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Sixto Rodriguez all'Auditorium, Milano

Sixto Rodriguez all'Auditorium, Milano
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Auditorium
Milano
22.03.2014

Just climb up on my music / and my songs will set you free. Così cantava, profetico, nel lontano 1971 Sixto Rodriguez, ancora ignaro dell'oblìo che presto lo avrebbe inghiottito in patria, tenendo nascosto al mondo il suo talento per più di quarant'anni, prima che un documentario (l'acclamato Searching for Sugar Man, del 2012) lo catapultasse—e a buon diritto— nell'Olimpo dei grandi della musica mondiale. Mentre il musicista di Detroit si reinventava operaio dopo l'inspiegabile insuccesso commerciale negli Stati Uniti, dall'altro capo del mondo, in Sudafrica, le sue canzoni diventavano la voce di un'intera generazione che lottava contro l'Apartheid.

Difficile dunque non definire un vero e proprio evento il concerto milanese di Rodriguez, che nella sua seconda e ultima data nel nostro Paese—il 22 marzo scorso—ha registrato il tutto esaurito in poche ore dall'annuncio dell'evento. E l'atmosfera, all'Auditorium di Milano, tradisce un'emozione diffusa, palpabile, fin dall'ingresso di Sixto sul palco. Accompagnato dalla figlia, quasi cieco a causa di un glaucoma, incede fino al microfono con passo malfermo, ficcato dentro a un completo viola troppo largo e sformato. Ma bastano le prime note, intonate con voce graffiata e incerta, a toccare nel profondo. Sixto sceglie "Love Me or Leave Me" per aprire, ed è un solo voce e chitarra da mettere i brividi. Per il secondo brano, che sarà proprio l'inno "Climb Up My Music," lo raggiunge sul palco la band che lo accompagna, prima e forse unica nota dolente di questo live, che molto soffrirà dell'evidente inadeguatezza dei musicisti che seguono Rodriguez. Poco empatici, spesso fuori posto—specie la batteria, con un drumming sempre uguale a se stesso, statico e ripetitivo—in più occasioni non sono stati in grado di supportare adeguatamente Rodriguez, restituendo l'impressione di un band assemblata per l'occasione e senza troppa cura.

Ma poco male. Rodriguez da solo è l'evento della serata e lo dimostra il silenzio religioso che accompagna ogni brano che, va detto, si rende necessario per poterlo ascoltare al meglio. Non sono infrequenti infatti dei cali di voce, ma come un diesel Sixto carbura poco a poco fino alla toccante interpretazione di uno dei suoi brani più famosi, "Crucify Your Mind," seguita a ruota da "Can't Get Away" e dalla cover di Elvis, "Blues Suede Shoes" che spiazza un po' tutti. Su "I Wonder" parte all'unisono un coro del pubblico che quasi copre la voce di Rodriguez, così come avviene per l'ormai leggendaria "Sugar Man," autentico emblema della sua poetica musicale, fatta di storie minime, personaggi che vivono ai margini della società, proprio come lo spacciatore di cui parla la canzone, la cui esecuzione viene purtroppo sporcata dal chitarrista della band, clamorosamente fuori tempo proprio sul ritornello. Tra un brano e l'altro Sixto beve un sorso da un tazza dal contenuto misterioso, ma quasi intuendo la curiosità del pubblico sull'intruglio si affretta a precisare che si tratta solo di thè con miele, suggerendo tra le righe che non c'è nulla di più lontano da lui dal cliché del rocker maledetto.

Da qui in poi Sixto infila una serie di cover che riescono a offrire uno spaccato della tradizione musicale cui si ispira: tra queste vi sono un classico del songbook americano come "Unchained Melody," uno dei momenti più emozionanti del live insieme a una trascinante interpretazione di "Lucille" di Little Richard, che manda in delirio il pubblico, così come "Fever" di Little Willie John reinterpretata con un carisma tale da dare l'impressione di essere parte integrante del suo repertorio. Il primo set si chiude con la splendida ballata "Forget It," ma una standing ovation richiama ben presto sul palco Rodriguez per il bis. In rapida successione partono "Inner City Blues," uno dei brani più celebrati del cantautore di Detroit, seguita da "Silver Words," pezzo che regala gli ultimi momenti di pura estasi di tutto il concerto. In chiusura, Rodriguez sceglie una cover di Frank Sinatra dal titolo emblematico, "I'm Gonna Live Till I Die," e ascoltando quella voce spezzarsi sul ritornello sembra quasi possibile cancellare per sempre l'oblìo del passato e rendere giustizia al menestrello della Motor City, mostrandolo meravigliosamente umano e, finalmente, reale.

Foto (di repertorio)
John Rudoff.

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