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Vicenza Jazz 2018 - Prima Parte

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Vicenza Jazz
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10—20.05.2018

"The Birth of the Youth" era l'allusivo sottotitolo della ventitreesima edizione del festival vicentino, come sempre sotto la direzione di Riccardo Brazzale. Il tentativo, affrontato anche dalla grafica neo-psichedelica del manifesto e dai saggi di vari autori nel prezioso quaderno, era quello di celebrare il cinquantesimo anniversario del Sessantotto, o meglio di sottolineare come in quel periodo il rinnovamento del jazz, con l'affermazione del free e del jazz elettrico, abbia comportato uno svecchiamento decisivo del suo pubblico, introducendo nuove forme di approccio e di fruizione. Una recensione dei primi giorni del festival, dal 12 al 14 maggio, non può che mettere in evidenza l'alternanza fra nomi prestigiosi e formazioni storiche da un lato e nomi emergenti dall'altro, cercando connessioni reali o presunte fra di essi con risultati di un certo interesse.

Ascoltare la Sun Ra Mythic Dream Arkestra fra gli stucchi e le scenografie del cinquecentesco Teatro Olimpico fa una certa impressione. La formazione, fin dal 1995 nelle mani dell'arzillo novantaquattrenne Marshall Allen, è un organico di una dozzina di elementi, che comprende attempati protagonisti del passato. Quello che oggi l'Arkestra propone è una sorta di compendio di un'intera tradizione nero-americana, di una parte della storia del jazz sviluppatasi dalle origini agli anni Settanta. Emergono precisi riferimenti a Fletcher Henderson, a Duke Ellington, a Monk e ovviamente al fondatore Sun Ra: nel repertorio proposto e ancor più nel modo di concepire e riproporre il senso del blues, il sound e l'improvvisazione collettiva, le esasperazioni armoniche e timbriche, i riff e le reiterazioni, lo stride piano, la deambulazione processionale e il ricorso alla danza, le accensioni percussive... Un'autocelebrazione orgogliosa e rituale viene condotta con un grado relativo di disciplina e di convinzione, ma anche questo atteggiamento fa parte delle regole del gioco. Nei due concerti al Teatro Olimpico, soprattutto nelle parti finali, non sono comunque mancati momenti di empatica coesione e ipnotica comunicazione.

La sera di sabato 12 in Piazza dei Signori lo spirito di Sun Ra è stato idealmente evocato da due formazioni europee, nel segno, come si legge nel catalogo, della "grande festa, della musica, della condivisione e dello stare insieme, proprio come negli storici raduni all'aperto di cinquant'anni fa." In realtà, rispetto alle proposte decisamente popolari e di forte richiamo di altri anni, i due gruppi presentati hanno manifestato una qualità e un'articolazione jazzistica maggiore, ricca di sfumature che non hanno potuto essere colte appieno nella rumorosità della piazza.

Nella francese Thomas de Pourquery & Supersonic si affiancano due sax carichi di foga espressiva: il contralto del leader e il tenore di Laurent Bardainne. Ad essi si è aggiunto l'ospite Gianluca Petrella, capace di inserire i colori adeguati. L'esuberante drumming di Edward Perraud sembra avere una presenza e un ruolo analoghi a quelli ricoperti un tempo dal dimenticato Pierre Courbois nel Waterland Ensemble di Loek Dikker e in altri sodalizi importanti. Una musica basata su idee melodiche semplici e d'impatto, che si prestano a una reiterazione visionaria, ma che a tratti si arena in momenti di decantazione, in soste, in cambi di direzione.

Ancor più organica, insinuante e raffinata è risultata la musica dell'ottetto italo-africano Odwalla, complesso di strumenti a percussione integrato dalla voce di Gaia Mattiuzzi e in alcuni brani dalle congeniali movenze di una coppia di danzatori. Fasi toniche, in cui le poliritmie sono state sorrette da precise linee melodiche disegnate da vibrafono e marimba, si sono alternate a delicati e sognati intimismi o a orgiastici addensamenti percussivi.

Di pura caratura jazzistica, come prevedibile, è risultata l'apparizione del Joe Lovano & Dave Douglas Quintet, gruppo attivo dal 2011. Nell'ultima tappa del loro tour, che seguiva di poco la pubblicazione del secondo album Scandal su brani dei due co-leader e di Wayne Shorter riarrangiati, la formazione ha messo in evidenza innanzi tutto l'interrelazione dei due fiati e i loro spunti individuali. La personalità del sassofonista ha svettato per la ricchezza della sua pronuncia, per il sound ora cavo e sdrucciolevole ora potente, per il fraseggio per lo più divagante, ma all'occorrenza affermativo. Il trombettista, non amplificato al meglio, si è imposto in avvincenti progressioni sui tempi medio-veloci. Sempre più autorevole la presenza di Linda May Oh Han, il cui pizzicato è oggi gestito con sapienza, inventiva e partecipazione. Se il drumming di Joey Baron è ormai un classico dall'impronta magistrale e variegatissima, che non ci si stancherebbe mai d'ascoltare, il pianismo di Lawrence Fields è parso fin troppo rifinito, quasi sofisticato, ma senza un piglio memorabile. Nel complesso da questi notevoli strumentisti è risultato un jazz autentico, un mainstream di oggi, elegante e calibrato con intelligenza e sensibilità, anche se privo di particolari innovazioni e rischi eccitanti.

In un cartellone in cui tutto sommato prevaleva l'ortodossia jazzistica, pur nelle variegate espressioni dell'attualità, una serata anomala e interessante è stata quella che ha visto il ritorno nella sala palladiana dell'Orchestra del Teatro Olimpico sotto la conduzione del suo direttore principale, il pianista Alexander Lonquich. Un appuntamento quindi tutto improntato alla più riconosciuta musica "colta," anche se il repertorio era tutto incentrato su autori per lo più del Novecento e su composizioni influenzate in qualche misura dal jazz. Lonquich più che in veste di pianista si è imposto come simpatico e dotto presentatore, oltre che come direttore di polso. Il gradevolissimo concerto si è aperto con la "Suite dall'Opera da tre soldi," in cui Kurt Weill ha fatto sua la sfrontatezza tutta berlinese della musica di consumo di quel periodo. La motivata e giovanile formazione ha reso il puntiglio, la leggiadria e l'esasperazione espressionista insite nella partitura. Ha fatto seguito l'esecuzione di brani altrettanto famosi: nel "Tango" di Igor Stravinskij, nella versione per solo piano, Lonquich ha messo in evidenza il rigore e la deformazione di stampo cubista con cui Stravinskij ha trattato questo genere musicale. Dell'immancabile "Ebony Concerto" si è sottolineato l'andamento pluridirezionale e la mancanza di un centro preciso, mentre di "La Création du monde" di Darius Milhaud, che ha chiuso la serata, sono stati messi in evidenza la coloriture cangianti e il vociante esotismo.

Di questo concerto, frequentato fra l'altro da un pubblico in parte diverso da quello del circuito jazzistico, vale la pena di soffermarsi su un paio di composizioni di rarissima esecuzione. L'orditura di certo jazz e del minimalismo è ben presente nei frenetici intrecci di "Techno-Parade," per piano, flauto e clarinetto, scritto nel 2002 dall'allora trentaduenne compositore francese Guillaume Connesson. Di Morton Gould, autore americano troppo poco eseguito, è stato opportunamente riproposto "Derivation for Solo Clarinet and Dance Band," i cui impasti armonici sembrano protendersi verso il Cool Jazz. La contrastata singolarità dell'opera ha trovato una smagliante interpretazione da parte dell'orchestra e del clarinettista Tommaso Lonquich, figlio del pianista.

Foto di Francesco Dalla Pozza.

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