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Vicenza Jazz 2019

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Vicenza, varie sedi
9-19.05.2019

"Oltre le colonne d'Ercole, alla ricerca di una nuova luna": questo era il sottotitolo della ventiquattresima edizione di Vicenza Jazz, a significare viaggi per mare alla ricerca di continenti perduti o porti di salvezza, viaggi nello spazio alla conquista di pianeti lontani... o semplicemente viaggi nel frastagliato immaginario musicale. A questo proposito Riccardo Brazzale, inossidabile direttore artistico della rassegna, nella presentazione del catalogo afferma: "Il musicista è un uomo che viaggia, sempre. Quando non lo fa, sta pensando al prossimo viaggio... È il viaggio il vero scopo, non il punto d'arrivo."

Non è nostro intento indagare sull'attinenza a questo enunciato da parte delle singole proposte in programma. Piuttosto è il caso di rilevare che nelle serate finali della manifestazione è stato dato pieno significato all'altro suo sottotitolo programmatico: quello storico che tuttora persiste di "New Conversations." Si è provveduto a muovere le acque infatti, favorendo tre incontri inediti e coraggiosi fra protagonisti di primo piano del jazz attuale; tre prime assolute che hanno scardinato le certezze un po' prevedibili che hanno caratterizzato le prime giornate, sollevando la curiosità del pubblico e della critica. Appunto da questi appuntamenti partiamo per dare un sintetico resoconto di un festival primaverile, che sembrava però calato in un clima novembrino.

Il dialogo fra il pianoforte di David Virelles e la tromba di Ambrose Akinmusire è iniziato con passo felpato su note centellinate e prudenti, introducendo un lirismo macerato e intimista che ha permeato gran parte della performance. La presenza di spartiti, su cui erano fissate le coordinate di brani originali scritti per l'occasione, ha comunque caratterizzato dinamiche e atmosfere diverse, prevalentemente decantate, su tempi lenti e spesso introdotte da poche note del trombettista. Andamenti più tormentati hanno toccato apici visionari per poi ripiegare su graduali smorzamenti nei momenti conclusivi. Soprattutto, l'incontro fra questi nomi nuovi dell'attualità ha dimostrato una grande concentrazione e una simbiotica unità d'intenti, a cui hanno contribuito la ricercatezza formale e l'originalità del pianismo di Virelles e la lineare, elegante austerità dell'eloquio di Akinmusire, che a tratti ha ricordato l'approccio di Bill Dixon.

Più azzardata, per l'età dei musicisti chiamati a collaborare, per le loro diverse esperienze professionali e per i ben stagliati mondi espressivi, è risultata la combinazione fra maestri assoluti quali Enrico Rava, Michel Portal, Ernst Reijseger e Andrew Cyrille. Essi, senza aver prima concordato nulla, si sono inoltrati in una libera improvvisazione priva di punti di riferimento comuni. L'acustica del Teatro Olimpico e l'amplificazione, soprattutto nella prima parte del concerto, non hanno aiutato a cogliere appieno le intenzioni e l'orientamento del loro interplay.

Si è così snodato un percorso altalenante, con momenti di disagio comunicativo, di difficoltà a coagulare un discorso condiviso. Ben presto sono emerse la conduzione ritmica puntigliosa e frastagliata del batterista americano e la verve dinamica del violoncellista olandese. Sono stati loro i protagonisti della serata, in grado di costruire una mobile griglia portante in cui hanno tentato di inserirsi Rava e Portal, riuscendovi solo a tratti. I due fiati in particolare hanno stentato a interagire fra di loro: il flicornista italiano predisposto a brevi frasi melodiche e liriche, suggerendo anche telegrafici input risalenti a temi noti, il francese, al clarinetto basso, teso a ripercorrere i suoi spiritati e nervosi fraseggi. In definitiva si è avuta la prova che in un'improvvisazione collettiva i risultati non sono proficui se i singoli si limitano a sfoggiare le personali pronunce, pur pregevolissime, senza però mettersi in gioco.

La sera prima, nella suggestiva ambientazione del Cimitero Maggiore, nell'oscurità e nell'aria ferma di una mezzanotte risparmiata dalla pioggia, Ernst Reijseger è stato ospite del trio di Gabriele Mirabassi. I due non si erano mai incontrati in passato, ma la loro collaborazione ha funzionato come un sodalizio collaudato dalla consonanza di vedute e da anni di esperienza.

Il concerto si era aperto con il trio, completato da Nando Di Modugno e Pierluigi Balducci alle chitarre, impegnato nell'amato repertorio brasiliano, che ha incluso anche brani scritti dagli stessi interpreti italiani. Nel riproporre il "suo" Brasile, o meglio le diverse anime della musica brasiliana, il clarinettista di Perugia è stato come sempre sublime: il suo vertiginoso virtuosismo non ha escluso la poesia o lo sberleffo, esprimendo vari stati emotivi: la malinconia o l'allegria, la ponderata riflessione o la frenesia allucinata.

Con l'entrata in scena del violoncellista il clima non è molto mutato, pur cambiando totalmente il repertorio. Reijseger ha portato tre o quattro suoi brani, semplici tracce che profumavano di melodie antiche o danze popolari e che sembravano ideali per stimolare l'intervento dei partner. Se i due chitarristi sono stati più timidi nell'accettare l'invito, Mirabassi non ha mostrato timori reverenziali e si è lanciato in forbiti sviluppi dei temi, tramando vertiginosi scambi di battute con il violoncellista. La singolare performance ha irretito il numeroso pubblico presente, rivelandosi il vertice dei quattro giorni finali del festival.

Se questi incontri inediti hanno dunque costituito le produzioni originali del festival, a ben vedere rappresentava una novità assoluta anche la presenza del trio New Things di Franco D'Andrea, alla sua prima esibizione dopo poche prove distribuite in alcuni mesi. Nella sostanza l'approccio e il risultato non sono cambiati rispetto ad altre formazioni più ampie del pianista meranese. Si è teso cioè a raggiungere un interplay vivo, spontaneo, equilibrato, fatto d'interpunzioni e sollecitazioni reciproche nella più ampia libertà improvvisativa. Per ottenere un simile risultato, sicuramente concorrono alcune piccole regole condivise: in primo luogo, ovviamente, il reciproco ascolto; inoltre non debordare mai, non peccare di protagonismo; infine approdare a nuclei melodici, a ripetitive frasi ritmiche, a riff, intesi come isole di salvataggio o stimoli da sviluppare assieme. A questa impostazione si sono attenuti i nuovi partner di D'Andrea: l'esperto Enrico Terragnoli alle chitarre e il più giovane e motivato Mirko Cisilino alla tromba. Di passo in passo nel concerto vicentino si è arrivati anche alla rivisitazione di un paio di hit del jazz classico, intrecciandole fra loro con un atteggiamento euforico e distaccato al tempo stesso.

La presenza di un maestro riconosciuto come D'Andrea ha spiccato all'interno della Top Jazz Night, dedicata al miglior jazz italiano premiato dal referendum 2018 indetto dalla rivista Musica Jazz. Era presente anche Federica Michisanti, vincitrice nella sezione nuovi talenti. La contrabbassista romana, a capo del suo compatto Horn Trio, completato dal sassofonista Francesco Bigoni e dal trombettista Francesco Lento, ha riproposto la sua concezione in cui composizione e improvvisazione si compenetrano intimamente alla ricerca di una dimensione assieme magica e sperimentale.

Giocava in casa invece la Lydian Sound Orchestra diretta da Riccardo Brazzale, che ha vinto, e non era la prima volta, come miglior formazione italiana dell'anno. Al Teatro Comunale un solidissimo nonetto era affiancato da un ospite di peso come Ambrose Akinmusire. Il repertorio, in parte tratto dal precedente CD We Insist! , vincitore fra le edizioni discografiche, in parte nuovo e impostato sul tema del viaggio e dell'esplorazione, ha messo in evidenza soprattutto gli arrangiamenti poderosi e frastagliati, in cui si sono inserite le voci dei singoli solisti, in particolare quella eloquente e dinamica del trombettista ospite.

Il leitmotiv del viaggio, inteso questa volta come viaggio nel tempo all'interno dell'imprescindibile patrimonio jazzistico, non era estraneo alla serata di chiusura del festival al Teatro Olimpico. Il quintetto di Pietro Tonolo ha riproposto brani famosi di Lennie Tristano e Herbie Nichols, nella ricorrenza fra l'altro del centenario della loro nascita. La formazione era completata da Paolo Birro al pianoforte, Roberto Rossi al trombone e dal giovane contrabbassista Martino De Franceschi, da poco diplomatosi al Conservatorio "A. Pedrollo," dove Tonolo e Birro sono insegnanti. Alla batteria invece sedeva l'ospite spagnolo Jorge Rossy, che poco prima aveva presentato e guidato vari lodevoli gruppi, comprendenti i giovani allievi partecipanti al suo percorso didattico presso lo stesso Conservatorio.

Tristano e Nichols sono autori impegnativi, oggi giustamente rivalutati, da affrontare in modo adeguato e non scontato. Rispettosa ma non scontata si è rivelata la versione dei loro brani data da Tonolo e compagni (per esempio l'arrangiamento di "Lady Sings the Blues" era dovuto a Roberto Rossi). Sono prevalsi un'atmosfera di consapevole rimeditazione, un andamento compassato e calibrato, secondo una raffinatezza swingante di marca appunto cool. Non sono mancate però audaci complessità armoniche nei frequenti impasti fra tenore e trombone, eccentriche accelerazioni ritmiche e l'inserimento di mirati, pregevoli spunti solistici.

Si è trattato di una degna chiusura del festival insomma, tesa a rimarcare un ideale passaggio del testimone tra docenti e allievi della scuola vicentina.

Foto: Francesco Dalla Pozza.

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