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Steve Reich 70

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Le etichette, gli ismi, più che utili sono divertenti.

A evocarli ne cogli tanto il senso profondamente riduttivo, ridicolo direi, quanto il grottesco appeal storiografico-commerciale, quasi un’impostazione di marketing che, una volta evocata, si tiene in piedi da sé, indifferente alle correzioni, alle prese di distanza, agli aggiustamenti.

Di ismi ne conosciamo a decine, centinaia: alcuni hanno avuto fortuna, altri meno. Da parte loro gli eroi, i protagonisti degli ismi in questione, reagiscono quasi sempre alla loro maniera: rifiutano l’inscatolamento pernicioso delle etichette e rivendicano una singolarità artistico-autoriale immune da facili catalogazioni. Tutto coerente, tutto come da copione.

Ora: Steve Reich, “il più grande compositore americano vivente” secondo il Village Voice, può sbracciarsi e protestare quanto vuole dall’alto dei suoi 70 anni appena compiuti e dello status finalmente raggiunto nella (una volta tanto disprezzata) Accademia; ma che lo voglia o meno, il suo nome resta lì, a fianco - e a questo punto diremmo pure sopra - i famigerati “altri tre” che negli anni ’60 diedero vita all’ultimo fortunato ismo della musica contemporanea: proprio lui, quel suono “ripetitivo” ed “eterno”, che Tom Johnson - o era Michael Nyman? - ribattezzò minimalismo.

Veramente, nella parabola reichiana c’è tutto l’epos - tipicamente americano, d’altronde - del marginale iconoclasta che diventa modello di successo. Vale la pena ricapitolarla, questa epopea sgargiante, questo curioso processo additivo che dura da quarant’anni, e che non ha senso se non facendo riferimento proprio a quegli “altri tre” sopraccennati. E allora: sono i primi ’60 quando LaMonte Young (non da solo: il contributo di un Tony Conrad, ad esempio, vale la primogenitura, come dimostrano le recenti polemiche su “chi ha inventato cosa”) concepisce quella eternal music senza tempo e senza spazio, un drone infinito in pieno riflusso post-Fluxus e post-Cage.

Tra i sodali di Young c’è da subito Terry Riley, forse il vero padre del minimalismo per come il mondo avrebbe imparato a conoscerlo: la stasi “in do” di In C, che nel 1964 introduce il concetto di ripetizione, è veramente l’opera-madre di un intero movimento, e lo sa bene proprio Steve Reich, che di In C fu uno dei collaboratori nella prima californiana.

Tornato nella sua New York, Reich impara in fretta, ma soprattutto si inventa il phasing, il progressivo accavallamento di una voce sull’altra che dapprima sperimenta in una serie di indimenticabili opere per nastro, e poi porta a conclusione in versione “umana” con la formazione di un proprio ensemble di musicisti, tra i quali Philip Glass.

Una volta messosi in proprio, Glass - nel pantheon minimalista “l’uomo della circolarità” - diventa a torto o a ragione l’ultimo dei grandi, il quarto vecchio del minimalismo storico. Di certo è a lui che arriderà il successo più evidente, dopo anni diremmo di gavetta, spesso assieme agli altri tre, nelle gallerie d’arte, in contesti giovanili para-rock, al di fuori delle tradizionali istituzioni musicali che, da subito, si premurarono di rifiutare la repetitive music in quanto degenerazione minore di istanze troppo poco in linea con l’ortodossia accademica del tempo.

Le cose, da allora, sono molto cambiate: e per un Glass che vive del suo status di stellina mainstream, producendosi in una serie di opere da buoni trent’anni una più imbarazzante dell’altra, per un Young troppo ancorato a una versione monomaniacale del proprio verbo, per un Riley simpatico freak fuori tempo massimo, c’è appunto un Reich che, pur tra mille cadute, si è saputo costruire una credibilità musicale e personale solida e soprattutto trasversale, riuscendo ad accontentare più o meno tutti: nostalgici dell’avanguardia che fu come conservatori della musica di oggi, eroi della generazione techno come outsiders della composizione “totalista”, sperimentatori rock poco allineati come infatuati dei neobarocchismi postmodern.

Non stupisce quindi l’enorme apparato messo in piedi per festeggiare i suoi 70 anni, una serie di celebrazioni che vanno da New York a Londra, da Los Angeles a Parigi, un calderone in cui, a tributare omaggi al maestro, ci pensano nomi altisonanti e lontanissimi tra loro come Gavin Bryars e Dj Spooky, Glenn Branca e i Coldcut, Kronos Quartet e Konono No 1, Brian Eno e Pat Metheny, Bang On A Can e Philip Jeck, fino ad arrivare a quel Michael Nyman che per primo, nel suo “Experimental Music: Cage and Beyond”, lo pose quale erede ultimo della tradizione sperimentale americana, concedendogli il posto d’onore (a chiusura del libro) nella sua disanima sulle musiche del dopo Cage.

Intendiamoci: Reich va e deve essere ricordato soprattutto per quelle che vengono considerate le prime due fasi della sua carriera: un decennio appena, che parte dai tape loops di "It’s Gonna Rain" (1965) e arriva al capolavoro assoluto Music For 18 Musicians (1976). Quello che viene dopo, è in buona misura maniera: quasi sempre genuina, dallo slancio sincero, con pure buoni momenti che sia critica che pubblico dimostreranno di apprezzare assai; ma anche con qualche scivolone irraccontabile, degno di rivaleggiare con le più tronfie composizioni glassiane in termini di pochezza contenutistica e autoreferenzialità formale. L’ultima "Daniel Variations", ad esempio, composta proprio per le celebrazioni dei 70 anni e presentata in prima assoluta a Londra, è sembrata alle orecchie di chi scrive il modo peggiore per festeggiare l’occasione (il che non ha impedito la standing ovation finale, col pubblico intento ad applaudire non certo la musica quanto il personaggio, e questo basterebbe a dare la misura dell’evento e il senso delle celebrazioni in sé).

Ma a questo punto si tratta di particolari, di note a margine. Reich è sì stato l’inventore di un canone che ha fatto scuola, andando a influenzare non solo le mandrie di post-minimalisti americani e inglesi (ma anche italiani, francesi, ungheresi ecc) che dalla fine dei ’70 porteranno a un nuovo stadio il percorso iniziato dai quattro vecchi di cui prima; ma anche generazioni intere di musicisti popular, con un ascendente particolare sull’underground rock degli anni ’70 e ’80 e sulle nuove leve elettroniche che dai ’90 portano a oggi. Una reputazione, quella del Reich al tempo stesso raffinato compositore tonale e ardito tessitore di phasing, patterns, pulses, shifts e così via, esaltata già a suo tempo in quell’operazione tanto discutibile nei risultati quanto sintomatica nei propositi che fu Reich Remixed, laddove una piccola pletora di dj e musicisti di area elettronica tentarono - fallendo - di aggiornare il lessico del maestro in modo da renderlo meglio appetibile alle nuove sensibilità digitali. Non ce n’era bisogno, che tanto i capolavori di Reich, pur manifestazione esemplare di un clima e di un’epoca ben precisi, suonano infiniti ancora oggi, senza additivi altri. E però, in nuce, già c’era quell’atto di riverenza che porta ai festeggiamenti del 2006, ossequiosi e persino pedanti nella loro ufficialità, ma non per questo meno sentiti, meno sinceri. Reich, più che il più importante, è soprattutto il più amato compositore americano vivente: lo è in virtù del suo umorismo mite, lo è per quella sua disponibilità all’ibrido, per la facilità con cui si apre alle suggestioni che gli piovono addosso dai suoi figli putativi, per quel cappelletto da baseball che lo accompagna da anni in ogni sua apparizione pubblica; e che sia o meno quello che dice il Village Voice (altri, in fondo, potrebbero aspirare al titolo), resta nondimeno una figura centrale, imprescindibile, per chiunque voglia capire le forme del presente - musicale o meno che questo sia.

Steve Reich in cinque dischi

Nota: dei lavori di Steve Reich esistono infinite versioni, quasi sempre di buon livello, ad opera di ensemble di un certo peso come Bang On A Can, Smith Quartet, Alarm Will Sound ecc, nonché di diverse orchestre europee e americane. Lo stesso Reich inoltre, ha in seguito rivisto alcune delle sue pagine più note: di Music for 18 Musicians, ad esempio, esiste una versione più lunga edita da Nonesuch nel 1997, di Drumming una più breve del 1992. Si è scelto qui di prendere in considerazione le incisioni storiche, aventi come esecutori o il solo Steve Reich, o il suo Ensemble, oppure la formazione allargata a nome Steve Reich & Musicians, tutt’oggi l’orchestra “ufficiale” del compositore; uniche eccezioni sono "Different Trains", concepita per il Kronos Quartet, e "Electric Counterpoint", per Pat Metheny. I dischi qui presentati sono dunque o antologie di materiali preesistenti, o incisioni d’epoca ristampate in seguito, a volte da etichette diverse da quelle originali.

Per un approfondimento sul periodo ‘70, si consigliano inoltre il Live 1977 alla galleria The Kitchen di New York (Orange Mountain Music) e il trittico Octet/Music for a Large Ensemble/Violin Phase uscito su ECM. Una panoramica esaustiva è infine data dal monumentale box Steve Reich 1965-1995 (Nonesuch), di ben dieci CD, ora ridotti a cinque sotto il titolo Phases: A Nonesuch Retrospective.

Early Works (Nonesuch)

È opinione comunemente diffusa che il minimalismo prese piede negli anni ‘60 del ‘900 come reazione al serialismo e all’avanguardia “di tipo viennese” imperversante nel secondo dopoguerra - e pazienza se lo stesso LaMonte Young dichiarò che proprio da Webern trassero spunto le sue prime riflessioni sul tema della ripetizione.

Da parte sua il Reich degli inizi, quello di brani come "The Plastic Haircut" e "Livelihood" (qui non contenuti) si muoveva in direzione diremmo concreta, attraverso un lavoro sui nastri parente lontano di quanto avverrà in seguito. La svolta arriva nel 1965: "It’s Gonna Rain" è un tour de force per doppio nastro magnetico, in cui la voce di un predicatore nero, registrata in strada durante un sermone, viene mandata in loop a scontrarsi con se stessa a furia di ritardi e sovrapposizioni fuori asse, cosicché quello che all’inizio sembra null’altro che un collage vocale diventa un ipnotico incedere di pattern ciclicamente sfasati. Chiaramente ispirato dalla In C a cui Reich aveva partecipato l’anno prima, "It’s Gonna Rain" è un brano chiave nello sviluppo del primo minimalismo.

L’uso del phasing, oltre a diventare una delle caratteristiche più usate (e abusate) dal movimento, diventa da subito la cifra stilistica di Reich, e condiziona buona parte delle sue prime ricerche. Le quali all’inizio insistono sul binomio voce registrata+nastro (l’altrettanto fondamentale "Come Out", ma anche la singolare e tuttora inedita "Oh Dem Watermelons", con cori da osteria) e in seguito tentano di replicarne i principi in chiave eminentemente strumentale: ecco allora arrivare le varie "Melodica", "Reed Phase", "Violin Phase", e soprattutto "Piano Phase" per due pianoforti, anno 1967. A uscirne è una musica dalle strutture nitide ma ossessive, ritmicamente martellante, senza punti di equilibrio, cangiante nella sua apparente staticità. Figure minime che vengono combinate in maniera subliminale, attraverso affastellamenti e slittamenti dagli effetti metrici ambigui, e per questo dirompenti. Una “rivoluzione” che, dai lontani ’60, pare proiettarci all’oggi, di cui questa antologia è riassunto incompleto ma necessario.

Four Organs/Phase Patterns (New Tone)

Due classici assoluti del minimalismo storico, "Four Organs" e "Phase Patterns" sono la quintessenza di quella che Reich chiamò music as a gradual process. A tenere le fila c’è sempre l’idea di portare il phasing dai registratori a bobine all’esecuzione strumentale vera e propria (in questo caso quattro organi elettrici), il tutto attraverso una musica ruvida e scontrosa, ostica e austera, dall’afflato chiesastico ("Four Organs", con gli organi che si allungano su un’ipnosi di maracas) o dal piglio maggiormente aggressivo ("Phase Patterns", un violento intreccio dagli esiti barbari).

Sono le note della New York di Sol Le Witt e Bob Rauschenberg, delle gallerie d’arte “concettuali” e dei loft in cui si ritrova una nuova generazione di musicisti orgogliosamente laterali, contestatari, persino integralisti nel rivendicare un’alternativa senza compromessi all’establishment musicale e culturale dell’epoca. Le incisioni qui contenute, datate 1970, sono quelle storiche apparse originariamente su Shandar, con l’ensemble di Reich (oltre all’autore/esecutore troviamo Steve Chambers, Art Murphy, Jon Gibson e Philip Glass) in forma smagliante. Un passo eroico, pietra angolare per l’ala “dura” del movimento minimale, già destinata al fatale incrocio con l’avanguardia rock.

Drumming (Deutsche Grammophon)

Il 1971 segna per Reich la fine di un ciclo: è l’anno in cui, in maniera crescente, si affaccia l’interesse per le percussioni africane e in seguito balinesi, oggetto di studio e al tempo stesso ispirazione fondante di un’intera estetica; ma è anche l’anno in cui i vecchi esperimenti sul phasing preludono a un allargamento di prospettiva sempre più pronunciato, naturale prosecuzione degli assunti iniziali. Poliritmi, armonia, tonalità: sono queste le direttrici di Drumming, primo grande capolavoro di Reich, qui nella celebre versione del 1974 registrata per Deutsche Grammophon. L’opera si snoda in quattro movimenti che sanno di primitivismi tribali come di elegie arcaiche, in un tripudio di bonghi, marimbe e glockensiepiel.

L’inserimento di voci per una volta non registrate, e che anzi contribuiscono al diluvio percussivo attraverso monosillabi e fonemi astratti, da elemento secondario diventa invece nuovo punto di partenza (con tanto di polemica tra Glass e Reich su chi fu il primo ad utilizzarle in tal senso). A tutt’oggi, Drumming è non solo una delle opere più amate del compositore newyorchese: è anche quella che, forse più di tutte, suscita l’ammirazione dell’ascoltatore. I suoni qui contenuti finiranno per influenzare letteralmente miriadi di musicisti, diventando da subito uno dei più noti marchi di fabbrica reichiani.

Music For 18 Musicians (Ecm New Series)

Candidamente, concedetemi una considerazione strettamente privata, personale: trovo che Music For 18 Musicians sia una delle composizioni più belle di sempre. Come al solito di fronte alla bellezza, gli aggettivi cadono, la descrizione si fa faticosa, e immancabilmente si è tentati di abdicare, ammutolendo l’esegesi e rimandando piuttosto all’esperienza fisica dell’ascolto, all’immersione sensoriale tout-court. Di 18, come viene comunemente chiamata, si è detto e scritto tanto: è uno dei vertici del ‘900, certo, e a questo punto - a trent’anni dalla sua presentazione al pubblico - a dirlo non si rischia nemmeno più la messa in ridicolo, tanto l’opera ha dimostrato il suo potere attrattivo, la sua sempiterna freschezza.

Ma non è solo questo: 18 è un’opera importante, da diversi punti di vista. Per Reich significa il famigerato punto di non ritorno, il momento cioè in cui le aperture tentate in Drumming, e ancor più nella successiva "Music for Mallet Instruments, Voices And Organ", si cristallizzano in un equilibrio fragile ma prodigiosamente solido, capace di tenere l’intera durata dell’esecuzione. Per la storia della musica, 18 è un’esperienza cruciale: rappresenta l’apoteosi di un nuovo sentire che, in quegli anni, finirà per plasmare le sorti di una fetta considerevole della musica di fine secolo/inizio millennio, l’avvento di un flusso sonoro antiteleologico, ipoteticamente senza tempo, infinito, ma ugualmente epidermico, orgasmico, e questo - paradosso! - proprio a partire dalla sua apparente meccanicità, da quella disumanizzazione in cui si nascondo abissi inarrivabili di emotività; non è un caso che il musicologo Robert Fink individui proprio in 18 e nella coeva "Love to Love You Baby" a firma Donna Summer/Giorgio Moroder il momento topico della culture of repetition - e se l’accostamento suona blasfemo, fatevene una ragione.

Per il movimento minimalista, infine, 18 chiude un’epoca. In questo è accompagnata da un’altra prova-simbolo quale Einstein on the Beach di Philip Glass, sempre 1976, altro ideale ponte tra gli originari propositi radicali della scuola minimale e i trionfi del grande pubblico. Il minimalismo, che Reich e soci accettino l’etichetta o meno, finisce qui. A restare ci sono quei suoni, eterni e acroni, che in 18 diventano onda montante in continuo movimento, avvicinamenti/allontanamenti solari oppure carichi di ansietà, esplosioni controllate di una tensione che permea ogni singolo pulse, partorendo infine il respiro immenso di questa vera e propria opera-mondo.

Different Trains / Electric Counterpoint (Nonesuch)

Dopo Music for 18 Musicians, con l’eccezione di "Music for a Large Ensemble" (ideale proseguimento delle linee care a 18) e della fortunata "Octet", Reich entra in una crisi creativa che, significativamente, coincide con la sua canonizzazione all’interno dei circuiti “colti”. Esemplare a riguardo è un’opera come Variations for Winds, Strings, and Keyboards (1979), prima di una serie di partiture per orchestra che, tempo dopo, lo stesso Reich arriverà almeno in parte a disconoscere.

Il newyorchese è a questo punto “integrato” nella tradizione musicale occidentale, e come Glass prima di lui adopera una scelta di retroguardia dagli esiti controversi: da una parte assistiamo a un inaridimento musicale sempre più pronunciato, che si traduce in una messa in regola classicheggiante (e non di rado romantica) delle partiture; dall’altra, forse proprio grazie al processo di normalizzazione, arriva il consenso del grande pubblico, con la critica accondiscendente. La crisi si prolunga per una buona fetta degli anni ’80, e a dire il vero non può dirsi risolta nemmeno oggi. Reich, in fondo, ha già dato, e da lui non ci si può aspettare molto altro che non, nel migliore dei casi, una rilettura vitale quanto basta dei concetti da lui stesso messi a punto negli anni ’70.

Tra i lavori da segnalare nel corso della sua produzione tarda, c’è comunque questo dittico del biennio 1987/1988: "Different Trains", la sua opera più sintomatica dai tempi di 18, si segnala per il ritorno agli esperimenti con voce registrata (ma anche rumori, sirene ecc) e nastro, che diventano l’asse attorno a cui ruotano le figure rallentate o accelerate degli archi, mentre l’esecuzione muscolare del Kronos Quartet regala linee melodiche aspre, poco propense ad ammiccamenti di sorta.

"Electric Counterpoint", per la chitarra di Pat Metheny, rientra invece nella serie di contrappunti iniziata nel 1982 con "Vermont Counterpoint": un percorso sotterraneo e minore, dove però è più facile trovare il Reich meno prolisso e, per questo, più convincente. Il CD contenente le due opere, probabilmente anche per i nomi coinvolti, diventerà tra i più fortunati del catalogo, quantomeno a livello commerciale; il che, senza osare paragoni col decennio d’oro, vale senza dubbio l’inserimento in una discografia ideale, ferma però a quasi vent’anni fa. E né i più recenti esperimenti multimediali, né le parentesi “giovaniliste” di Reich Remixed, sembrano aggiungere granché a una vicenda compiutamente espressasi altrove - a meno di improbabili quanto gradite sorprese.

Foto di Wonge Bergmann (colori) e Jeffrey Herman (B/N)


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