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Uri Caine Plays Verdi
Uri Caine Plays Verdi
Festival Verdi
Teatro Farnese
Parma
29-30.10.2016
Cronaca di un evento che ha lasciato un po' di amaro in bocca. La presenza del jazz nei circuiti della musica classica non è certo una novità. Anche recentemente c'è stata più di un'occasione per sondare le ragioni e gli esiti di tali incroci estetici e dei relativi sconfinamenti organizzativi. Sta di fatto, però, che talvolta ci si trova di fronte ad operazioni un po' occasionali, messe a punto senza la dovuta motivazione e puntigliosità. È stato il caso della presentazione di un programma verdiano da parte dell'Uri Caine Ensemble a chiusura del Festival Verdi, protrattosi per l'intero mese di ottobre.
Innanzi tutto l'allestimento per la sezione di concerti tenutasi al Teatro Farnese, eretto a cominciare dal 1618 su progetto di Giovan Battista Aleotti e poi ricostruito dopo i danneggiamenti subiti nella seconda Guerra Mondiale, prevedeva un ribaltamento della prospettiva e dei ruoli fra pubblico e interpreti. Vale a dire che per l'occasione una gradinata con poltroncine rosse è stata montata partendo dalla platea e spingendosi in profondità all'interno del palcoscenico, mentre gli esecutori venivano ospitati dall'originaria platea con alle spalle il coronamento del porticato su due ordini a fare da nobile sfondo. Non si tratta per il Farnese di un espediente nuovo e probabilmente risponde a precise esigenze, ma sicuramente, almeno nel concerto in oggetto, l'acustica non ne ha tratto beneficio. Essendo tutto il complesso costruito in legno, non si sono verificati problemi di riverbero, ma anzi, pur ricorrendo ad una bassissima amplificazione, il suono è risultato molto "magro," distante, ovattato. Che sia dipeso anche dal fatto che il pubblico non riempiva il teatro?
In secondo luogo è stato carente l'aspetto dell'informazione: non era in distribuzione nessun tipo di programma di sala che fornisse chiarimenti sull'origine del progetto, sulla formazione in scena e sul repertorio. Assai difficile quindi è stato individuare le pagine verdiane, se si escludono alcuni riconoscibili spunti tematici nella parte finale, distinguendole dagli eventuali original scritti da Caine per l'occasione. Il che ha poche giustificazioni considerato che l'improvvisazione ha avuto un peso relativo e che l'indispensabile elaborazione da parte dell'autore si è tradotta in partiture distribuite a collaboratori non abituali, quali i membri del quintetto d'archi di formazione classica, composto da strumentisti italiani. Quello che si è potuto rilevare è stato soprattutto un articolato intreccio, una sovrapposizione o un alternarsi fra le parti del trio jazz, completato da Mark Helias e Jim Black, e quelle appunto del quintetto d'archi.
In definitiva non è emerso lo spirito della musica verdiana, ma non si è propeso nemmeno per un'impronta spiccatamente jazzistica; si è privilegiata invece una dimensione cameristica un po' accademica e uniforme, senza una particolare verve, se si esclude qualche brioso sussulto di Jim Black, alcuni brevi interventi di raccordo da parte del leader e il pregevole raddoppio dei contrabbassi (Helias e Rino Braia). Inoltre in qualche frangente l'uso del violino può aver fatto balenare una reminiscenza ebraica, ricordando vagamente Wagner e Venezia. Un po' poco per un progetto ambizioso, presentato in esclusiva da un festival di prestigio.
Foto: Roberto Ricci
Festival Verdi
Teatro Farnese
Parma
29-30.10.2016
Cronaca di un evento che ha lasciato un po' di amaro in bocca. La presenza del jazz nei circuiti della musica classica non è certo una novità. Anche recentemente c'è stata più di un'occasione per sondare le ragioni e gli esiti di tali incroci estetici e dei relativi sconfinamenti organizzativi. Sta di fatto, però, che talvolta ci si trova di fronte ad operazioni un po' occasionali, messe a punto senza la dovuta motivazione e puntigliosità. È stato il caso della presentazione di un programma verdiano da parte dell'Uri Caine Ensemble a chiusura del Festival Verdi, protrattosi per l'intero mese di ottobre.
Innanzi tutto l'allestimento per la sezione di concerti tenutasi al Teatro Farnese, eretto a cominciare dal 1618 su progetto di Giovan Battista Aleotti e poi ricostruito dopo i danneggiamenti subiti nella seconda Guerra Mondiale, prevedeva un ribaltamento della prospettiva e dei ruoli fra pubblico e interpreti. Vale a dire che per l'occasione una gradinata con poltroncine rosse è stata montata partendo dalla platea e spingendosi in profondità all'interno del palcoscenico, mentre gli esecutori venivano ospitati dall'originaria platea con alle spalle il coronamento del porticato su due ordini a fare da nobile sfondo. Non si tratta per il Farnese di un espediente nuovo e probabilmente risponde a precise esigenze, ma sicuramente, almeno nel concerto in oggetto, l'acustica non ne ha tratto beneficio. Essendo tutto il complesso costruito in legno, non si sono verificati problemi di riverbero, ma anzi, pur ricorrendo ad una bassissima amplificazione, il suono è risultato molto "magro," distante, ovattato. Che sia dipeso anche dal fatto che il pubblico non riempiva il teatro?
In secondo luogo è stato carente l'aspetto dell'informazione: non era in distribuzione nessun tipo di programma di sala che fornisse chiarimenti sull'origine del progetto, sulla formazione in scena e sul repertorio. Assai difficile quindi è stato individuare le pagine verdiane, se si escludono alcuni riconoscibili spunti tematici nella parte finale, distinguendole dagli eventuali original scritti da Caine per l'occasione. Il che ha poche giustificazioni considerato che l'improvvisazione ha avuto un peso relativo e che l'indispensabile elaborazione da parte dell'autore si è tradotta in partiture distribuite a collaboratori non abituali, quali i membri del quintetto d'archi di formazione classica, composto da strumentisti italiani. Quello che si è potuto rilevare è stato soprattutto un articolato intreccio, una sovrapposizione o un alternarsi fra le parti del trio jazz, completato da Mark Helias e Jim Black, e quelle appunto del quintetto d'archi.
In definitiva non è emerso lo spirito della musica verdiana, ma non si è propeso nemmeno per un'impronta spiccatamente jazzistica; si è privilegiata invece una dimensione cameristica un po' accademica e uniforme, senza una particolare verve, se si esclude qualche brioso sussulto di Jim Black, alcuni brevi interventi di raccordo da parte del leader e il pregevole raddoppio dei contrabbassi (Helias e Rino Braia). Inoltre in qualche frangente l'uso del violino può aver fatto balenare una reminiscenza ebraica, ricordando vagamente Wagner e Venezia. Un po' poco per un progetto ambizioso, presentato in esclusiva da un festival di prestigio.
Foto: Roberto Ricci