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Roberto Ottaviano: su Lacy e non solo

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Il 4 giugno 2004 Steve Lacy moriva a Boston. Non mi pare che la comunità del jazz abbia celebrato adeguatamente il decennale. Eppure il grande compositore, sopranista, leader e pensatore americano, uno dei personaggi unici nella storia del jazz, non solo non può essere dimenticato, ma dovrebbe essere continuamente riscoperto e rianalizzato, in quanto potrebbe fornire uno stimolante propellente per la crescita e la definizione del jazz attuale.

Chi non si è certo dimenticato di lui sono stati Roberto Ottaviano e la Dodicilune, che in tempo di record hanno concepito e pubblicato un doppio CD di notevole spessore. Forgotten Matches. The Worlds of Steve Lacy, inciso nell'agosto 2014 a Cavalicco negli studi di Stefano Amerio, è uscito a cavallo del nuovo anno. Il primo CD vede il sopranista barese alla testa di un compatto quartetto comprendente Glenn Ferris al trombone, Giovanni Maier al contrabbasso e Cristiano Calcagnile alla batteria; in repertorio brani di Lacy, escluso l'ultimo a firma congiunta dei membri della formazione. Il secondo CD ci riporta l'intenso dialogo fra Ottaviano e il pianista britannico Alexander Hawkins; in questo caso le composizioni di Lacy vengono affiancate da temi di Mal Waldron e Harry Miller, oltre ad original dei due comprimari.

Ottaviano è uno dei portabandiera storici del nostro jazz più impegnato, anche se purtroppo non lo troviamo esposto sui palcoscenici concertistici quanto vorremmo. L'occasione di approfondire con lui la genesi e i contenuti del nuovo importante lavoro discografico ha permesso di affrontare anche temi di carattere più generale.

All About Jazz Italia: Nelle liner notes di Forgotten Matches ricordi che, soprattutto in passato, hai sentito l'esigenza di conferire alla tua imprescindibile derivazione lacyiana una risoluzione espressivo- formale tutta tua. Poi lasci irrisolto questo tema, quasi aspettando da altri, giustamente, un'eventuale risposta, un'interpretazione del tuo mondo musicale. In che cosa pensi di esserti distaccato dal modello di Lacy e di aver raggiunto una tua personale cifra espressiva se non proprio stilistica?
Roberto Ottaviano: Steve, artista di origine russa, ha sviluppato una tendenza musicale che qualcuno prima di me ha definito "ascetica." Certo ne sono una conferma i tantissimi concerti e dischi in solitudine, imperniati su di un materiale musicale in costante bilico tra formule modali asiatiche e strutture ripetitive come fossero kõan del pensiero Zen. Tutta questa attenzione verso un approccio orientale, unito al policromo mondo newyorchese degli anni Quaranta e Cinquanta, filtrato dalla lente ebraica delle sue reminiscenze, già pongono il mio mentore in una dimensione a me non proprio vicina...
Sebbene io non mi sia sentito mai particolarmente legato a un certo cliché di artista del Sud, non posso negare che in qualche modo un temperamento più mediterraneo abbia giocato un ruolo importante nell'affermazione della mia personalità. È naturale quindi che sul piano strumentale e compositivo io abbia mostrato un volto, diciamo, più volitivo ed estroverso.

AAJI: A mio parere un aspetto che ti contraddistingue oggi e che viene evidenziato proprio in questo doppio CD è la sonorità: quella di Lacy era insinuante, ironica, forbita, sorniona mentre la tua, per quanto estesa e increspata, risulta più tagliente e decisa, quasi affermativa. Puoi condividere questa impressione?
R.O.: Assolutamente sì. Di certo sono partito da quella ricchezza di armonici che Lacy ha evidenziato, portando in luce uno strumento dimenticato e reinventandone di sana pianta l'identità, e tutto questo è per me un'inesauribile fonte d'ispirazione. Però il mio suono ha incontrato lungo la strada altri colori, altre prospettive. Si è confrontato con la torrenzialità Coltraniana e di conseguenza con quella di Dave Liebman; e poi con la vocalità di Wayne Shorter come con quella che ritroviamo in John Surman, memore delle liriche arie nordiche. Non posso poi non ricordare che io non nasco come sopranista e quindi tutto ciò che ho elaborato all'alto o al tenore anni fa è certamente ricaduto nella costituzione sonora del mio "sopranismo." Ad esempio un accentuato gusto per la parte scura, ed una articolazione varia e mossa, quasi più da tenore.

AAJI: Come hai affrontato le diverse problematiche (repertorio, arrangiamenti, interplay, prove...) dei due CD, cioè delle due formazioni: il quartetto e il duo?
R.O.: Per quanto riguarda il repertorio di Lacy, che è vastissimo, non passa giorno in cui io non scopra qualche nuova composizione; sono anni che trascrivo e catalogo i suoi pezzi. L'editoria ufficiale ci offre pochissimo aiuto (una collezione per la Margun Music di Gunther Schuller, un testo per la Senators di Vincent Lainé) e scarso è il materiale che circola tra gli adepti. Esiste una donazione dei suoi magistrali "notebook" fatta ai Contemporary Music Archives di New York, che ho contattato più volte ahimè senza successo.
In tutto questo lavoro, che mi è servito tra l'altro per preparare un testo di analisi e comparazione, ho selezionato vari materiali coprendo l'arco di circa trent'anni e seguendo diverse tipologie: Songs, Moods, Grooves, Blues...
Ne ho selezionato alcuni brani per il lavoro discografico, fra i quali un paio registrati da Steve forse solo una volta. Nell'affrontarli poi ho scelto un approccio "oggettivo," come fossero dei grandi classici, e quindi lasciandone pressoché intatta la natura formale piuttosto che trasfigurarli attraverso un improbabile arrangiamento. Mi ha fatto piacere però al termine della registrazione sentire Glenn Ferris, che ha suonato tanto con Lacy, affermare di aver scoperto un lato diverso della musica del sassofonista. Come se questi brani avessero ripreso una vitalità più giocosa e diretta, meno ermetica.
Praticamente non abbiamo avuto tempo di provare nulla. È stato come si faceva spesso tanti anni fa (ma ancora oggi succede...): ci si vede in studio, si "cuoce" un po' il brano e poi via, una o massimo due takes. L'interplay in questi casi è un'incognita, ma io posso essere contento del feeling che si è venuto a creare tra noi. Personalmente, per l'esaltante densità e sintesi, ma forse anche per la maggiore varietà tematica, preferisco il duo con Alexander Hawkins, che praticamente al piano reincarna il ruolo di Mal Waldron.

AAJI: Quando e come è nata la collaborazione con lui?
R.O.: Io e Alexander avevamo in comune alcune frequentazioni. Louis Moholo-Moholo, ad esempio, è un musicista al quale siamo entrambi legati, come a tutta la scena musicale anglo-sudafricana, che amiamo e con la quale ci siamo cimentati negli anni. Sia Alexander che io stesso abbiamo arrangiato e suonato alcuni brani di tanti musicisti di questa straordinaria stagione e spesso ci capita di inserirli nei nostri programmi.
Dopo una serie di scambi epistolari è naturalmente scattato l'interesse per fare qualcosa insieme. Un po' complice l'idea del duo con Waldron (col quale io stesso ho suonato a lungo ed inciso...), un po' per l'intenzione di creare una legacy tra Steve e alcuni tra questi artisti sudafricani (in riferimento al gruppo col quale Steve incise The Forest and The Zoo), mi è sembrato quasi scontato chiedere ad Alex se avesse voglia di condividere con me questo tributo. Ci siamo trovati così bene insieme che questo incontro è da intendersi chiaramente come la prima tappa di un percorso che arricchiremo in futuro...

AAJI: Gli altri tuoi lavori discografici degli ultimi dieci anni non si possono definire lacyiani. Sono originali e validi, eppure forse non così motivati e consistenti come quest'ultimo doppio CD. Come se questa "rinascita," il "ritorno di fiamma," una sorta di "muta" (sono espressioni da te usate nelle liner notes) ti avessero dato veramente linfa nuova. È così?
R.O.: Davvero lo speravo e forse in cuor mio, al di là del tributo che pur sentivo di offrire con sincerità, era questo l'obiettivo centrale che mi ero posto. L'occasione ha rimesso in moto un'energia nuova, permettendomi innanzitutto di ritrovare forza come strumentista con tante cose ancora da scoprire e dare. Inoltre quel materiale compositivo mi ha consentito di mettere insieme personalità diverse in combinazione tra loro, ed usufruire dei loro mondi per disegnare un percorso che rappresenti la musica che voglio suonare oggi.
Una musica che riesca ad unificare con naturalezza lo spirito della grande tradizione con l'ignoto di cui spesso parla Wayne Shorter, ma che è anche una visione comune a tanti musicisti europei già dagli anni Sessanta.

AAJI: Poco dopo la registrazione del doppio CD, avvenuta nell'agosto 2014, al festival Talos di Ruvo di Puglia in settembre ti ho ascoltato nell'omaggio a Lacy, ma con una diversa formazione: in trio con gli affidabili Giorgio Vendola al contrabbasso e Enzo Lanzo alla batteria. Sarà possibile ascoltarti in concerto prossimamente sul repertorio lacyiano? Dove e con che formazione?
R.O.: Nel mio lavoro su Lacy, Giorgio e Enzo rappresentano un insostituibile aiuto. Sono musicisti curiosi e completi che vivono qui nella mia terra, dato non trascurabile, e condividono con me questo percorso offrendomi la possibilità di sperimentare in tempo reale e con maggiore frequenza quel che verrà... Al momento mi hanno chiesto il tributo live, sia in duo che in quartetto, il Modena Jazz Festival, il Novara Jazz Festival e il Lagarina jazz Festival...

AAJI: Oltre a queste collaborazioni sulla musica di Lacy, hai altri gruppi/progetti per il prossimo futuro?
R.O.: Prosegue il mio lavoro con il quartetto Pinturas e con Alexander Hawkins, poi sto attualmente scrivendo del materiale originale per diversi ensemble: un quintetto con un altro fiato, vibrafono, contrabbasso e percussioni; il quartetto di fiati Astrolabio, che prende le mosse da una mia passata esperienza, il Six Mobiles; inoltre un'opera con tanto di libretto con musicisti provenienti da background molto diversi. Ci sono poi alcune collaborazioni che partono proprio quest'anno, ad esempio con la cantante albanese Elina Duni, con la quale sarò al Ravenna Festival in giugno, ed una mia idea lanciata a Keith Tippett e Julie Tippetts, tesa a riprendere e mescolare insieme due vecchi progetti: Ovary Lodge e Mujician con la collaborazione di Giovanni Maier e Michele Rabbia.
Le idee non mancano certo, scarseggiano invece organizzatori coraggiosi, che non continuino ad usare il jazz come intrattenimento raffinato, riempiendo i cartelloni di una musica spompata e melensa che ha perso i connotati che la caratterizzavano anni fa.

AAJI: Nelle tue collaborazioni citate si riscontra comunque un'improvvisazione di matrice jazzistica come elemento unificante, come denominatore comune. Quanto t'interesserebbe misurarti in duo o in gruppo con esponenti di formazione totalmente diversa dalla tua, per esempio protagonisti del Pop, o della musica elettronica più impegnata, o del canto etnico più autentico?
R.O.: In generale non sento affatto la mancanza di una collaborazione in ambito "Pop," a meno che non succeda che mi diano un pacco di quattrini (il che non succederà mai, perché c'è già chi fa più che egregiamente questo mestiere...). Diverso sarebbe se per Pop intendiamo alcuni di quei musicisti che sono la testimonianza di una musica borderline, con echi di un certo progressive, di una poesia visionaria nella canzone. Non so, penso a Robert Wyatt o David Sylvian, e poi (tanto per giocare a spararla grossa...) Bjork, Peter Gabriel o Joni Mitchell.
Invece le mie buone collaborazioni con etnie diverse le ho avute e le ho tutt'ora: il grande e compianto amico Francis Bebey (icona della musica africana tutta), Lamine Konté, Salif Keita, e poi Trilok Gurtu, i percussionisti della comune coreana SaMulNoRi...

AAJI: Passiamo a temi di carattere più generale. L'insegnamento oggi rappresenta un importante sbocco professionale per molti jazzisti italiani. Ci puoi sintetizzare la tua pluriennale esperienza in questo campo?
R.O.: Sono ormai più di venticinque anni che insegno nel Conservatorio Niccolò Piccinni di Bari, tanto da essere definito da molti colleghi come un 'decano...' Al di là di questo però posso dire di aver attraversato vari periodi in cui inserire questa esperienza. All'inizio avvertivo la straordinaria opportunità di portare nel tempio della formazione accademica musicale italiana la cultura, il respiro, la letteratura e le modalità del linguaggio afroamericano. Poi gradualmente ho cercato di mettere a punto una metodologia di lavoro, mescolando l'idea di "bottega" con quella dell'aula universitaria. Col tempo però tutto è diventato più difficile. Nel nostro paese l'istruzione pubblica è stata fatta a pezzi ed insieme ad essa tutta la cultura; il risultato è stato quello di produrre generazioni di giovani consumatori, che hanno assunto un facile pragmatismo dal massiccio e feticistico uso del web.
Chi insegna nei Conservatori viene oggi avvilito da una burocrazia inutile e dannosa sotto il profilo del rendimento: gli studenti sembrano diventati tutti fruitori di servizi anziché di 'sapere.' Ad ogni modo io difendo con le unghie e con i denti un bastione, che è quello della consapevolezza storica e sociale di questa musica, cercando di trasmetterne lo spirito prima ancora della tecnica, per evitare la sterile creazione di cloni.

AAJI: Nella famiglia delle ance il sax soprano è uno strumento particolare e sono pochi i sassofonisti che si dedicano esclusivamente ad esso. Oltre ai maestri storici riconosciuti (Bechet, Coltrane, Lacy...), fra i protagonisti degli ultimi decenni chi pensi possa essere considerato un caposcuola?
R.O.: Secondo me, per varie ragioni possono essere considerati capiscuola alcuni dei sassofonisti che ho citato in precedenza, e cioè Wayne Shorter, Dave Liebman, John Surman, Evan Parker e Jan Garbarek. Li considero tali per il fatto che attraverso questo strumento hanno disegnato un carattere, un suono, un fraseggio, una tecnica che hanno prodotto schiere di seguaci in tutto il mondo.

Foto
Sergio Scagliola

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