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Scrivendo e cantando

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Parola scritta e parola cantata: un binomio che appartiene alla fisiologia stessa della canzone, specialmente se d'autore. Non sarà certo un caso, d'altronde, se così tanti cantautori - solo per restare in Italia, Guccini e De André, Endrigo e Vecchioni, Ruggeri, Ligabue, Capossela e tutti quelli che possono venirvi in mente - si sono dedicati, chi prima chi poi, chi più regolarmente e chi meno, alla scrittura in senso strettamente letterario (romanzi, per lo più).

È del resto ovvio che la parola, in una canzone, può assumere un peso più o meno corposo. Ci sono cantautori che hanno scritto quasi solo testi (Pierangelo Bertoli, per esempio) e altri che si sono dedicati unicamente alla musica (e qui ci vengono in mente tre B: Bindi, Battisti e Branduardi). Saranno di preferenza i primi a dedicarsi alla scrittura extra-canzonettara, ma non è nemmeno detto.

Fra gli esempi più fulgidi, per quanto attiene al peso della parola in seno alla canzone, c'è senz'altro Giorgio Gaber. Lui scriveva sempre le musiche, in verità, mentre i testi nascevano da lunghe ruminazioni col suo alter ego (dal quale, sul versante specifico, tutto partiva) Sandro Luporini. Il quale, di stanza a Viareggio e di professione pittore (un po' anche filosofo), storicamente restio a fissare nero su bianco il suo rapporto con Gaber, ha fatto per fortuna un'eccezione nel decennale della morte dell'amico-sodale, pubblicando mesi fa G. Vi racconto Gaber (Rizzoli), ponderoso volume assolutamente imperdibile per chi abbia amato (e naturalmente ami ancora) l'autore di "Porta Romana". Certo: Luporini non di rado tende a scriversi un po' addosso, utilizza un linguaggio volutamente fin troppo colloquiale, scantona e si dilunga, ma il risultato finale sono trecento pagine in cui c'è quasi tutto quanto può farci capire il travaglio e il vissuto di una coppia di autori che hanno reso grande - e di fatto unica, per specificità - la canzone italiana di marca squisitamente teatrale.

Fra i nomi citati poco fa, c'è poi Enrico Ruggeri, il quale alla parola detta si è dedicato persino in eccesso, negli ultimi anni, curando programmi televisivi non sempre impeccabili. Non ha smesso neppure di dedicarsi alla canzone, ma onestamente non è che se ne siano accorti in molti. Oggi torna con un progetto piuttosto ambizioso: un CD/libro - lui che alla letteratura si dedica fin dai tardi anni Ottanta (La giostra, 1989) - in unico package, intitolato Frankenstein (Sony) ed esplicitamente ispirato all'omonima opera di Mary Shelley. Lo compongono tredici canzoni, che si abbinano a una sorta di racconto lungo, L'uomo al centro del cerchio, diviso in altrettanti capitoletti che riprendono i medesimi titoli.

Che dire? Il racconto è un po' farraginoso, pretenzioso, alla fin fine alquanto monolitico nella sua volontà di abbracciare fin troppo scibile umano. Le canzoni, per parte loro, s'impongono soprattutto per l'appeal che la voce di Ruggeri non ha mai smesso di emanare, con testi ora più centrati ora un po' populistici abbinati a musiche - more (quasi) solito - un po' dozzinali, ridondanti, poco eleganti. È evidente che il Ruggeri del "Portiere di notte" o del "Funambolo" (tanto per fare due esempi) quell'eleganza la possedeva, ma parliamo di un bel quarto di secolo fa. Oggi certe "urgenze" appaiono molto meno necessarie, e il prodotto, pur apprezzabile, ne risente, non lasciando particolare traccia di sé.

Un altro libro/CD che val la pena di segnalare è Ammâšcâ (Città del Sole) del Collettivo Dedalus, ensemble calabrese a organico variabile (nello specifico un nonetto, con doppia voce, maschile e femminile, e poi corde e tamburi a profusione) entro le cui maglie i prevalenti echi folklorici (con un sapore assolutamente genuino, scevro da quelle riverniciature, più o meno autentiche nelle intenzioni e felici negli esiti, nate come funghi negli ultimi decenni) si sposano con altri idiomi, non ultimo il jazz (in particolare grazie al multisassofonista - pugliese, lui - Nicola Pisani).

Alla base dell'opera c'è un notevole lavoro di scavo e (ri)creazione centrato sulla parlata dei quadarari (lavoratori del rame) di Dipignano, nel cosentino, studiati in particolare dal glottologo e linguista John B. Trumper, che cura il volume in cui il CD è inglobato (e che comprende un puntuale dizionario della succitata parlata) insieme con Franco Araniti, autore di tutti i testi delle canzoni (undici), e Marta Maddalon. Ne vien fuori un lavoro composito e fragrante, del quale come si diceva si apprezza in primo luogo l'humus antico, atavico, il rigore e la capacità di unire testi e musiche in un tutto assolutamente coeso e inventivo.

Per finire vogliamo segnalare invece due CD puri e semplici, che si devono però ad altrettanti giovani artisti di cui potremmo trovarci a riparlare in un più o meno imminente futuro. Il più interessante è il trentenne forlivese Giacomo Toni, che dopo tre album con la 900 Band giunge all'opera prima interamente a suo nome. Il disco, Musica per autoambulanze (MArteLabel), s'impone per originalità (pensate a un ragazzo degli anni Duemila che ha metabolizzato Buscaglione, e un po' anche Jannacci, e poi s'imbatte in Ciampi: avrete solo una proto-immagine di quello che è l'universo in oggetto), testi chiari, netti, vocalità idem, e musiche puntuali, senza troppi fronzoli, per più versi jazz-compatibili, arrangiamenti eleganti e non privi di arguzia.

Già le prime tre delle dodici tracce complessive, la soffice "Se ti vedo," in piano (lo strumento di Toni) trio, e le più scaltre, estroverse "L'autoambulanza" e "Una giornata difficile," con trombone e clarinetto a soffiare sul fuoco, emblematizzano un po' questo doppio binario, anche se poi è il secondo a prevalere. Così "Maledizione," cruda, a tratti impetuosa, e "Come una specie di mezzo matto" fanno un po' venire in mente il primo Waits, con un taglio teatrale complessivo che può richiamare lo stesso Gaber (come terreno, non come poetica) e che ha nel "Bevitore longevo" un altro episodio assolutamente godibile, felicemente esuberante. Non ci rimane che attendere gli (auspicabili) sviluppi.

Niente male neppure l'astigiano Massimo Lepre, in arte Marrone Quando Fugge, che firma Il Pre-Fagiolismo (Volume!), album piuttosto breve (33,' nove brani) prodotto da Zibba, sulla cui copertina il Nostro ci appare come una sorta di post-rasta, immagine che in realtà ben poco somiglia a quanto troviamo poi nelle sue canzoni. Che sono piuttosto lineari, colloquiali, spesso anche sorridenti nel tracciato musicale come nell'arrangiamento. Non mancano le invenzioni testuali né, qua e là, un certo tono caposseliano, specificamente nel quinto brano, "Modestino," che chiude di fatto una prima parte notevole, cui il seguito non pare aggiungere in proporzione. Lo aspettiamo alla prossima occasione. Con presupposti in ogni caso più che incoraggianti.


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