezione. In secondo luogo, ho provato a scrivere brani che avessero una forma strutturale più complessa di quelli presenti in Dark Flavour, che sono tutti piuttosto simili agli standard. Le composizioni di Seldom, invece, sono più articolate. Ad esempio, "Wine and Blood" -che apre il CD -è un brano multitematico, diviso essenzialmente in due parti: nella prima c'è un tema sugli accordi sul quale si basa il solo di Alessi, dopodiché risuoniamo il tema e c'è una parte scritta, una specie di sviluppo che però volevo rimanesse così come l'ho pensato, a prescindere dall'improvvisazione che lo precede; segue poi la seconda parte, ove compare e cresce un riff ritmico su cui si costruisce un altro e ben diverso chorus improvvisativo.

AAJ: Perché sentivi il bisogno di mantenere stabile una parte del brano? Ovvero, che valore dai alle parti scritte all'interno delle improvvisazioni?

A.L.: Non sentivo il bisogno di mantenerlo stabile nel momento in cui lo scrivevo; più semplicemente, quando ho terminato la scrittura mi sono reso conto che la sua natura includeva quella parte scritta, la cui privazione avrebbe snaturato l'identità del brano, che è formato da due spazi improvvisativi tanto diversi da necessitare un elemento di mediazione. Certo, lo si potrebbe creare anche attraverso l'improvvisazione, però in "Wine and Blood" volevo che ci fosse proprio quella specifica parte scritta a mediare le altre due.

AAJ: Il cambiamento del tuo approccio alla scrittura è stato influenzato dall'ingresso di Alessi nel gruppo?

A.L.: No, anche perché i brani li avevo scritti prima di sapere che avrei registrato con lui. L'unico che ho scritto dopo è "Yuca," forse quello più tradizionalmente jazz, con un andamento swing; ma anche in quel caso non ho fatto alcun tipo di adattamento: è solo un brano semplice, con un tema sul quale improvvisiamo liberamente. In effetti non ho pensato ad arrangiamenti precisi per la formazione: in quel momento non mi interessava un dialogo strutturato. Anzi, non ho neppure dato ad Alessi delle direttive precise, ma solo le parti e alcune registrazioni dei brani: il resto è venuto suonando assieme.

AAJ: Come hai pensato di fare un disco proprio con lui?

A.L.: In primo luogo, perché è un musicista che ammiro molto per il suo eclettismo: ha un profondo rispetto per la tradizione, conosce tantissima musica, ma allo stesso tempo ha un modo molto moderno di suonare e forme espressive estremamente personali. Un artista che è riuscito ad attuare una sintesi tra il suo modo di pensare e tutto quello che è venuto prima. E questo corrisponde alla mia idea di come dovrebbe essere un musicista jazz, una tipologia di artista a cui aspiro anch'io. Di conseguenza, non poteva non sembrarmi un partner ideale, cosa che poi si è rivelato essere fin dal primo momento in cui abbiamo cominciato a lavorare assieme. E che è stato confermato dalle improvvisazioni libere che abbiamo registrato in duo -nel disco ce ne sono tre -nelle quali l'approccio è stato piuttosto diverso dal resto della musica di Seldom: lì non abbiamo deciso niente prima di iniziare a registrare e proprio per questo ho sentito in qualche modo che il dialogo era ancor più spontaneo di quello sviluppato sui miei brani.

AAJ: Ti piace questo tipo di lavoro, l'improvvisazione radicale?

A.L.: Sì, moltissimo. Penso che improvvisare liberamente o farlo su una struttura siano due lavori molto diversi, anche se con importanti similarità.

AAJ: Ma improvvisate completamente liberi?

A.L.: In quei brani sì, sono autentiche improvvisazioni libere. Ne abbiamo registrate quattro e ho scelto le più diverse, ognuna con la sua specifica caratteristica. Nella prima, ad esempio, ho iniziato a portare il tempo, facendo qualcosa che ricorda un po' una bossa nova, cambiando però spesso gli accordi; lui è riuscito benissimo a "incollarsi" a ciò che stavo facendo, tanto che quel brano sembra veramente scritto!

AAJ: Mi incuriosisce molto il confronto tra i diversi modi di affrontare la musica completamente improvvisata. Infatti, pur partendo tutti dal "grado zero" -cioè senza accordarsi preventivamente su alcunché -gli esiti della musica sono spesso totalmente diversi. Quello che possono produrre Evan Parker o Peter Brötzmann, ma anche Giovanni Maier, Massimo De Mattia - Bruno Cesselli o Mirio Cosottini "suona" assai diverso da quello che avete fatto tu e Alessi. Sarebbe interessante riuscire a capire e spiegare perché. Azzardo una prima ipotesi: forse perché chi improvvisa più spesso e in modo più sistematico tende maggiormente a separarsi dal proprio retroterra melodico (e anche armonico), così da costruire forme musicali più astratte e cerebrali. In altre parole, forse tende a dimenticare troppo quel bagaglio culturale che un improvvisatore porta comunque sempre con sé, fino a produrre cose che mancano di connessioni di senso condivisibili con l'ascoltatore. Le vostre improvvisazioni, invece, sebbene libere conservano comunque una logica musicale: la vostra, quella che si coglie anche nelle composizioni scritte che le accompagnano sul disco, e che avete in comune con l'ascoltatore, o almeno che è più facilmente condivisibile. Questo le rende coerenti con il resto del materiale del disco e anche immediatamente fruibili all'ascolto.

A.L.: Il discorso è complesso, perché in teoria l'improvvisazione libera dovrebbe essere giustappunto lo specchio del pensiero musicale del musicista che l'affronta. Però, al contrario di quel che si tende a pensare, secondo me il fatto di non avere nessun tipo di recinto non dà la possibilità di essere più libero. Anzi, forse induce un maggior senso di smarrimento che impedisce di fare grandi cose. Ho sempre visto l'improvvisazione libera come un territorio sterminato all'interno del quale poi, comunque, cercare di delineare un proprio percorso.

AAJ: Insomma, come dice l'ambientalista e teologo Wolfgang Sachs, l'ineludibile importanza del limite per le attività creative: solo grazie alla limitata dimensione della tela il pittore può esprimere la propria arte. Ma l'improvvisazione include anche altri aspetti, ad esempio quello del gioco: ti ho sentito dire che improvvisare ti rilassa perché ti rimanda a quell'approccio ludico e spontaneo con il piano che avevi da bambino, quando giocavi con le tastiere dei tuoi genitori, entrambi pianisti. Nella tua idea di improvvisazione è importante anche questo aspetto ludico?

A.L.: Certamente. Ho sempre suonato il piano perché è una cosa che mi piace e mi diverte: quindi non ho mai diviso il gioco dal lavoro, il piacere dallo studio e dagli sforzi che ho fatto per diventare un bravo pianista. Suonare è la cosa che mi piace di più, quindi la ludicità è inscindibile dal mio essere musicista.

AAJ: Ma improvvisare incrementa il piacere del suonare?

A.L.: Beh, sì! Suono il jazz perché uno dei tratti principali di questa musica è l'improvvisazione; ho sempre amato eseguire brani di musica classica e apprezzo anche quel tipo di esecuzione: è bellissimo anche interpretare qualcosa di già scritto. Tuttavia in qualche modo ho sempre sentito la necessità di esprimermi e dare un mio contributo attraverso la mia fantasia.

AAJ: Hai toccato un argomento importante: il rapporto tra l'improvvisazione e la creatività. Ami l'improvvisazione anche perché ti permette di non limitare la tua creatività al solo momento della scrittura e di darle libero spazio anche nel momento performativo?

A.L.: Assolutamente sì! Penso di poter in ogni momento descrivere qualcosa di diverso, a seconda dello stato d'animo, di dove mi trovo, di cosa sto ascoltando in quel periodo. Come dicevo, perfino da ascoltatore ho bisogno di trovare la diversità, per cui a maggior ragione ricerco la diversità nella musica che suono. Questa è una delle ragioni per cui faccio fatica a fare l'interprete di musica classica. Lo vedo bene in questo periodo, perché mi sta capitando di eseguire spesso la Rapsodia in Blue di Gershwin, un pezzo che mi piace moltissimo ma che ciononostante fatico a riprendere in mano ripetutamente per studiarne sempre gli stessi passaggi. Lo faccio comunque, perché so bene che è un esercizio tecnico utile e importante, e perché è una sfida cercare di essere naturale anche suonando qualcosa che ho già suonato un sacco di volte. Inoltre, mi piace anche provare a scoprire qualcosa di nuovo ogni volta che la risuono, una cosa molto difficile, ma possibile. Anche se, conoscendo l'improvvisazione, finisco per pensare che non ci sia nemmeno tanto il bisogno di farlo... Comunque, sono due cose diverse, e alla fine si ritorna alla questione della varietà: qualche volta è bello anche confrontarsi con quest'altro modo di fare musica! E posso dire la stessa cosa per la mia passione per gli standard: improvvisare su delle strutture rigide, dove c'è già un recinto che devi cercare di rendere più elastico possibile e di allargare, è l'opposto dell'improvvisazione libera; ma proprio per questo mi piace, perché è una forma diversa.

AAJ: Questo ci porta alle tue performance di piano solo, che ho ascoltato di recente nella Chiesa di S. Stefano al Ponte Vecchio. In quella occasione ti spingesti in molte situazioni musicali diverse: improvvisazioni libere, standard, tue composizioni, improvvisazioni in stile classico.

A.L.: Quando suono da solo ho finalmente la possibilità di prendermi tutto lo spazio possibile e mi affascina proprio il fatto di poter decidere al momento cosa fare. Così come mi piace il fatto di non dover interagire con altri e non essere vincolato a trovare un accordo per riuscire a formare qualcosa. Ultimamente tendo ad impostare la scaletta del concerto sempre nello stesso modo: inizio da improvvisazioni libere, che mi aiutano a entrare nella mia dimensione più naturale e di conseguenza trovare subito un alto grado di concentrazione, dopodiché passo a brani miei o a standard -anche in questo caso senza prestabilire né titoli, né ordine -perché suonare qualcosa che già esiste, quindi limitare in qualche modo la mia inventiva, mi da un attimo di respiro. L'improvvisazione libera, infatti, benché mi piaccia e mi venga molto naturale, è anche davvero molto impegnativa: non sai mai quello che succederà e devi stare costantemente attento a considerare tutto quello che stai facendo nel momento stesso in cui lo fai; inoltre, contemporaneamente ti devi ricordare di tutto quello che hai fatto prima, perché devi dare all'improvvisazione un senso, una struttura, per quanto immaginaria. Insomma, devi far sì che tutto torni.

AAJ: Come ci diceva qualche tempo fa Giovanni Maier, far sì che non finisca tutto nel caos...

A.L.: Esattamente. E secondo me una cosa importante nell'improvvisazione libera è non avere fretta nel costruire qualcosa. È possibile trovarsi a suonare qualcosa che apparentemente non ci piace, che ci sembra non stia funzionando; ma in quei casi è importante non farsi prendere dall'emotività -cosa che può distrarre o peggiorare la situazione -e avere pazienza, credere in quello che stai facendo, ricordarsi che si tratta comunque di una tua creazione e che, perciò, uno sviluppo arriverà.

AAJ: In altre parole, comprendere meglio quello che sta venendo fuori dal tuo bagaglio artistico e dalla tua sensibilità.

A.L.: Esercitandomi da solo e simulando delle performance, mi rendo sempre più conto di quanto sia interessante anche alternare l'improvvisazione libera con quella sugli standard, due pratiche che non è necessario tenere sempre separate. Ho capito che mi è molto naturale anche riallacciarmi a degli standard nel corso dell'improvvisazione libera, facendo delle citazioni o delle brevi variazioni su un tema noto, emerso e poi riassorbito dal discorso che sviluppo in piena libertà.

AAJ: Questo è quel che fai con il piano. Ma tu suoni anche il violoncello!

A.L.: L'ho studiato seriamente per qualche anno e mi piacerebbe molto approfondirne la conoscenza. Non sono ancora riuscito a trovare il tempo, ma sono convinto che lo farò prima o poi.

AAJ: Anche questo desiderio fa parte della tua necessità di variare?

A.L.: No, sarebbe troppo! Diciamo che il fatto di utilizzare il violoncello all'interno di un brano o di un concerto può cambiare significativamente la situazione musicale, ma il mio interesse per il violoncello deriva soprattutto dal fascino stesso dello strumento.

AAJ: Tra le tante tue collaborazioni una che merita una menzione particolare è quella con Nico Gori, il suo è infatti un gruppo nel quale sei cresciuto.

A.L.: Mi ritengo molto fortunato di far parte di questo quartetto, per l'eccezionale sensibilità musicale dei propri componenti e per la forte amicizia che ci lega da diversi anni. Il modello stilistico del gruppo è mutato varie volte, c'è stato un periodo in cui uno spazio consistente era riservato all'improvvisazione collettiva che legava spesso i brani l'uno con l'altro, adesso siamo tornati a affrontare separatamente i diversi brani che mettiamo in scaletta, ponendoci l'obbiettivo di valorizzare il carattere distintivo di ogni composizione. È davvero divertente suonare in questo gruppo, forse anche perché Nico ha dei gusti personali molto forti e un'idea precisa della musica verso la quale ci indirizza, ma al tempo stesso rispetta le idee degli altri, cosicché io, Stefano Tamborrino e Gabriele Evangelista, con le nostre identità e idee, troviamo una strada personale in questo contesto.

AAJ: Hai intenzione di documentare il piano solo su disco?

A.L.: Ancora non lo so. Potrebbe essere, ma per il momento è poco più di un'idea. Purtroppo, poi, non ho molte occasioni di esibirmi in piano solo, forse perché molti non sanno neppure che faccio questo tipo di performance. Invece ho suonato molto con il mio trio, probabilmente anche a seguito dell'uscita dei nostri dischi. Con loro ho suonato recentemente anche in Cina, dove ho anche eseguito la Rapsodia in Blue con un mio arrangiamento per il trio delle parti solistiche del piano, per coinvolgere anche Matteo ed Enrico accanto all'orchestra. È stato un viaggio meraviglioso e pieno di avventure: siamo rimasti piacevolmente sorpresi dalla curiosità che sta sorgendo in questo paese nei confronti del jazz.

Foto
John Kelman

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