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Umbria Jazz 14 - Fra spettacolo e buon jazz

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Umbria Jazz 14
Perugia, varie sedi
11-20.07.2014

Lo spettacolo

"Divertimentificio," "Industria del divertimento": orribili neologismi, coniati anni orsono poi caduti in disuso, per denotare una delle vocazioni trainanti dei centri balneari della costa romagnola. Anche Umbria Jazz, per buona parte della sua programmazione, è tesa a creare divertimento e spettacolo, occasioni di eccitazione collettiva e di aggregazione giovanile. Con un'opportuna offerta musicale e con ottimi risultati il festival dà quindi una risposta a esigenze socio-antropologiche primarie.

In questo spirito sono quindi pienamente giustificate tutte le esibizioni gratuite nel centro storico, lungo Corso Vannucci e nelle piazze alle sue estremità, ed anche molte delle serate nella capiente Arena Santa Giuliana: le due notti "Funk & Fun," il Techno- logical Dance Music Festival che, presentato da Ralf, a tarda notte ha incluso anche Giovanni Guidi, Enrico Rava e Gianluca Petrella, la "New Orleans Night," in cui un invecchiato Dr. John ha ribadito la sua sintesi del folklore del Delta, la presenza di The Roots, con il loro rock—hip hop fragoroso e decisamente datato, il concerto di Fiorella Mannoia, il cui titolo "Dalla, il Brasile e un po' di jazz" non avrebbe potuto essere più ammiccante...

In tale ambito si possono inserire anche l'esplicita e semplice comunicativa del jazz afro-antillese del settantenne Monty Alexander, attorniato da una schiera di modesti gregari, come pure la prima europea del duo pianistico HiromiMichel Camilo, che non ha tradito le attese. Un interplay istantaneo con un continuo alternarsi del ruolo principale, un pianismo pieno e affermativo (arabescata e leggiadra la diteggiatura della giapponese, granitica quella del pianista di Santo Domingo) hanno garantito un divertimento assoluto, elettrizzante, aproblematico.
Oltre agli appuntamenti d'intrattenimento, a Umbria Jazz 14 si è potuto ascoltare anche ottimo jazz, nomi vecchi e nuovi, proposte intelligenti da cui trarre spunto per riflessioni di carattere generale; è appunto su questi concerti che vale la pena di soffermarsi.

L'evento

Herbie Hancock e Wayne Shorter hanno cominciato a frequentarsi sui palchi di tutto il mondo oltre mezzo secolo fa, ma dopo aver pubblicato nel 1997 il loro CD in duo, 1+1 negli ultimi anni hanno centellinato le loro apparizioni in duo. A Perugia, su labili tracce scritte hanno sviluppato un'improvvisazione coriacea, imprevedibile, prevalentemente pensosa, senza concedere nulla a effetti risaputi anche quando il pianista ha utilizzato le tastiere elettroniche. Enigmatici nuclei motivici hanno innescato gradualmente vampate di energia, subito smorzate per poi rivolgersi ad altro: i centri di coagulazione del dialogo sembravano spostarsi in continuazione senza privilegiare precise aree melodiche o ritmiche. Solo nella seconda parte di un concerto senza alcuna pausa sono comparse situazioni relativamente più ritmate e serene.
Con un interplay sempre concentratissimo, Shorter, che ha suonato solo il soprano, e Hancock, che ha sfruttato tutte le possibilità delle tastiere, hanno saputo costruire una performance impegnativa, davvero sorprendente per motivazione e creatività; performance che tuttavia, con i suoi 105 minuti, ha avuto il difetto, non marginale, della prolissità, senza riuscire a condensare una più essenziale sintesi espressiva.

Il nome nuovo: Yilian Canizares

Il fatto che Yilian Canizares, cantante e violinista cubana ma stabilitasi a New York, fosse decantata più per la sua bellezza che per le sue doti musicali poteva insospettire e fuorviare. In realtà la veloce ascesa nel panorama internazionale della giovane protagonista è la dimostrazione di almeno quattro verità:
—eleggere New York (metropoli affollata tanto di concorrenza quanto di opportunità) come base per maturare la propria esperienza e come trampolino di lancio è scelta molto frequente, anche se forse non indispensabile;
—un marketing costante e mirato, teso alla creazione di un personaggio ed alla diffusione della sua visibilità, è invece fondamentale;
—la bella presenza non disturba, anzi aiuta, ma non può essere determinante;
—l'ambizione, la motivazione personale e l'originalità della proposta sono altrettanto importanti... lo spessore artistico potrà aumentare con l'esperienza.

Nel concerto al Teatro Morlacchi la Carizares ha rivelato di possedere un mondo musicale sufficientemente delineato e personale: l'andamento delle sue canzoni, i suoi testi, la conduzione ritmica, esprimono un forte radicamento nell'originaria cultura cubana. La voce, dal timbro brunito e dal delicato vibrato, è "educata" e intonata. Ancor più deciso è l'uso del violino, ora mosso ora melodioso, ricordando i violinisti del tango argentino oltre che quelli della tradizione cubana. In definitiva la proposta dell'emergente Canizares, sostenuta adeguatamente da tre bravi partner, non è apparsa affatto banale; il consolidamento del suo successo nell'ambito di un etno-pop forbito ed elegante, non certo in quello del jazz più impegnato, dipenderà da vari fattori.

Le verifiche: Melissa e Cecile

Una delle peculiarità di Umbria Jazz, oltre a quella di far "scoprire" nomi nuovi al pubblico italiano, è quella di riproporre alcuni di quei nomi anche nelle edizioni successive, dando quindi la possibilità di verificare la crescita e la qualità delle loro proposte. Quest'anno è stato il caso di Melissa Aldana e Cecile McLorin Salvant, già presentate a Orvieto nell'ultima edizione di Umbria Jazz Winter.

Per quanto riguarda la tenorista cilena, le sue intenzioni si sono rivelate più aderenti ad un mainstream aggiornato che alle espressioni più creative dell'attualità, confermando i suoi modelli stilistici, da Rollins a Mark Turner. Si è avuta comunque conferma delle qualità della sua musica: il peso della composizione, il sound morbido e soprattutto la capacità di costruire un fraseggio ben articolato, ricco di sviluppi, pause funzionali, citazioni... La Aldana ha inoltre trovato una sintonia con gli efficaci partner del Crash Trio: il contrabbassista cileno Pablo Menares e il batterista cubano Francisco Mela.
Nonostante questi aspetti apprezzabili, un certo distacco emotivo e un drive non trascinante, in definitiva la mancanza ancora di una definita e decisa impronta formale-espressiva, hanno impedito al concerto perugino di decollare, come per altro è capitato nelle altre due apparizioni (a Orvieto e Modena) a cui ho potuto assistere.

Più che a Orvieto Cecile McLorin Salvant ha dimostrato di essere una cantante personale e anomala. Già la scelta del repertorio è significativa, rivolgendosi ad autori di vari periodi e scuole del Novecento, ma evitando gli standard più frequentati. La sua emissione vocale, basata su un costante controllo dell'intonazione e del volume, prevalentemente basso fino al sussurro, ha presentato un timing sapiente e una grande ricchezza dinamica e timbrica, con inflessioni ora infantili ora drammatiche o ironiche. Cecile si è inoltre confermata leader esigente, capace di ottenere un accompagnamento calibratissimo dai partner del suo trio, fra i quali ha spiccato per personalità il pianista Aaron Diehl.
Nel complesso l'approccio e l'emotività interiorizzata della cantante hanno generato un mondo poetico-espressivo sofisticato, molto orgoglioso del consapevole distacco con cui vengono reinterpretati momenti diversi della tradizione. Un mondo che fra l'altro esige dal pubblico una fruizione conseguente, partecipata e complice; basta lasciarsi gradualmente irretire dai ritmi dilatati e dalle insinuanti malie dell'interprete per poi provare forti emozioni di fronte alla versione vibrante di una folk song come "John Henry."

La conferma: Ambrose Akinmusire

Una decisiva prova di maturità è venuta da Ambrose Akinmusire a capo del suo sestetto. Una musica organicamente strutturata, in cui tutti i passaggi, le progressioni, gli spunti sono concatenati con un senso preciso, ha coordinato un mirabile discorso complessivo, una sorta di suite ben disegnata. Una proposta molto austera e densa la sua, senza la minima concessione a trucchi furbeschi e accattivanti. Alla pronuncia lirica e vibrante del leader, particolarmente poetica e dolente in alcuni brani, hanno fatto riscontro i singolari vocalizzi elettronicamente filtrati di Theo Bleckmann, le agili e avvincenti evoluzioni del tenore di Walter Smith III, mentre al piano di Sam Harris sono stati riservati spazi abbastanza circoscritti. Il tutto si è appoggiato sul sound e il pulsare scuri e antileziosi di basso e batteria (rispettivamente Harish Raghavan} e Justin Brown).
La musica di Akinmusire sta segnando un'ennesima tappa significativa in quel processo di autenticazione, di proclamazione di una propria specifica identità (direi di "nobilitazione" se non temessi di essere frainteso) a cui è continuamente sottoposto il jazz afroamericano.

Fra gli altri concerti di jazzisti stranieri al Morlacchi rimane da registrare la roboante traduzione in chiave pop-funky-tecnologica di mondi folk ormai lontani da parte della John Scofield überjam Band. Spesso l'efficace fraseggio della chitarra del leader ha rivelato stranamente inflessioni memori di Santana.



La Linea italiana del jazz

Come sempre a Umbria Jazz non è mancata quella "linea italiana del jazz" dai caratteri distintivi, impostasi da anni sul mercato e seguita da una vasta schiera di fan. Innanzi tutto il trio Doctor 3 (Danilo ReaEnzo PietropaoliFabrizio Sferra), ricostituitosi dopo sei anni di silenzio, ma che personalmente non sono riuscito ad ascoltare.
Il Yatra Quartet di Enzo Pietropaoli, prossimo all'incisione del suo terzo disco, del quale sono stati anticipati alcuni brani, ha inanellato una musica distesa e avvolgente, dalle tinte pastello e dalle influenze non solo mediterranee, ma anche scandinave o sudamericane.

Anche il quintetto storico di Paolo Fresu, che ha appena celebrato i suoi trent'anni di vita con il CD !30! (Tuk Music), ha espresso grande compattezza e fluidità, con intima coesione dei ruoli individuali. Brani noti o recenti, a firma prevalentemente del leader ma anche degli altri membri della formazione, hanno animato situazioni ora dinamiche, dalle scandite masse sonore, ora di lirica poesia, con spunti tratti dall'Africa come dalla quotidiana esperienza personale.
Assieme a Fresu, Stefano Bollani è uno dei portabandiera di questo approccio tipicamente italiano di grande successo, anche se all'Arena Santa Giuliana era inserito all'interno della "notte brasiliana" in duo con il bandolinista Hamilton de Holanda. Trionfo prevedibile il loro: in un rapporto empatico, con virtuosismo smaliziato e leggerezza, con un goccio di ironia e qualche spunto eccentrico essi hanno esaltato una certa idea di ritmo e di melodia. Da sottolineare che l'ingresso in scena dell'ospite, la clarinettista Anat Cohen, non ha alterato il livello qualitativo, comportando anzi una più ampia gamma timbrica in un'equilibrata distribuzione dei ruoli.

In questa corrente italiana del jazz rientra solo tangenzialmente un maestro come Franco D'Andrea, che a capo del suo sestetto (completato da Andrea Ayassot, Daniele D'Agaro e Mauro Ottolini nella front line e dalla ritmica di Aldo Mella e Francesco Sotgiu) ha dato una rilettura raffinatissima, arabescata e venata di sorniona ironia di brani monkiani ed anche del leader. Una dimensione prettamente collettiva, formicolante di idee centrali o periferiche, ha lasciato emergere rari e brevi, ma pregevolissimi, assoli dei singoli. Si sono così materializzati episodi eccentrici o intimisti, sfrangiati o più decisi, puntillistici o più discorsivi.

Questa linea italiana inoltre si estende nelle diversificate proposte delle giovani leve. Alessandro Lanzoni, vincitore della categoria "nuovi talenti" nell'ultimo Top Jazz del mensile Musica Jazz, si è esibito in trio nella penalizzante acustica della Sala Podiani nella Galleria Nazionale dell'Umbria, dimostrando una maturità espressiva sorprendente. Composizioni dalle possenti strutture geometriche hanno giustificato un pianismo prevalentemente vorticoso e perentorio, esente da facili ammiccamenti.
Francesco Cafiso (che, superata la precocità degli esordi e irrobustita la sua concezione musicale, è tuttora molto giovane) ha presentato in quintetto una recentissima suite, che sarà presto su CD, dedicata alla sua Sicilia. In questa esperienza la musica del contraltista, pur rimanendo aderente agli impianti del mainstream, si è paludata di cadenze bandistiche e di colori mediterranei, di visionarie esuberanze e di malinconici ripiegamenti.

Italian Young Jazz

Ma a Perugia le esperienze più attuali e di ricerca del jazz italiano erano ospitate dalla sezione Young Jazz, organizzata dall'omonima associazione di Foligno per il secondo anno consecutivo a Palazzo della Penna. Si è succeduta una selezione assai significativa di quanto sta fermentando oggi in Italia, per altro in sintonia con la sperimentazione degli esponenti dell'avant jazz internazionale.

Da segnalare innanzi tutto due solo performance di piano nella raccolta sala sotterranea. Con concretezza, un tocco d'ironia e un'enorme varietà timbrica, risultante da un vasto campionario di oggetti, giocattoli e carillon, Fabrizio Puglisi ha dato un personalissima sintesi di molte avanguardie del Novecento: dal futurismo di Mosolov alle ronzanti ipnosi del minimalismo e della techno, dalle iterazioni del piano preparato di John Cage a una potenza percussiva a tutta tastiera memore di Cecil Taylor e non solo, fino a filtrare l'influenza di musiche africane, approfondite dal pianista siciliano negli ultimi anni in vari contesti. Nei bis si è rivolto a brani degli amati e imprescindibili Monk e Mingus, dandone versioni poderose e trasversali. Quello di Puglisi è stato uno dei concerti più esaltanti di Umbria Jazz 14.

In una delle sue rare esibizioni in solo, anche Alfonso Santimone ha riassunto la ricerca pianistica da lui sviluppata nel corso di un ventennio, enucleando vari approcci ed esiti improvvisativi: un'evoluzione narrativa mossa e fantasiosa, a tratti forse un po' divagante, una rivisitazione dilatata e obliqua del monkiano "Friday Thirteen," momenti più insistiti e percussivi, intricati sviluppi di moduli minimalisti...

Fra i gruppi ha spiccato il quintetto guidato dal giovane pianista Simone Graziano. Con il suo progetto Frontal, inaugurato tre anni fa, egli ha proposto una musica attuale e ben organizzata, di lontana ascendenza free, in cui toniche e ossessive progressioni si sono alternate a introspettivi momenti di distensione. I temi, esposti prevalentemente all'unisono, e la pulsante conduzione ritmica fornita da Gabriele Evangelista e Stefano Tamborrino hanno proiettato consistenti e coriacei spazi solistici: soprattutto quelli della front line, in cui al tenore corrusco di Dan Kinzelman hanno fatto riscontro le trascinanti escursioni del contralto di David Binney.

D'impianto ancor più esasperatamente free è risultata l'apparizione di Piero Bittolo Bon & His Original Pigneto Stompers, comprendente Jamaaladeen Tacuma, il cui uso del basso elettrico, almeno in questo contesto, si è rivelato diverso, più vociante e meno perentorio rispetto a un ventennio fa. Un flusso improvvisativo continuo si è agitato senza interruzioni fra sussulti e diversificate agglomerazioni di strumenti. I momenti migliori si sono verificati quando il quintetto ha lavorato a pieno regime, con le vampate chitarristiche di Simone Massaron, il forsennato e abrasivo fraseggio del leader al contralto e il materico raddoppio batteristico di Federico Scettri e Massimiliano Sorrentino.

Il quartetto Brooks di Cristiano Arcelli è attivo ormai da quattro anni e vanta un pregevole CD al suo attivo. Il contraltista umbro si è confermato musicista completo e maturo, purtroppo non esposto quanto meriterebbe: compositore dalla vena solida e aggiornata, a volte di discendenza colemaniana, arrangiatore di vaglia, strumentista dalla pronuncia agile e acuminata e leader autorevole. Su temi ora perentori ora più evocativi, la compattezza del quartetto si è retta sul drumming asciutto di Zeno De Rossi e sulla stretta coesione fra due chitarristi fra loro complementari: Federico Casagrande e Marcello Giannini.

Il progetto Ghost di Dan Kinzelman, anch'esso già su disco, prevede quattro fiati, che all'occorrenza suonano anche le percussioni: Mirco Rubegni alla tromba, Manuele Morbidini e Rossano Emili, oltre al leader, alle ance. I quattro si sono esibiti, in acustico e nella penombra, al centro di una sala del Palazzo della Penna, mentre il pubblico era disposto sui quattro lati. La proposta, decisamente originale e coinvolgente, con esiti del tutto diversi da quelli lasciatici in passato dai quartetti di sassofoni, si è dipanata su original, ma anche su una marcia funebre spagnola ed altri temi anomali e suggestivi. Un camerismo disteso non ha escluso turgidi impasti dei fiati o una rituale eccitazione percussiva.

Un'impronta originale, tutt'altro che cameristica o artificiosa, ma forse ancora da rodare appieno, ha dimostrato infine anche il quartetto Eraserheads, formatosi circa un anno fa: Gaia Mattiuzzi alla voce, Enrico Terragnoli alle chitarre e banjo, Stefano Senni al contrabbasso e Nelide Bandello alla batteria. Un repertorio comprendente brani del contrabbassista, ma anche di Krzysztof Komeda, Neil Young e Robert Wyatt, ha avviato tese e scandite progressioni collettive, sofisticate linee melodiche, soprattutto nell'emissione della cantante, brevi spunti aleatori, inflessioni neofolk, in particolare da parte di un Terragnoli decisamente più esposto che in altri contesti.

Foto
Daniele Franchi.

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