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Running The Voodoo Down - The Electric Music of Miles Davis
ByThe Electric Music of Miles Davis
Philip Freeman
Backbeat Books
Philip Freeman è un giovane giornalista musicale americano, noto per le sue collaborazioni con Jazziz, il Village Voice, The Wire, Down Beat e altre testate contemporanee. In questo libro (pubblicato da Backbeat Books) affronta la musica elettrica di Miles Davis con un approccio piuttosto disinvolto che non sempre riesce ad essere convincente.
Dichiaratamente Freeman fa una scelta di campo ben precisa sin dall’inizio, quando manifesta la propria incapacità di apprezzare Bitches Brew e allo stesso tempo invece confessa la sua grande ammirazione per On the Corner. Anche se le due opere sono chiaramente da considerare come un continuum dove non si capisce come una possa essere disgiunta così nettamente dall’altra, va aggiunto che un autore si può permettere ovviamente di avere preferenze anche così nettamente contrapposte, ma in questo caso una distonia così acuta dovrebbe essere supportata da un ragionamento critico accurato che invece qui è lasciato piuttosto confuso. Quindi le indicazioni dell’autore rischiano di diventare semplicemente una variazione del giochino ‘mi piace, non mi piace’.
Da questo derivano poi tutta una serie di ulteriori affermazioni estemporanee che lasciano il tempo che trovano, proprio perchè appoggiate su giudizi critici poco argomentati. Si veda per esempio il punto nel quale Freeman sostiene che Pete Cosey come chitarrista batte nettamente John McLaughlin. Affermazione che qualsiasi chitarrista e lo stesso Miles Davis sarebbero pronti a smentire in ogni momento. Questo lo diciamo senza voler togliere nulla a Pete Cosey, chitarrista eccellente ma certamente non in grado di rivoluzionare la storia dello strumento come ha fatto McLaughlin, nel bene e nel male.
Il fatto che Freeman (nato nei primi anni settanta) abbia dichiaratamente scoperto la musica di Davis alla fine degli anni ottanta è un segnale di come la sua ricostruzione di quello che è avvenuto alla fine degli anni sessanta e nella decade successiva sia incompleta e si basi più sulla interpretazione delle influenze a ritroso invece che su una analisi contestualizzata e cronologicamente consapevole. L’impressione è insomma quella di una ricostruzione fatta guardando nello specchietto retrovisore piuttosto che quella fatta con una visuale a trecentosessanta gradi. Anche se il punto di vista di un giornalista cresciuto negli anni ottanta e dichiaratamente svezzato a base di heavy metal offre certamente un punto di vista non consueto che vale la pena prendere in considerazione.
Gli elementi essenziali che ruotano attorno al mondo di Miles sono tutti presenti e vengono discussi a lungo: le influenze della musica nera dell’epoca, da Hendrix a James Brown e a Sly Stone, il rapporto con Teo Macero, la suprema capacità di leadership del trombettista, i difficili rapporti con la casa discografica. Ma è come se la fotografia che li ricostruisce fosse un po’ sfocata e con alcune sezioni montate in maniera bislacca.
Insomma questo è più un libro a tesi che ci racconta le impressioni e i ragionamenti dell’autore, ma che non aggiunge fatti nuovi, non segnala elementi sin qui non utilizzati per aggiungere mattoncini di conoscenza da utilizzare per procedere alla ricostruzione della carriera artistica di uno dei più importanti musicisti del secolo appena concluso. Le 240 pagine del libro sono suddivise in tredici capitoli che non hanno necessariamente uno andamento lineare da un punto di vista cronologico, ma che si sviluppano invece come se fossero dei mini saggi nei quali l’autore esamina di volta in volta un argomento ben preciso. A chiudere il libro troviamo alcune scarne sezioni di approfondimento discografico e bibliografico.
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