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Riccardo Brazzale - Direttore Artistico di Vicenza Jazz

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Nel mondo del jazz italiano Riccardo Brazzale è un personaggio ben noto per le attività interconnesse che da decenni svolge con competente coerenza. Innanzi tutto dirige con chiarezza di concezione la Lydian Sound Orchestra, larga formazione attiva dal 1989 e con una decina di CD al suo attivo, che raccoglie alcuni protagonisti dell'ambito veneto. We Resist, il prossimo ambizioso lavoro, sarà pubblicato entro l'estate dal Parco della Musica. Brazzale inoltre è insegnante di jazz, ma non solo, in vari istituti e ricopre un ruolo di responsabilità presso il Comune di Vicenza nel settore cultura. In particolare è da sempre il direttore artistico del festival del jazz vicentino, che fra pochi giorni aprirà la sua ventiduesima edizione. In tale veste lo abbiamo intervistato per approfondire gli obiettivi e i criteri, le dinamiche e la storia dell'importante manifestazione.

All About Jazz: Siamo giunti alla ventiduesima edizione di Vicenza Jazz, che da sempre porta il sottotitolo New Conversations. In tanti anni come sono cambiati gli obiettivi e i criteri nelle tue scelte di programma?

Riccardo Brazzale: Sono responsabile delle scelte artistiche del festival sin dalla prima edizione del 1996. Da allora qualcosa è certamente cambiato, soprattutto da quando il festival ha assunto dimensioni più importanti, per popolarità, per budget, per attenzioni complessive. Al di là delle fondamentali questioni di bilancio, i committenti (cioè, principalmente, il Comune di Vicenza e il principale sponsor in coproduzione, la Trivellato Mercedes) chiedono una certa risposta di pubblico, e in generale di immagine; quindi in fase di programmazione non posso che tenerne conto. Il pubblico stesso richiede rispetto e ha tanti gusti, ovviamente anche diversi dai miei, ma io cerco comunque di non transigere riguardo alla qualità.

Forse una volta azzardavo di più su qualche produzione speciale, ma i costi generali erano indubbiamente inferiori, soprattutto quando si pagava in lire. Se guardo a ritroso certi cartelloni di una quindicina di anni fa, mi accorgo che ora non sarebbero nemmeno immaginabili, per mere richieste di cachet e relativi costi di organizzazione e promozione. In generale il mercato pare ubriaco: molti concerti continuano a costare troppo in relazione alle reali possibilità di incasso. Vale per il jazz come per altre musiche e altre arti performative colte.

AAJ: Tu ricopri, e hai sempre ricoperto, importanti cariche pubbliche, oltre a insegnare e ad essere leader della Lydian Sound Orchestra. Queste cariche e impegni hanno interferito, positivamente o negativamente, nella direzione del festival?

RB: Sono un funzionario del Comune di Vicenza che si occupa di programmazione artistica, in particolare di progetti speciali per il Teatro Olimpico che, come è noto, è un monumento patrimonio dell'umanità. Insegno storia del jazz nei conservatori di Vicenza e Castelfranco Veneto e materie teoriche di tipo classico (teoria, armonia, storia) all'Istituto Musicale Veneto di Thiene, di cui sono direttore. Come sono il direttore della Lydian Sound Orchestra. Posso tranquillamente dire che essere di qua e di là della barricata, musicista e promoter, insegnante e (un tempo, ora non più) giornalista, mi ha certamente giovato, dandomi la possibilità di vedere le stesse cose da angolature differenti.

Ritengo che lavorare da tanti anni in vari campi della cultura (teatro, danza, cinema, letteratura, arti visive, musica classica...) possa caratterizzare le mie scelte, magari allargando un po' le vedute. Come musicista-direttore di festival, credo di avere il primato inarrivabile di minori presenze come artista all'interno del proprio festival. Anni fa mi chiedevo se fosse una scelta che mi danneggiava: ora, a conti fatti credo di no. I lati negativi di tutto ciò? Da collega e spesso amico di musicisti, vorrei poter dire di sì a tutti. Ma è oggettivamente impossibile.

AAJ: Riguardo ai partner organizzativi e finanziari, istituzioni pubbliche o sponsor privati, cosa è cambiato nel tempo?

RB: Il nucleo è stabilissimo fin dalla nascita, con un binomio fra ente pubblico (il Comune) e privato-locale (la Trivellato) collaudato e solido. Avere al fianco uno sponsor invidiabile e molto presente ci ha giovato persino al di là del fatto puramente economico, pur importante ovviamente, perché ha funzionato quasi come una garanzia. Un limite può essere che altri sponsor privati trovano un po' di difficoltà a entrare nella squadra. Negli ultimi anni si è aggiunto poi l'apporto della Fondazione Teatro Comunale di Vicenza che, oltre al rischio d'impresa sugli incassi, ha portato in dote uno staff preparato ed esperienze tutt'altro che trascurabili nel campo organizzativo. Diverso è il caso degli altri enti pubblici. Per motivi direi sostanzialmente politici la Regione non ci segue più da qualche anno. Da un triennio inoltre siamo stati penalizzati (noi come una quarantina di altri festival in Italia, non solo di jazz) dalla mancata attribuzione di contributi statali: è stata ed è una palese ingiustizia ma ho deciso da tempo che non vale la pena tornarci su.

AAJ: Nelle varie edizioni, in fase di stesura del programma del festival hai ricevuto suggerimenti, richieste, pressioni da parte di musicisti, manager o uomini politici?

RB: Certamente sì, ma tutto sommato meno del previsto. Credo che in ogni caso faccia parte del gioco e comunque ritengo di essermi difeso bene: mi è da tempo riconosciuta una certa stima, dovuta sostanzialmente ai risultati, e quindi questo significa una buona autonomia. Con lo sponsor, Luca Trivellato, c'è un rapporto di sincera amicizia e quindi è abbastanza semplice confrontarci. L'attuale assessore alla cultura, Jacopo Bulgarini d'Elci, non ha mai davvero messo becco sulle mie scelte, sicuramente perché il jazz non è la sua cup of tea, ma non meno, immagino, perché lui ritiene opportuna la mia autonomia. Con i miei colleghi-musicisti... è come con gli idraulici o i baristi o con chiunque altro: ci sono sia le persone dotate di buon senso che quelle prive. D'altronde, come dicevo prima, sono nella situazione in cui quasi quotidianamente devo valutare tanti progetti, non solo di jazz e non solo di musica.

AAJ: Negli anni ci sono stati gruppi o musicisti che avresti voluto invitare, ma non hai potuto? E perché no?

RB: Sì, certamente. I crucci più grossi sono sostanzialmente tre. Nel 1999, a un certo punto ero certo che Ornette Coleman sarebbe venuto in duo con Joachim Kuhn, ma alla fine ci dovemmo "accontentare" della presenza di Michel Portal. In quel periodo cominciavano a entrare in scena gli enti lirici italiani che pagavano cifre davvero fuori mercato e per noi impercorribili, producendo una concorrenza anomala. Nel 2002 avevo già messo sul manifesto il nome di Cecil Taylor che poi, a pochi giorni, ci tirò letteralmente il pacco, rivelandosi un interlocutore, diciamo pure, non adatto. Nel 2006, attraverso Stan Tracey, siamo stati a lungo in contatto diretto con Sonny Rollins per rimettere insieme quei due musicisti a cinquant'anni dal Ronnie Scott's, ma l'errore fu proprio quello di aver parlato direttamente con l'artista e a certi livelli decide di più l'agenzia. In altri casi mi sarebbe piaciuto riportare sulla scena certi vecchi artisti un po' ai margini, ma sono stato fermato dalle improponibili richieste di viaggi in comodità, che posso anche capire data l'età. Ma... pazienza.

AAJ: Mi sembra che a Vicenza la risposta del pubblico sia nel complesso positiva e consolidata, anche se di volta in volta bisogna collocare ogni gruppo in uno spazio di capienza adeguata. È così?

RB: Da diversi anni possiamo dire di avere un pubblico che ci segue con fiducia, quasi a prescindere dalle scelte, e questo è da considerarsi indubbiamente un vantaggio, o comunque un piccolo premio dopo tanti anni di lavoro. Però non c'è mai nulla di scontato. I concerti per novecento persone sono sempre meno, soprattutto nel jazz, dove in fondo sono sempre stati rari, e questi in ogni caso non possono mai dare la vicinanza fra pubblico e musicisti, ciò che spesso è il sale di una performance, specie per chi improvvisa. La scelta della sede riguarda la capienza, ma anche la tipologia del palcoscenico, il rapporto tra chi suona e chi ascolta e il tipo di acustica.

AAJ: Proprio per quanto riguarda le sedi dei concerti, nell'ultimo decennio al prestigioso, palladiano Teatro Olimpico si è aggiunto il moderno Teatro Comunale. C'è poi la serie di appuntamenti nei club o in palazzi storici. Alcuni concerti particolari vengono invece dislocati in luoghi anomali (quest'anno il Cimitero Maggiore). Ci puoi chiarire la mappa degli appuntamenti di questa edizione e i criteri che sovrintendono a questa distribuzione nello spazio e nel tempo?

RB: Dal mero punto di vista del richiamo del pubblico, quest'anno ci sono più concerti che avremmo potuto programmare nella sala grande del Comunale: non solo Dee Dee Bridgewater ma anche, per esempio, il duo Rea-Paoli e, per certi versi, Jacob Collier. Ma abbiamo preferito portare Rea e Paoli all'Olimpico per favorire un'ambientazione cameristica (e per questo abbiamo programmato due serate). L'Olimpico è un gioiello che può valorizzare certe situazioni musicali; penso al solo di Rubalcaba, che l'ha espressamente richiesto per costruirvi un video, ma penso anche alla serata dei duo fra Benni e Petrin e fra Rava e Geri Allen.

Collier l'avevo da subito immaginato al Ridotto del Comunale -che tiene 400 persone -perché è la sala che, più di tutte, permette la vicinanza fisica tra performer e pubblico e nel caso di un one-man show mi pare che questa possibilità possa costituire un valore aggiunto. Quest'anno poi abbiamo voluto soffermare l'attenzione anche su sedi museali che stiamo valorizzando, come Palazzo Chiericati e la Basilica Palladiana (dove fra l'altro siamo in salone per il solo di chitarra acustica di Marc Ribot) e poi il Cimitero Maggiore: se il meteo ci aiuta credo che la scelta sulle sculture sonanti dislocate fra le tombe, per la regia di Enrico Intra, potrà riservare belle sorprese.

AAJ: Spesso in passato si è verificato che la sovrapposizione degli orari in sedi distanti fra loro impedisse di assistere a due concerti ugualmente interessanti. Si è riusciti a risolvere questo inconveniente?

RB: È vero e capisco che per qualche ascoltatore molto esigente si possa esser trattato di un inconveniente. Ma in qualche caso la sovrapposizione è stata almeno in parte addirittura cercata, perché consentiva di dare buona musica in alternativa anche a chi non poteva esser presente a certi concerti per preventivato sold out (o in qualche caso non voleva per mere scelta di gusto). Quest'anno ci abbiamo ulteriormente pensato e siamo giunti in qualche caso a sacrificare la possibilità del doppio set in teatro: una scelta considerata da alcuni positiva e da altri meno. È sempre francamente complicato accontentare tutti.

AAJ: "To Be or Not To Play" è il sottotitolo dell'edizione 2017: qual è in realtà il tema di fondo? Quale la logica delle scelte e l'equilibrio fra i gruppi in cartellone?

RB: Pur manomettendo il titolo dell'autobiografia di Gillespie, "To Be or Not To Play" vuole anche spingere sull'essenza del jazz, dove il Play -che come sappiamo sta per suonare, ma anche recitare, giocare e mettersi in gioco -assume un significato importante per il performer improvvisatore. Che senso ha vivere se non suonando, improvvisando, facendo la propria parte e mettendosi in gioco di fronte al pubblico? Questa domanda ha iniziato ad aver più senso con il Bebop, quando non si voleva più suonare per far ballare, ma è oggi più che mai attuale, nella diversità di stili e proposte che differenziano il jazz contemporaneo. Tale diversità quest'anno a Vicenza è caratterizzata da un certo equilibrio fra l'orgoglio nero e quella cultura bianca progressive che è sempre stata una peculiarità di questa nostra musica, sin dai suoi albori. Non sottovaluterei a tale proposito i nuovi linguaggi che sentiremo dai giovani, non solo italiani, al Jazz Café Trivellato Bar Borsa.

AAJ: Oltre ai concerti ci saranno iniziative collaterali (mostre, conferenze...)?

RB: Oltre a una conferenza di Maurizio Franco su Dizzy Gillespie, alla proiezione del film "Enrico Rava. Note necessarie," ad alcune piccole mostre in Basilica Palladiana curate dalla Scuola di Musica Thelonious di Vicenza, in realtà puntiamo molto sulla valorizzazione della pinacoteca civica di Palazzo Chiericati, che da qualche mese è stata ampliata con la riapertura dell'ala novecentesca. La possibilità di ammirare dei veri e propri gioielli della scuola pittorica veneta, dal tardo Medioevo al barocco, per gli appassionati costituirà una bella scoperta.

AAJ: Una caratteristica del festival di Vicenza è quella di pubblicare I quaderni del Jazz, che oltre al programma contengono interventi specialistici. Cosa ci puoi anticipare sui contenuti di quest'anno?

RB: Segnalo alcuni approfondimenti sui rapporti fra il jazz e le altre arti, per esempio con un paio di tributi a Basquiat e ad Amiri Baraka. E poi un ritorno al 1917, quando per la prima volta gli americani portarono in Europa e in Italia qualcosa del loro stile di vita. Compreso il jazz, sulle ambulanze militari.

Foto: Roberto Cifarelli.

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