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Perico Sambeat: Ziribuye

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Non siamo molto pratici della lingua spagnola ma è ben strana la storia che ci racconta questo Ziribuje, quattordicesimo disco da leader del sassofonista valenciano Perico Sambeat. Quella di un popolo nomade, gli Zlot, destinati a muoversi da un pianeta all’altro per fuggire il fuoco stellare fino a quando tentano il grande salto in una altro sistema solare con esiti drammatici.

Dal punto di vista della musica, sicuramente più comprensibile, possiamo dire che questo sestetto composto interamente da musicisti spagnoli (ad eccezione dell’uruguaiano José Reinoso) suona con ottime scioltezza e fantasia, ben modellandosi al rigore scientifico che il suo leader usa per reinterpretare (rinnovare) la tradizione jazzistica approcciata con grande rispetto. Saranno pur evidenti i richiami stilistici del divino Miles ma è soltanto il primo nome che ci sovviene nell’universo musicale che ha influenzato la carriera del sassofonista che qui ha goduto di grande libertà, nella composizione, nella produzione e nell’infilare, con rilevante naturalezza, una caleidoscopica miscellanea di atmosfere sonore che catturano già dalle prime note.

Dopo l’introduzione del brano d’apertura, caratterizzato dall’atmosfera cristallina creata dall’organo di José Reinoso, salta subito all’orecchio il focoso dinamismo post hard-bop del brano seguente, con lo stesso pianista ad esibirsi in una forsennata ed ostinata corsa dissonante e nel quale spicca la voce dell’ottimo trombettista-flicornista Raynald Colom, per poi replicare con uguale intensità nella penultima traccia, l’incitante “Epicureo”. Tale dinamismo non riesce però a mettere in secondo piano la plastica espressività free jazz (Art Ensemble of Chicago?) del brano che dà il titolo al disco oppure l’apertura progressive di brani dalla contundente base ritmica e potenti riffs, come “Cyborg” dove il basso elettrico di Paco Charlin marca il ritmo in modo costante e ripetitivo.

Su di un versante opposto, la dolcezza e la sensualità di brani come “Rosa dels Vents” che si aggrazia della giovanissima voce di Elma Sambeat o altrove, la fluida eleganza del trombone di Toni Belenguer o ancora, il substrato mobile, tra musica classica e new age, sul quale si muove il flauto del leader in “Maya”. In zona neutra, l’aria di New Orleans nel riuscitissimo esercizio ludico di “Ni Mari Ni Hostias”.

Da qui si evince la ricchezza di colori e timbri (compaiono anche strani strumenti come il gorgovoice e il cosmovibes) di una formazione che sfodera un buon interplay a riprova che non necessitano i grandi nomi (Brad Mehldau, Kurt Rosenwinkel, Ben Street, Jeff Ballard) del disco precedente Friendship per replicare un altro buon risultato ed il nostro apprezzamento.


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