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Torino Jazz Festival 2014

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Varie sedi—25.04-1.05.2014

Benché bersagliata da intemperanze meteorologiche d'altro canto non nuove, in questa sede, la terza edizione del Torino Jazz Festival (seconda sotto la direzione artistica di Stefano Zenni) ha visto una partecipazione di pubblico che definiremmo oceanica, al punto che—per esempio—si è rivelato praticamente impossibile accedere ai concerti in giro per i club (gratuiti, come quasi tutto il resto) a meno di non poter privilegiare il singolo appuntamento, presentandosi conseguentemente in loco con lauto anticipo, il che non è ovviamente consentito a chi di un festival poi deve magari pure scrivere.

Anche seguire l'intero cartellone rappresenta di fatto una pia utopia (perdonate il gioco di parole), per cui chi sta per ragguagliarvi su quanto accaduto è approdato sotto la Mole quando già un buon terzo del programma si era srotolato, non senza qualche chicca degna di nota, a partire dalla festa per i settant'anni di Gianluigi Trovesi, presente sia con la Filarmonica Mousiké che in coppia con Gianni Coscia, sodale di una vita (o quasi). Sugli scudi, ancora, il duo Douglas/Caine, la proiezione del leggendario Appunti per un film sul jazz di Gianni Amico (1965, con Gato Barbieri, Don Cherry, Cecil Taylor, ecc.), Mauro Ottolini Sousaphonix "commissionato" su un film di Keaton, i primi tre concertoni serali in piazza Castello, protagonisti, nell'ordine, Daniele Sepe, Diane Schuur (acclamatissima) e Al Di Meola.

Manu Dibango ed Enzo Avitabile sono saliti nelle due sere successive su quello stesso palco, offrendo esibizioni per più versi speculari, molto affidate a una presa piuttosto diretta su un pubblico composito, con presenze prevedibilmente più virate verso l'Africa (Camerun ma non solo) per l'ottuagenario tenorsassofonista di Douala, più inclini al golfo partenopeo per il collega (anche di strumento) napoletano. Entrambi hanno fatto leva su una comunicativa (e una comunicazione) corporea, viscerale, a tratti sloganistica (specie in Avitabile), arringando la folla e chiamandola di continuo a una partecipazione particolarmente vociferante. E se Dibango ha aggiunto a un quartetto strumentale due voci femminili (anche assai coreografiche, ma non nel senso più pecoreccio del termine), Avitabile, di cui nel pomeriggio era stato proiettato Music Life, dedicatogli nel 2012 da Jonathan Demme, squadernava—sempre oltre al classico quartetto—un bel trio di fiati (lui compreso) e soprattutto i Bottari di Portico (cinque elementi, con tanto di "capo pattuglia"), ospitando pure, come coup de théâtre di commiato, il soprano di Javier Girotto, con cui aveva condiviso poche ore prima un incontro di mezzogiorno.

Lo stesso Girotto (che ha annunciato l'imminente uscita di un album da lui dedicato alla musica di Atahualpa Yupanqui) era uno dei cosiddetti "artisti residenti" del festival, nel corso del quale si è esibito in varia compagnia, in particolare in seno al quartetto Cordoba Reunion, con cui (il 28) si è prodotto in un doppio concerto serale di bella intensità alla Canottieri Esperia, suggestivo locale oltre-Po (per una volta di dimensioni adeguate) che ospitava appunto un primo concerto all'ora di cena e un secondo sul riflusso post-piazza Castello, in questo caso preceduto da una quanto mai suggestiva, breve solo performance sopra una minichiatta (o zattera) posta al centro del Grande Fiume, con le luci della città a far da cornice. Proprio la sera di Cordoba Reunion, il prescelto era Rosario Giuliani, con un surplus di suggestione gentilmente offerto dalla pioggia, a causa della quale il sassofonista era affiancato da una signora ombrellomunita, con la doppia silhouette a generare un fotogramma quasi irreale.

Residenti a diverso titolo erano anche svariati altri artisti, a partire dallo stesso Giuliani e da Roberto Gatto, esibitisi in duo e quartetto, e poi ciascuno altrimenti accompagnato, il pianista norvegese Jon Balke, prodottosi con i succitati nonché in diversi contesti accanto al batterista Patrice Héral (tra cui il quintetto Percussion Night, francamente deludente, troppo cartolinesco), il glorioso Jimmy Cobb, alla testa di un Italian Trio con Massimo Faraò e Aldo Zunino che ha ospitato, nei tre preserali al Jazz Club di piazza Valdo Fusi (uno dei locali tabù di cui dicevamo), Sheila Jordan e Scott Hamilton, fino allo stesso Furio Di Castri, responsabile della costola-Fringe del cartellone, che non ha mancato di estrarre dalla custodia il suo contrabbasso nei contesti più disparati.

Rimane da dire delle presenze jazzisticamente più pregnanti, colte generalmente in teatro, come Stefano Battaglia, che ha presentato in anteprima un progetto dedicato ad Alec Wilder (1907/80) scisso su un doppio binario: le art songs, affidate alle cure del trio con Maiore e Dani, e le popular songs, in quartetto. Il trio si è reso protagonista, il pomeriggio del 28 al Teatro Vittoria, di un'esibizione assolutamente magistrale, in cui le dinamiche di un organico ormai collaudatissimo hanno saputo espandersi una volta di più in tutta la loro bellezza, purezza, pathos ed equilibrio, in qualche modo al di là—paradossalmente—del tema specifico, mentre il quartetto, la sera dopo all'Esperia, non è mai apparso un ampliamento del succitato trio (anche perché basso e batteria sono qui appannaggio di Joe Rehmer e Fabrizio Sferra, con la tromba di Avishai Cohen, pure impegnato sulla fatidica zattera, a completare l'organico), percorrendo, sempre con grande eleganza, strade più facilmente inquadrabili in un jazz post-diverse cose.

Sempre il 29, Kenny Barron e Dave Holland, nel primo dei due appuntamenti pomeridiani al Conservatorio, hanno confezionato un concerto di gran classe, perché questo è il loro status di musicisti (pur con alle spalle storie tanto diverse), non riuscendo tuttavia a evitare una certa prolissità, e una più che sostanziale sclerotizzazione su strutture e situazioni (esposizione, assolo di piano accompagnato, assolo di contrabbasso non accompagnato, ripresa) fin troppo battute, spegnendo ben presto ogni curiosità attorno allo svolgersi della musica, almeno nel vostro recensore, che evidentemente di musica ne ascolta troppa, ed è quindi piuttosto esigente. Il pubblico, per parte sua, ha risposto invece con entusiasmo, sia nei numeri (sala esaurita) che nelle manifestazioni di apprezzamento.

Ventiquattr'ore dopo, sempre al Conservatorio, era la volta di una delle chicche del festival, il settetto riunito (col patrocinio dell'Unesco) da Louis Moholo-Moholo a mezzo secolo dall'esodo dei leggendari Blue Notes dal Sudafrica verso la swinging London (con tappe intermedie). Ne facevano parte, fra gli altri, due vecchie glorie come Henry Lowther alla tromba e Alan Tomlinson al trombone, legati a esperienze comuni nei gruppi inglesi d'antan (dei Blue Notes, come si sa, Moholo è invece l'unico sopravvissuto). Musica di grande impatto, quella sciorinata dallo Special Unit (questo il nome del gruppo), in prevalenza collettiva (ma non solo, ovviamente), di una festosità agrodolce, madida, pregnante, tipica di quelle latitudini espressive, e grande successo di pubblico.

L'artista più atteso del terzo Torino Jazz Festival, a ogni buon conto, era con tutta probabilità il grande Caetano Veloso, l'ultima sera (30 aprile) in piazza Castello (dove si sarebbe poi svolto il canonico concertone del 1° maggio, con Fresu Quintet, Giornale di Bordo e Ibrahim Maalouf fra gli altri). E l'ormai quasi settantaduenne cantautore bahiano ha visto bene di non tradire le aspettative, inanellando una generosa serie di gemme (che spesso il pubblico, come da copione, cantava con lui), da "Coração vagabundo" a "Abraçaço," con l'annunciata veste rock decisamente (e quindi felicemente) compressa in trattamenti per quartetto sempre sufficientemente asciutti, e perle per chitarra e voce sole disseminate lungo tutto il concerto. Chiusosi, ovviamente, in gloria. Come il festival tutto.

Foto per gentile concessione dell'ufficio stampa del Torino Jazz Festival.

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