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Umbria Jazz Winter 25

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Umbria Jazz Winter 25
Varie Sedi
Orvieto
28.12.2017—01.01.2018

Raggiunto il traguardo dei venticinque anni, come sempre Umbria Jazz Winter con la sua programmazione in ogni ora del giorno ha invaso le strade e i vari ambienti pubblici e privati della città tufacea, registrando una notevole affluenza di pubblico, che nella scorsa edizione aveva in parte disertato per la preoccupazione del terremoto.
Quest'anno a Orvieto sono risultate indubbiamente di elevato rilievo e di spiccata attualità le presenze americane, che hanno avuto modo di esibirsi in più concerti organizzati in luoghi e orari diversi. Questa prassi, che si rivela da anni una scelta qualificante della manifestazione umbra, da un lato permette agli esecutori di mettere a punto e verificare i meccanismi dell'interplay, dall'altro consente agli ascoltatori più curiosi di seguire più di una performance dello stesso gruppo, ricevendo percezioni e impressioni di volta in volta leggermente diverse. Ma non sono certo mancati i rappresentanti del jazz italiano, in particolare di quella corrente più accattivante e comunicativa che guarda al pop, ottenendo, in accordo con il clima festoso dei giorni intorno a Capodanno, il favore di una larga parte del pubblico.

È riuscita un'operazione intelligente, in quanto non filologica e reverenziale, bensì aperta e motivata, quella dedicata da Jason Moran a Thelonious Monk nel centenario della nascita. La prima italiana del progetto "In My Mind: Monk at Town Hall 1959" ha fatto rivivere stravolgendolo il famoso concerto del 28 febbraio 1959, avvalendosi di una formazione di tutto rispetto: Logan Richardson al contralto, Walter Smith III al tenore, Ralph Alessi alla tromba, André Heyward al trombone Bob Stewart alla tuba, Tarus Mateen al basso elettrico, Nasheet Waits alla batteria, oltre al leader al piano.
Le partiture erano disposte sul pavimento, fornendo una lontana traccia da consultare solo all'occorrenza; i temi di Monk rimanevano, ma rielaborati da head arrangements creativi. L'idea di Moran sembrava piuttosto voler risalire alle matrici sociali del mondo monkiano, all'ambiente agricolo e ancestrale del periodo schiavista o a quello domestico più privato e accogliente. La pulsante impostazione collettiva della musica ha compenetrato le voci e gli interventi dei singoli, pur mettendo in evidenza di volta in volta gli spazi solistici, in particolare quelli dello stesso Moran, il cui pianismo ha confermato un impianto tutt'altro che monkiano.
Alle spalle degli esecutori, un video del quale il programma non indicava l'autore si basava sull'elaborazione di poche e sbiadite immagini d'epoca in bianco e nero, costituendo un commento non indispensabile, pur fornendo messaggi complementari alla musica. Non sempre le soluzioni sono risultate graficamente e ritmicamente pertinenti; a tratti hanno anzi affaticato la percezione del flusso musicale.

Marc Ribot, resident artist di questa edizione del festival, ha sostenuto otto concerti in quattro giorni alla testa di due diverse formazioni, confermandosi leader autorevole oltre che chitarrista dalla personalità espressiva unica. Il suo trio con Henry Grimes e Chad Taylor si presenta come la contrazione del quartetto Spiritual Unity dedicato alla musica di Albert Ayler. La diteggiatura quasi rattrappita di Ribot, col fisico accartocciato sulle sue chitarre, ha distillato in apertura dei concerti note puntigliose e reticenti, per poi tonificarsi e dare continuità e vigore a un eloquio convinto e infervorato. Le linee da lui dettate, dinamiche ancor prima che tematiche, hanno indirizzato il contributo dei due partner, compagni di strada motivati e personali.
Sempre volitivo e incalzante Taylor, anche se il suo drumming pervadente a tratti è sembrato fin troppo presente e continuo. Dal canto suo l'ottantaduenne contrabbassista (partner dell'imprescindibile Ayler negli anni Sessanta), pur afflitto da evidenti problemi fisici, ha dimostrato una sorprendente lucidità armonica e dinamica nel reagire di volta in volta agli stimoli del leader. Ne è risultata un'improvvisazione intensa e unitaria, carica d'inflessioni bluesy e popular, in cui si sono intrecciati Ayler e il punk, concretezza folk e free visionario, amore per il passato e orgoglio innovativo.

Anche alla testa di The Young Philadelphians, anomala formazione che aggrega un trio d'archi a un quartetto jazz, Ribot ha perseguito una personale e decisa sintesi fra passato e presente. In particolare la matrice free funk debitrice al Prime Time di Ornette Coleman è risultata evidente non solo nell'utilizzo di alcuni temi colemaniani, ma soprattutto nelle circostanze prodotte dal lavoro dei monolitici e tellurici Calvin Weston e Jamaaladeen Tacuma, ex componenti appunto di quel gruppo di Coleman. Lo stesso leader peraltro, la cui chitarra sembrava impossessarsi del ruolo che fu di James Blood Ulmer, ha tracciato accordi forsennati e lancinanti. Al suo fianco la "spalla" Mary Halvorson è stata molto attenta sui modi e sui tempi dei suoi interventi, elaborando un fraseggio complementare, più liquido e surreale.
Si è perfettamente inserito inoltre il trio d'archi; i violinisti Max Haft e Sabine Akiko Arendt e il violoncello di Nathan Bontrager, tutti europei, erano impegnati ora a distendere temi melodici all'unisono, ora a intrecciare una scabra improvvisazione collettiva, ora a emergere in assoli funzionali. Si sono così concretizzati un contesto estremamente denso e saturo, ma opportunamente sfaccettato, un intimo affiatamento capace di generare situazioni energiche e coese. L'unico limite di questa musica è stato quello di far rimpiangere la mancanza della voce irripetibile, lirica e argentina, dell'ultimo Ornette.

Fra le presenze americane, c'era attesa per una cantante al suo esordio italiano, ma le sue cinque apparizioni in spazi diversi hanno in parte deluso. Ventisei anni, texana, vincitrice due anni fa del Thelonious Monk Jazz Competition e ancor prima del Sarah Vaughan Jazz Vocal Competition: su Jazzmeia Horn (non è un nome d'arte ma di battesimo), come su tutte le cantanti, si focalizzano le aspettative eccessive e interessate del mercato jazzistico. In America ci si è affrettati a definirla "nuovo astro della vocalità jazz," ma in realtà le grandi protagoniste non spuntano a cadenza annuale. Negli ultimi anni si è già imposta Cecile McLorin Salvant, figura carismatica di classe indiscutibile, e probabilmente dovremo pazientare ancora molto per vedere sorgere la prossima autentica stella del canto jazz.
Quanto alla Horn sembra mettersi d'impegno a eccedere in tutto: in un'intonazione sgrammaticata, in citazioni quasi parodistiche (per esempio di Billie Holiday), in sovracuti spigolosi, nel ricorso dall'inizio alla fine del concerto a uno scat schizofrenico... A Orvieto la cantante ha sciorinato una spettacolarità sopra le righe, un'esuberanza inventiva d'imprevedibile discontinuità; un approccio quindi che necessita di essere decantato e depurato per raggiungere una personale sintesi espressiva.

Un'altra cantante, questa volta ben nota e italiana, era ospite residente a Umbria Jazz Winter, avendo avuto la possibilità di esibirsi in tre progetti mirati alla testa di tre diverse formazioni. In uno di questi Maria Pia De Vito, assecondata da Julian Oliver Mazzarriello ed Enzo Pietropaoli, trio corroborato da oltre un decennio di attività, ha affrontato un partecipato quanto azzardato omaggio al mondo e al personaggio di Joni Mitchell. Senza inoltrarsi in confronti con gli originali, si è rivelata assai apprezzabile la sua misura interpretativa alla ricerca di una naturalezza di pronuncia, di un colloquiale senso narrativo, di un'interiore adesione allo spirito dell'autrice americana. Questo soprattutto nei brani più lenti e intimistici, mentre l'esposizione si è increspata quel tanto che basta sui tempi più mossi e sui testi più polemici o problematici.
La performance è stata impreziosita dal contributo assai più che pertinente di Mazzarriello, con la delicata e insinuante fantasia della sua diteggiatura, e di Pietropaoli, che con la morbidezza del suo pizzicato ottiene un successo personale ogni volta che si esprime in simili contesti.

Per finire veniamo agli altri esponenti della "linea italiana nel jazz" che ho potuto ascoltare; bisogna ammettere che quest'anno sono stati loro a portare al festival le proposte più popolari, festose, a volte edulcorate e carezzevoli. Oltre alle immancabili scorribande nel centro storico dei simpatici "toscanacci" del Funk Off, collaudata presenza ormai da molti anni sia a Orvieto che a Perugia, il ricostituito quartetto The Licaones, con Francesco Bearzatti e Mauro Ottolini, ha esposto una comunicativa estroversa con svariati riferimenti al passato, carica di verve e ironia, anche se indubbiamente di grana un po' grossa.
Gino Paoli, sostenuto dal gusto raffinato dell'insostituibile Danilo Rea e in alcuni brani anche dagli arabeschi della tromba ospite di Flavio Boltro, si è inoltrato con consumata sapienza interpretativa in un nostalgico ripasso della canzone cantautorale italiana, di quella francese e di altro ancora, mentre al Museo Greco, nel suo nuovo progetto solitario "Planet Earth," Giovanni Guidi ha rivisitato temi di varia origine culturale con una vena prevalentemente romantica, rapsodica e seducente, senza quei cambi di direzione o di umore di altre occasioni passate.

Guidi, assieme a Francesco Bearzatti e a Michele Rabbia, era anche uno dei membri di un trio paritario alla sua prima apparizione. Pur trattandosi d'improvvisazione assoluta su un labile canovaccio di brani e senza il supporto di spartiti, il loro approccio ha determinato una sequenza di situazioni interpretative concatenate, in cui l'aspetto narrativo e melodico ha avuto un peso determinante. La rilettura di "Prelude To A Kiss" ha preso una piega perfino parodistica per via soprattutto delle inflessioni del tenorista, volutamente retró e astutamente insinuanti.
In definitiva abbiamo assistito a un modo attuale, d'impronta tipicamente jazzistica e italiana, di concepire l'improvvisazione, in cui il tipo di pronuncia e d'interplay, il protagonismo dei solisti e l'aderenza tematica tornano a prevalere su quella dimensione collettiva, quell'alternanza di strutture e dinamiche, quella ricerca timbrica che caratterizzano altre esperienze dell'improvvisazione europea, spesso più stimolanti.

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