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Time in Jazz 2016

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Time in Jazz
Sardegna, vari luoghi
8-16.08.2016

Erano diciassette i Comuni della Sardegna nord-orientale coinvolti in questa ventinovesima edizione di Time in Jazz, diretta dall'instancabile e onnipresente Paolo Fresu, sempre alla ricerca di collaborazioni, idee e proposte nuove. Le suggestive ambientazioni naturalistiche e storiche del festival, comprendente le appendici di Time in Sassari nelle giornate di apertura e di chiusura, hanno costituito un contesto di caratterizzante potenza. Nei concerti all'aperto anche il sole cocente e il vento asciutto, che frusciava nei microfoni e scompaginava gli spartiti, sono intervenuti come componente ineludibile. Come sempre quindi si è dipanato un festival itinerante, faticoso per il susseguirsi incalzante degli eventi, ma senza confronti per la gratificante ricchezza di esperienze umane che favorisce.
"Occhi" era il tema di quest'anno, la cui interpretazione è riverberata in varie declinazioni non solo nei concerti, ma anche nelle manifestazioni collaterali: le mostre, il ciclo cinematografico, la gara di improvvisazione poetica in sardo e perfino nella messa celebrata dal vescovo nella chiesa parrocchiale di Berchidda. Per l'occasione il rito, dedicato a Santa Lucia, patrona del paese e protettrice della vista, è stato impreziosito e reso ancor più partecipato dai pertinenti interventi musicali del quartetto d'archi Alborada integrato dallo stesso Fresu.

L'apertura del festival, nella traversata marittima da Livorno a Golfo Aranci in collaborazione con Sardinia Ferries, è stata riservata a Petra Magoni e Ferruccio Spinetti con il loro progetto Musica Nuda. La sera seguente il duo, che dopo quattordici anni di vita non presenta segni di stanchezza, ma continua a portare un concentrato di verve e comunicativa, si è esibito a Calangianus.
Di un repertorio che più composito e strampalato non si potrebbe (da John Dowland a Gianni Morandi, da "Speak Low" a "Tuca tuca") vengono esasperate le possibilità espressive. La voce della Magoni è paragonabile a una lucertola iridescente che guizza nervosa in tutte le direzioni, sosta a crogiolarsi al sole, s'inabissa nell'ombra delle erbe per poi ricomparire dove meno te l'aspetti sorniona e trionfante. L'ironia, gli eccessi timbrici e dinamici, il timing smaliziato, i deragliamenti, le improvvise virate di registro perseguono non tanto la dissacrazione degli originali quanto il tentativo di domarli e ammaestrarli, plasmarli a qualsiasi possibile inflessione di senso e di forma. Spinetti al contrabbasso, apparentemente il polo "serio" del duo, costituisce una spalla affidabile e sicura.

Quest'anno c'era grande abbondanza di pianisti in programma e fra l'altro anche il cinema ha fatto il suo ingresso nella Piazza del Popolo di Berchidda. Nel toccante "Keep on Keepin' On," frutto di lunghi anni di ripresa e di un attento montaggio, il regista Alan Hicks sostiene una tesi, ovvero il passaggio del testimone da un ultra novantenne Clark Terry, devastato dal diabete, al giovane pianista non vedente Justin Kauflin, rappresentando quindi la continuità dell'esperienza umana oltre che jazzistica dai maestri ai protagonisti di domani. I due concerti, serale e pomeridiano, dell'oggi trentenne Kauflin hanno dato dimostrazione della solidità e della ricchezza del suo linguaggio pianistico, del tutto radicato nella più classica tradizione jazzistica americana.

In un altro progetto multimediale, "Il tempo in posa," la proiezione di foto di Pino Ninfa è stata accompagnata dalla musica di Jan Lundgren, senza che si sviluppasse una particolare interazione. È vero che le serie fotografiche sul tema del Mediterraneo, a colori o prevalentemente in bianco e nero (notevole per esempio l'indagine sulla processione del Venerdì Santo a Trapani), tendevano a registrare soprattutto, ma non solo, il silenzio, l'eternità di certi paesaggi o i residui di un'antropizzazione antica o recente, ma il commento sonoro di Lundgren, basato su un senso melodico sospeso e senza tempo, è risultato troppo uniforme e statico. Peccato, perché il pianista svedese possiede anche altre frecce al suo arco, come subito dopo ha dimostrato il breve set solitario incentrato, quasi in contrapposizione, sulla rivisitazione di canzoni popolari scandinave.

Un altro concerto di piano solo è stato ambientato di mattina nella cattedrale di Ozieri. Antonio Zambrini, musicista completo, molto personale e apprezzato, ma meno esposto di quanto meriterebbe, ha confermato un singolare mondo poetico d'impronta neoromantica, circolare, a volte apparentemente inconcluso. Su un repertorio selezionato, che a propri original ha affiancato con coerenza brani poco battuti di Jarrett, Wheeler e altri, il pianismo di Zambrini è risultato di una certa complessità: la mano sinistra ha disegnato impianti armonici mutevoli, mentre la destra arpeggiava melodie ora meditabonde ora più esplicite con un senso ritmico trattenuto, a tratti claudicante.

Due i concerti riservati a Stefano Battaglia. Unica per rigore e potenza espressiva è risultata la sua solo performance ispirata a opere del fotografo marchigiano Mario Giacomelli, che fra gli anni Cinquanta e Ottanta ha dato corpo ad una propria visione in bianco e nero estremamente concreta e terrosa, trascendendo sia il neorealismo che l'espressionismo astratto.
Il pianismo di Battaglia, partito da immagini molto contrastate e spigolose, ha poi intrapreso una narrazione più concatenata e ossessiva, soffermandosi su frasi di lancinante cupezza espressionista. Solo nel bis il moto incantatorio ha preso inflessioni relativamente più serene. Il silenzio assoluto del pubblico che assiepava lo spazio ombreggiato dalla chiesa granitica di Santa Vittoria a Telti ha sottolineato la magica concentrazione della performance.

Il pomeriggio seguente a Tula Battaglia si è esibito alla testa del suo trio, attivo da dodici anni e completato dagli insostituibili Salvatore Maiore e Roberto Dani. Diverso il repertorio, che questa volta ha accostato canti e danze del Medio Oriente e dell'Africa, forse più prevedibili gli sviluppi, ma invariato si è rivelato il partecipato trasporto interpretativo, dovuto alla condivisione d'intenti con le tradizioni culturali d'origine e all'interplay che ha legato i membri del trio. Le marcate cadenze melodico-ritmiche sono state dilatate in intrecci tumultuosi, in rare zone di rarefazione, in ipnotiche e coinvolgenti reiterazioni.

Un'importante pianista italiana era presente in BAM, il sodalizio che compenetra le esperienze, le responsabilità e le sonorità di Marco Bardoscia, del quartetto Alborada e di Rita Marcotulli; progetto già documentato dal CD Trigono, edito dalla Tuk Music.
L'amplificazione giustamente "allegra" per esigenze logistiche e l'ambientazione anomala per questo gruppo (il soleggiato concerto mattutino, accarezzato dal vento, di fronte ad un pubblico pressoché "balneare" con l'isola di Tavolara sullo sfondo) hanno fatto sì che la musica perdesse la sua componente cameristica per assumere insolite risonanze e deformazioni armoniche e dinamiche. Si è così materializzata una curiosa dimensione visionaria, di un certo fascino e a tratti quasi arcana. Questo a conferma, ancora una volta, di quale peso abbiano di volta in volta le condizioni d'ascolto.

Come in molte altre edizioni non è mancato l'appuntamento attoriale. Quest'anno è stato affidato a Giuseppe Battiston, che ha selezionato e letto alcuni brani significativi tratti da "Cecità" di José Saramago: romanzo breve di evidente contenuto allegorico, in cui un'intera società che ha perso il lume della vista/ragione può sperare la salvezza solo dalle rare persone rimaste vedenti/sagge. Nell'apparizione mattutina in riva al mare presso la Torre di San Giovanni a Posada, la recitazione di Battiston è stata piana, senza enfasi inutili, alternandosi ai commenti musicali del duo Paolo Fresu- Daniele di Bonaventura, che hanno scelto brani e atmosfere in sintonia con le situazioni del racconto.
Nel pomeriggio ci si è spostati allo Stagno della Peschiera di San Teodoro per assistere all'incontro, il primo in assoluto, fra di Bonaventura al bandoneon e Gianni Coscia alla fisarmonica. L'inedito duo, oltre che un confronto fra generazioni, ha rappresentato un viaggio attraverso culture e stili, giocato su toni gentili, arguti, nostalgici, danzanti, divertiti...

Tutt'altro che inedito, anzi rodatissimo, è il sodalizio fra il fisarmonicista di Alessandria e Gianluigi Trovesi. Da quando nel 1989 suonarono a Tortona per la prima volta assieme su iniziativa di Alberto Bazzurro, sono diventati un'istituzione del jazz italiano: tanto che in alcune occasioni recenti non è mancato qualche segno di routine, soprattutto per quanto riguarda le umoristiche introduzioni verbali.
Nel concerto di Piazza del Popolo a Berchidda, dedicato alla memoria di Umberto Eco, hanno invece dato una prova di grande motivazione e concentrazione, offrendo una deliziosa, decantata e sofisticata deformazione di varie musiche di matrice popolare. Con un filo di voce, fra sussurri, insinuazioni e sottintesi, fra pigri addormentamenti e improvvisi risvegli, è stato affrontato l'abituale repertorio, che da original (l'immancabile e gustoso "Le giostre di Piazza Savona" di Coscia) è passato a brani di Kurt Weill, al "Pinocchio" di Fiorenzo Carpi e infine a canzoni italiane degli anni Trenta-Quaranta, forse oggetto di un futuro progetto del duo.

Le apparizioni di Paolo Fresu, previste in programma o improvvisate, sono state numerose. Al Castello Doria di Chiaramonti, una delle produzioni originali del festival ha visto l'inedito incontro fra il trombettista e Mino Cinelu. Il loro dialogo, giocato su mosse scansioni ritmiche e facili spunti melodici, ha avuto buoni momenti d'integrazione e di esuberante comunicativa, concentrati soprattutto in apertura e chiusura di concerto. Forse avrebbe potuto raggiungere esiti ancor più convincenti se il trombettista ospitante avesse preso più spesso l'iniziativa e Cinelu, alle prese con chitarra e percussioni elettroniche oltre che alla voce, non avesse manifestato un così alto grado di protagonismo.

Fresu ha inoltre preso parte ad una controversa, libera interpretazione della Norma. L'ampia e compatta formazione, risultata dalla fusione fra l'Orchestra Jazz del Mediterraneo, con base a Catania, e la sassarese Orchestra Jazz della Sardegna, ha rappresentato un concreto gemellaggio fra le due isole. La compagine era diretta da Paolo Silvestri, non nuovo a esperienze di questo tipo, responsabile della riduzione dell'opera belliniana e degli arrangiamenti. Parti lineari e cadenzate si sono alternate ad altre armonicamente audaci o a sezioni toniche, che hanno restituito la natura melodrammatica dell'originale operistico.
A mio parere ne è risultata una versione pienamente jazzistica, fortemente stagliata, tutt'altro che accademica, ricca anche di pregevoli spunti solistici da parte di alcuni membri della formazione. Incastonati nel tessuto orchestrale hanno avuto un grande rilievo gli interventi di Fresu, la cui voce rotonda e inconfondibile in alcuni passaggi sembrava rivestire il ruolo che Miles Davis aveva nell'orchestra di Gil Evans alla fine degli anni Cinquanta. Come in tutti gli altri concerti serali sul palco di Piazza del Popolo, sullo schermo di fondo non mancava un'opportuna componente visiva, in questo caso costituita dalla riproduzione di bozzetti scenografici d'epoca.

Se la presenza italiana è stata prevalente e qualificata, a Time in Jazz 2016 non sono mancati i protagonisti stranieri di alto rilievo: Charles Lloyd e Michel Portal, che hanno firmato concerti assai interessanti in quanto imprevedibili, con elementi di novità rispetto al recente passato.
Sorprendente si è rivelato il primo brano proposto dal quartetto del sassofonista americano, in cui sembrava rivivere il clima degli anni Sessanta: un semplice tema d'impronta coltraniana su un ritmo sostenuto è stato caratterizzato da un sound coriaceo, da accelerazioni e decelerazioni, da una comunicativa diretta, da un'infervorata improvvisazione collettiva. Davvero un incipit al di là delle aspettative. Poi il concerto è continuato percorrendo situazioni più collaudate, se si vuole più attuali e smaliziate, ma di minor peso specifico. Fra i partner di Lloyd, più del contrabbassista Harish Raghavan, dall'incedere un po' rigido, e del superlativo ma a tratti stucchevole Eric Harland alla batteria, è spiccato Jason Moran per la maturità e complessità del suo pianismo.
La tensione è tornata a crescere quando nel tonico bis è salito sul palco Paolo Fresu, inserendosi deciso, perfettamente a suo agio con quella sezione ritmica.

Il concerto del nuovo trio di Michel Portal, costruito su un repertorio più o meno recente, dalle geometrie meno taglienti che in altre occasioni, ha percorso anche situazioni relativamente riflessive o allucinate a fianco di temi giocosi. Soprattutto, il leader ha affidato la responsabilità di un'autonoma inventiva ai due bravi partner. Lionel Loueke, oltre che alla chitarra, il cui registro cangiante transitava dai toni bassi per l'accompagnamento a quelli più acuti per le parti melodiche, ha intonato esili canti esotizzanti, mentre l'esperto Jeff Ballard ha esposto un drumming molto libero e trasversale. Dal canto suo Portal ha suonato solo i clarinetti, soprattutto quello basso, con l'abituale autorevolezza, dando origine a un immaginifico spettro dinamico e timbrico. Non è possibile sapere se questa recentissima formazione possa avere un seguito e possa significare che l'ottantenne polistrumentista francese, sempre irrequieto e problematico, stia intraprendendo una nuova strada.

La proposta più attuale e sperimentale è venuta dal duo formato dal tastierista norvegese Bugge Wesseltoft e dal batterista americano Christian Prommer. La loro improvvisazione ha creato saturi panorami sonori, dagli impianti ritmici esagitati e dagli accesi colori timbrici. Una musica di forte impatto la loro, tutta dichiarata ossessivamente, esente da rarefazioni, soste e reticenze. Alla gestualità fisica dei due improvvisatori ha fatto riscontro la pertinente grafica optical e modulare proiettata a ritmo serrato sullo schermo alle loro spalle.

Rimangono da segnalare alcune presenze di evidente impronta etnica. Abbastanza singolare la rilettura trasversale, fra lo scanzonato e il sofisticato, di un immaginario pop-folk (ma interpretando anche famosi standard jazz) da parte del giovane quartetto israeliano pilotato dalla cantante Irit Dekel e dal polistrumentista Eldad Zitrin.
Per le festività di Ferragosto gli occhi del festival si sono rivolti verso l'Africa. Dal deserto nord-occidentale è venuta la musica tuareg, fortemente contaminata, ripetitiva e motoria del cantante e chitarrista Bombino a capo del suo quartetto. Dal Mali è invece atterrata a Berchidda il duo Amadou & Mariam, la cui world music, in questo caso orientata soprattutto verso il blues, è risultata altrettanto compromessa con le musiche di consumo dell'Occidente, a loro volta derivate in parte dalla matrice africana.
I momenti culminanti, sotto il profilo della comunione di esperienze, intenti e pronunce, si sono riscontrati la mattina di Ferragosto presso la chiesetta campestre di Santa Caterina, e ancor più nella serata conclusiva in Piazza del Popolo, quando al canto, alle percussioni e alle chitarre degli africani Bombino, Amadou e Mariam si è aggiunta la tromba di Fresu, suscitando un'entusiastica partecipazione collettiva. Un arrivederci pieno di buoni propositi all'edizione del trentennale.

Foto
Maria Gabriella Sartini.

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