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The Shape of Italian Jazz to Come? Giacomo Merega

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Per ottenere un livello ottimale di articolazione sonora e strumentale e la massima attenzione al dettaglio, ci vuole molta disciplina.
Il bassista di origine genovese Giacomo Merega si sposta quotidianamente in treno a New York City - tra Brooklyn, Manhattan e il Queens - e, parallelamente, fa viaggiare le sue idee musicali attraverso un approccio fantasioso e improvvisato lontano dai manierismi. Si sta mettendo in evidenza nel panorama jazzistico della Grande Mela grazie a diverse buone performance e collaborazioni di rilievo. Lo abbiamo raggiunto via mail e ci ha risposto in una delle poche pause tra lo studio del cinese e della sua brulicante attività di musicista totale.

All About Jazz Italia: Come è andato il primo incontro con il basso e con il jazz?

Giacomo Merega: Fu occasionale, avevo circa 14 anni e volevo suonare in una rock band. Optai per il basso, forse per evitare la scelta più ovvia: la chitarra. Mi sono poi spiegato la scelta del basso in tanti modi, ma non ho ancora trovato una spiegazione soddisfacente. Non credo nell'affinità fatalistica fra un individuo e un solo strumento. Gli strumenti sono strumenti, cioè dei mezzi, anche se per molti musicisti vale la massima di Marshall McLuhan "the medium is the message". Al jazz mi introdusse il mio primo insegnante di basso, Lino Assenza, pochi mesi dopo. Questo uccise sul nascere la rock band, che in poco tempo avevo formato con alcuni coetanei, perché per diversi anni avrei ascoltato e suonato praticamente solo jazz.

AAJ: Qual è stato il tuo percorso di formazione?

G.M.: Dopo un periodo con Lino Assenza ho studiato armonia jazz e improvvisazione con il chitarrista Marco Tindiglia, tutt'ora mio ottimo amico. Nel 2000 presi una borsa di studio per andare al Berklee College of Music di Boston e lasciai Genova. Ho frequentato Berklee dal 2001 al 2004 e l'anno successivo vi ho lavorato come assistente. Nel 2005, grazie alla mia amicizia e collaborazione con il pianista Ran Blake, decisi di tornare a scuola per un Master in Contemporary Improvisation al New England Conservatory, nel famoso Third Stream Department fondato da Gunther Schuller, per intenderci. Ran era il direttore di quel dipartimento. I due anni successivi furono cruciali, di studi ad ampio raggio fatti con Anthony Coleman, Joe Maneri, Eliot Fisk, Ran Blake, Joe Morris, Allan Chase, Brad Shepik, John Heiss. Ma già ai tempi della Berklee, nonostante stessi studiando anche con Hal Crook, considerato l'apice berkleiano della didattica jazz, divenni molto disincantato nei confronti di quella stessa didattica jazz di stampo accademico e cercai stimoli in altri ambiti, che inquadrassero parametri musicali quali composizione e improvvisazione in una prospettiva più ampia. Dal 2007 ho lasciato Boston e vivo a New York, dove la scena offre possibilità di crescita incomparabili, col solo rischio di andare in corto circuito per i troppi stimoli.

AAJ: Quali sono i progetti musicali che stai portando avanti?

G.M.: A fine estate uscirà su Hat Hut - hatOLOGY un disco in quartetto a nome del sassofonista Noah Kaplan, che a mio parere è il vero erede del compianto Joe Maneri, del quale è stato l'ultimo pupillo. Sul disco suona anche il chitarrista Joe Morris, col quale sto portando avanti parallelamente in un progetto di duo. Noah e io abbiamo anche un quartetto con il violista Mat Maneri, e abbiamo appena finito di registrare il disco di un progetto a cui partecipano Anthony Coleman al piano e Mauro Pagani al violino, oltre al chitarrista Marco Cappelli. Inoltre suono il basso nel quartetto di jazz-rock strumentale del giovane chitarrista degli Steps Ahead, Bryan Baker, e pure nella sua band di indie rock che in inverno registrerà per la Interscope Records. C'è un altro disco in uscita prossimamente, registrato grazie a una donazione dalla New York University, di un quartetto brooklyniano chiamato Dollshot, che si cimenta in arrangiamenti neo-minimalisti e improvvisativi di materiale cameristico di Schoenberg, Ives, Poulenc e altri. Qui a New York prendo anche parte a molti progetti estemporanei e occasionali, come da tradizione nella scena downtown, e sto lavorando a un disco di solo basso. Sul disco compariranno pezzi commissionati appositamente a compositori che normalmente non si cimentano col basso elettrico che, in genere, ha una letteratura piuttosto limitata: a parte qualcosa di Cage e Christian Wolff, c'è poca musica dedicata a questo strumento che non sia fusion o jazz commerciale. Ci saranno anche dei pezzi composti da me e del materiale di improvvisazione. Sarà un bel pugno nello stomaco, almeno lo spero. Sto anche lavorando a uno spettacolo di parole e musica con lo scrittore e regista californiano Hampton Fancher, lo sceneggiatore di "Blade Runner".

AAJ: Stai ottenendo delle buone recensioni con l'album The Light and Other Things (CD della settimana di All About Jazz Italia, nell'ottobre 2008) e per l'attività live. C'è un qualcosa che sta sfuggendo alla critica specializzata in merito al tuo modo di suonare?

G.M.: Sì, il disco è stato accolto piuttosto bene negli Stai Uniti e anche in Europa. Benché, a pensarci bene, appartenga già al passato, per me rimarrà un progetto speciale, un cocktail di fortuna e di istinto che cristallizzò un momento di grande vicinanza artistica con uno dei miei musicisti preferiti, David Tronzo, uno che ha avuto un impatto sulla mia vita artistica spaventoso, come un uragano. Tronzo è come una setta: ha fan sparsi ovunque nel mondo e qui a New York viene considerato un genio, ma è sconosciuto ai non addetti ai lavori e vive oramai come un asceta, lontano dalla scena. Riguardo al discorso sulla critica, non è certo colpa dei critici musicali jazz se si trovano a scrivere di un disco di improvvisazione in cui Tronzo e io presentiamo un paesaggio sonoro di chitarra e basso che come referenti ha, ad esempio, Harry Partch, la musica per percussioni e piano preparato di John Cage, il gamelan, Glenn Branca, Morton Feldman e Giacinto Scelsi, oltre ad altre fonti più riconoscibilmente jazz, ovviamente. È molto difficile scrivere di musica improvvisata al giorno d'oggi, come ripete Bruce Gallanter, il mitico proprietario della Downtown Music Gallery, qui a New York: «la stampa specializzata deve oramai essere iper-specializzata e onnivora al contempo per rapportarsi al materiale di cui scrive». Il critico Kyle Gann coniò alcuni anni fa il termine "totalismo," che mi sembra decisamente pomposo, ma non troppo fuori luogo. Non ho da lamentarmi, ripeto, per come il disco è stato accolto dalla critica. Alcuni lo hanno definito "il disco che gli ammiratori di Tronzo aspettavano da tempo," e questo mi ha emozionato particolarmente.

AAJ: Sul palco, come ti relazioni con l'improvvisazione?

G.M.: Affronto l'improvvisazione da angoli molto diversi a seconda del contesto sonoro, dell'idioma, o dell'assenza di idioma, e a seconda dei musicisti con cui suono. Per ottenere un livello ottimale di articolazione sonora e strumentale e la massima attenzione al dettaglio, ci vuole molta disciplina. Non concordo con Berio - che ammiro moltissimo, peraltro - quando dice che l'improvvisazione difetta di articolazione rispetto alla musica scritta, proprio in senso di frammentazione linguistica, di divisibilità in particelle di senso musicale, e soffra di un appiattimento di comportamenti e reazioni da parte dei musicisti; una critica, questa, condivisa anche da Stockhausen. Credo che l'improvvisazione possa invece raggiungere la massima articolazione, precisione e ricchezza di dettagli quando a farla sono musicisti che hanno il range adatto. Nel complesso, comunque, non affronto l'improvvisazione come faceva ad esempio Derek Bailey, nel suo essere aperto a lanciarsi in qualsiasi avventura sonora: preferisco cercare di oggettivare quale sia la specificità che può nascere da una precisata situazione musicale, per capire su quale terreno comune e con quali comuni interessi ed obiettivi la musica si muoverà.

AAJ: Nel tuo profilo su Myspace si possono ascoltare alcuni brani, vedi "Il senno di Orlando," tutt'altro che convenzionali.

G.M.: Questo mi ricorda che dovrei aggiornare la pagina di Myspace. Scrissi quel pezzo anni fa a Boston, in un periodo in cui avevo un trio con Dave "Fuze" Fiuczynski. L'idea del trio era di unire melodie microtonali e di stampo mediorientale a grooves e suoni urbani e funk, in pieno stile Fuze, insomma. Il pezzo fu scritto per quel progetto, oramai defunto, e oggi scrivo musica decisamente diversa. Tuttavia, più in generale, lo sperimentare ha senso quando l'obiettivo è chiaro, circoscritto. Per questo mi piace il lavoro di Alvin Lucier, Ligeti, Henry Threagill, Alasnoaxis, Evan Parker e Marc Ribot, per citare alcuni nomi: per la chiarezza con cui definiscono il campo di indagine su cui sperimentare. E talvolta il campo può essere così piccolo da risultare impercettibile. Una sperimentazione segreta, diciamo.

AAJ: Quali sono gli aspetti sui quali vuoi concentrarti per progredire ulteriormente e i punti di forza del tuo modo di fare musica?

G.M.: Ti rispondo riprendendo da dove sono rimasto con la domanda precedente. Il processo di chiarimento degli obiettivi espressivi è un percorso entusiasmante, ma tortuoso. Idealmente sto lavorando per collocare le varie esperienze e i vari generi in un quadro coerente, in un output variegato ma con denominatori estetici comuni. Per mia fortuna collaboro con persone che danno a questo processo, per quanto difficile, un senso e delle prospettive. Per dirla con gli Strokes, "I Am Working so I Won't Have to Try So Hard".

AAJ: Se accendo il tuo iPod, cosa trovo in play?

G.M.: Prendendo il treno per muovermi tra Brooklyn, Manhattan e il Queens quotidianamente, uso molto il mio iPod. Ultimamente però vi ascolto quasi solo podcast, uno con cui studio cinese e quello di "Battiti," l'ottima trasmissione di Pino Saulo su RadioTre. Più in genere, parlando di un ascolto più attento e mirato, nelle ultime settimane ho passato molto tempo con lo splendido Seremoniè di Skuli Sverrisson, da poco ristampato; sto anche ascoltando un disco di composizioni per solo strumento di Braxton pubblicato da Hat Hut e un disco che raccoglie alcuni lavori da camera di Stefan Wolpe e di musicisti del suo circolo. Inoltre, ultimamente c'è spesso Ayler nel mio stereo, in particolare nel trio con Gary Peacock e Sunny Murray.

AAJ: Nella tua vita, oltre che per la musica, quali altri interessi o passioni coltivi?

G.M.: Il bello e il brutto di fare qualcosa che è finalizzato all'espressione di sé nella vita, è che è difficile demarcare i territori. C'è il rischio di sconfinare nell'ambito dell'ossessione e dell'egomania, ma è un rischio da correre. In generale, mi interessano artisti con idee fisse portate avanti su larga scala, come i pittori Rothko o Barnett Newman, o come lo scrittore Italo Calvino. Seguo la danza moderna con grande interesse (mia moglie è una ballerina qui a NYC e pure mia sorella, a Genova): l'anno scorso andai a vedere Merce Cunningham in una delle sue ultime apparizioni, poco prima che morisse. Fu un'esperienza speciale. I miei altri interessi sono prettamente materialistici, e molto banali: la buona cucina, la grappa, le metodiche corse a Prospect Park, qui a Brooklyn, e poi l'Inter.

Foto di Nick Lee (la prima), Pawelek (la seconda), Monia Lippi (la quarta) e Matteo Monforte (la quarta)

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