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Umbria Jazz Winter 23

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Orvieto
30.12.2015-03.01.2016


Per certi aspetti abbiamo assistito a un'edizione in tono minore per Umbria Jazz Winter, soprattutto dal punto di vista dell'originalità dell'offerta. Esasperando una formula vincente già sperimentata in passato, quasi tutti i protagonisti invitati, quelli di maggior richiamo come i nomi meno noti, sono stati ospitati "in residenza" e proposti a più riprese in sedi diverse, talvolta con progetti differenti. Nonostante questa ripetitività, la maggior parte dei concerti hanno registrato il tutto esaurito e il pubblico ha dimostrato di gradire le proposte. Se questo è l'obiettivo principale degli organizzatori, ben venga che sia stato raggiunto, magari contenendo le spese per gli ingaggi. I numeri danno ragione di questa impostazione: quindicimila biglietti venduti nei centoventi concerti, con un incasso di oltre trecentomila euro.

Appuntamento fisso al Museo Greco, a mezzogiorno e alle diciotto per quattro giorni consecutivi, era quello con il chitarrista brasiliano Romero Lubambo, trasferitosi nel 1985 a New York dove ha avuto modo di maturare la sua esperienza al fianco di vari protagonisti del jazz. Il mondo chitarristico di Lubambo ha nel suo DNA tutta la cultura brasiliana, e da essa parte, ma il contatto con altri generi musicali gli ha permesso di acquisire una composita complessità armonica e dinamica, che gli permette di spaziare in più direzioni con sviluppi dall'indubbio fascino.

Già presente ad Orvieto un paio d'anni fa, il duo Steve WilsonLewis Nash, formatosi nel 2001 poi consolidatosi fino a giungere all'edizione di un disco live, nei quattro concerti sostenuti al Teatro Mancinelli ha confermato la sua congenialità e coesione. Nella conduzione ritmica di Nash, leggera ed elegante, la batteria viene concepita in una dimensione compositiva e melodica, esprimendo una swingante qualità narrativa. La sua arte batteristica si coniuga perfettamente con i sax, alto e soprano, di Wilson, il cui fraseggio, fra variazioni armoniche e ponderate discontinuità, è corroborato da un sound fermo, pulito e pieno, che sembra quasi assunto dalla musica classica. In un repertorio comprendente brani di Ellington, Waller, Silver, Coleman, Coltrane, Monk e Gillespie, è stato inserito anche un original di Wilson dedicato a Ron Carter e Jimmy Giuffre, rivelando così uno dei precedenti più attendibili della sua pronuncia sassofonistica.
La raffinata musica del duo ha rappresentato una personale e mirata sintesi della storia del jazz, oltre che una delle proposte di più elevata caratura jazzistica di questa edizione del festival, anche se la loro accurata rifinitura della forma talvolta ha rischiato di slittare verso un accademismo estetizzante.

Kurt Elling si è invece esibito in due diversi progetti. Una produzione originale del festival ha celebrato il centenario della nascita di Frank Sinatra attorniando il vocalist di Chicago e il suo abituale quartetto con un'orchestra comprendente alcuni dei migliori fiati attivi in Italia. Sono state così rinverdite alcune hit del repertorio di The Voice, riprendendo gran parte degli arrangiamenti originali di Nelson Riddle.
Se la presenza scenica del quarantottenne cantante non è apparsa molto variata, come pure la sua motivazione e il suo approccio interpretativo, non si può dire che le sue doti vocali siano state paragonabili a quelle di altre recenti apparizioni: la pronuncia si è rivelata leggermente impastata, la sua agilità di modulazione un po' appesantita e soprattutto quella proverbiale malizia, confidenziale e allusiva, venata d'ironia e ricca di inflessioni eccentriche, non ha posseduto lo stesso smalto contagioso di altre occasioni. Il tono della performance è andata comunque crescendo fino a sfociare in una tonica e swingante versione di "The Lady Is a Tramp."

Non poco diversa e ben più convincente è risultata l'apparizione del quartetto di Elling con Rosario Giuliani come ospite speciale in alcuni brani. Differente innanzi tutto il repertorio, che sotto il titolo "Passion World" ha raccolto una selezione di canzoni d'amore di tutto il mondo. Prese così le distanze dall'ufficialità celebrativa della sera prima, rispettosa e un po' ingessata, la voce del protagonista ha dispiegato un'intonazione piena, un'emissione solida e affermativa, dipanando un'esibizione divertita e divertente. Fra scat e sospensioni, fra impennate e pigri ripensamenti, Elling ha modulato le cadenze enfatiche e sfrontate della pop star consumata, catturando l'adesione del pubblico.
Quando chiamato in scena, Giuliani si è inserito senza difficoltà nel tessuto tramato con smaliziata perizia dai partner abituali del cantante, incastonando quattro esemplari assoli, in cui il veloce fraseggio del suo contralto ha costruito trascinanti parabole emotive.

Il sassofonista romano è stato anche l'animatore di un altro doveroso omaggio: quello tributato a Ornette Coleman da The Golden Circle, quartetto completato da Fabrizio Bosso, Enzo Pietropaoli e Marcello Di Leonardo. Questa proposta, già su disco, venne concepita quando il sassofonista texano era ancora in vita; opportunamente è stata ripresa oggi che il grande maestro ci ha lasciati. Il nome del quartetto paritario è stato tratto dalla storica esperienza del trio di Ornette del 1965, documentata su disco, anche se la formazione ricalca evidentemente il quartetto pianoless della fine degli anni Cinquanta. Anche il repertorio ripropone le emblematiche composizioni ornettiane di quel periodo, fra le quali sono stati inseriti pochi original, come un brano intimista di Pietropaoli dedicato a Ed Blackwell e l'omonimo, perentorio "The Golden Circle" di Giuliani.
Quello che ha colpito nei loro due set al Palazzo del Popolo sono state la finalizzata compattezza degli intenti che ha guidato l'interplay, l'esecuzione puntigliosa e senza sbavature degli arrangiamenti, dovuti prevalentemente al sassofonista, le calde, vibranti sortite dei solisti. Da sottolineare a tale proposito il virtuosismo tecnico e l'ardito disegno strutturale dei due fiati della front line, quasi in competizione fra loro. Magistrale inoltre l'introduzione del contrabbassista a "Lonely Woman," brano struggente come pochi altri dedicato a Natalie Cole scomparsa proprio il 31 dicembre.

Un altro protagonista del nostro jazz, Paolo Fresu, ha avuto l'opportunità di presentare il frutto di due insolite collaborazioni. In due serate al Mancinelli ha riproposto la colonna sonora scritta nel 2013 per il film "Vinodentro" di Ferdinando Vicentini Orgnani, tratto da un singolare romanzo breve di Fabio Marcotto, oscillante fra una vena onirico-surreale e intenti parodistici. Già su disco Tuk, a Orvieto la partitura è stata interpretata dallo stesso autore, da Marco Bardoscia al contrabbasso e dal bandoneon di Daniele di Bonaventura, responsabile anche degli arrangiamenti che hanno coinvolto la puntuale Orchestra da Camera di Perugia, salita per la prima volta su un palcoscenico di Umbria Jazz.
Da un'atmosfera mediterranea serena e un po' malinconica, che sembrava rievocare gli anni Cinquanta, si è passati ad un tango stralunato, a noti temi di Fresu eseguiti anche in altri contesti, a due arie tratte dal "Don Giovanni" di Mozart e tradotte nella versione per orchestra d'archi, ad un mosso, esotizzante episodio per trio... Nell'insieme sono emersi un carattere composito ma concatenato, un affresco sfaccettato, dai colori ora pastello ora più foschi, dai sotterranei rimandi interni... Una musica da immaginare appunto in senso filmico, anche se per assurdo è probabile che assistendo al film si percepiscano con maggiore difficoltà la continuità e la presenza del commento sonoro. Particolarmente riuscita l'elaborazione per orchestra d'archi, tromba e contrabbasso solisti, del famoso "Fellini" di Fresu, proposto come bis.

A questo punto è il caso di registrare un fenomeno di costume, un'alterazione della fruizione concertistica per via dell'uso sempre più diffuso e indiscriminato degli smartphone et similia: si scattano maldestramente migliaia di foto, anche col flash, si traffica continuamente con gli schermi luminosi per consultazioni compulsive di qualsiasi genere d'informazioni e per condividere l'evento con chi non è presente... tutto fuor che rilassarsi e farsi guidare dal flusso musicale. A un concerto di musica classica può capitare che il vostro vicino di posto sia in perenne agitazione col suo smartphone? Penso di no; il che la dice lunga su quanto il jazz venga tuttora considerato musica d'intrattenimento anziché musica d'arte.
In molte occasioni si crea così un vero e proprio inquinamento motorio, luminoso e acustico che esaspera chi vorrebbe condizioni d'ascolto tranquille nei limiti del possibile. Fino a pochi mesi fa prima dei concerti si raccomandava di spegnere i cellulari; oggi non solo tale raccomandazione è diventata superflua, ma l'uso degli smartphone elude qualsiasi controllo. Lo so, il mio è un discorso retrò e astioso, che contrasta con la teoria darwiniana dell'evoluzione: sopravvive chi meglio riesce ad adattarsi alle mutazioni ambientali. Per questo vedo il mio futuro di assiduo frequentatore di concerti jazz sempre più penoso e minacciato.

Questa digressione ci porterebbe molto lontano se si sviluppasse il ragionamento sulla natura del jazz e le sue peculiarità, sul rapporto fra musica, pubblico e spazi concertistici in relazione ai diversi generi e periodi storici del jazz e alle possibilità tecnologiche della comunicazione. In questa occasione essa è scaturita dalla necessità di recensire il concerto, il primo in assoluto, che ha visto il collaudato duo Fresu—di Bonaventura allargarsi a trio con l'inserimento del contrabbassista pugliese Marco Bardoscia. Il sottoscritto infatti non ha avuto condizioni di sufficiente serenità e concentrazione per recepire e godersi tutte le sfumature di una musica poetica, tutt'altro che esteriore e dalle tinte forti.
In sintesi si può comunque affermare che la ripresa del repertorio del disco In Maggiore, inciso dal duo per la ECM, oltre che confermare la grande empatia tra Fresu e di Bonaventura, accomunati da una sensibilità non comune, ha palesato un diverso trattamento dinamico, timbrico e strutturale grazie alla misurata efficacia del contributo di Bardoscia.

La sera del 3 gennaio la chiusura del festival al Teatro Mancinelli con Jarrod Lawson & The Good People non è stata delle più esaltanti. Sostenuto dal suo trio e da due marginali voci femminili, l'emergente cantante bianco, nato nel 1976 a Portland (Oregon) e influenzato da Stevie Wonder, ha ammannito i suoi original con voce carezzevole, fra falsetti e languori, accompagnandosi opportunamente col piano sul quale ha dimostrato una buona preparazione. Una musica quella di Lawson, esibitosi altre quattro volte in questa edizione del festival, apprezzabile per la pacatezza dell'impronta e l'onestà di fondo nell'adesione a una certa tradizione, ma di originalità e spessore assai modesti.

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