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(Quasi) trent’anni di Aperitivo in Concerto. Parla Gianni Morelenbaum Gualberto

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Si apre il 13 ottobre con il concerto del quartetto di David Murray con ospite Macy Gray la ventinovesima edizione di Aperitivo in Concerto, la rassegna milanese che ormai è diventata un appuntamento irrinunciabile della domenica mattina per gli appassionati di jazz e musiche contemporanee.

Negli spazi del Teatro Manzoni, in un orario che può sembrare "inconsueto" per l'immagine "notturna" di molte musiche di matrice afroamericana (e che è comunque inconsueto anche per le abitudini programmatorie dei principali spazi dedicati alla musica), sfileranno anche quest'anno molti concerti in esclusiva, da William Parker ai Jazz Passengers, da Junior Mance a Aaron Diehl...

L'occasione ci è sembrata giusta per fare una chiacchierata con Gianni Morelenbaum Gualberto, consulente artistico della rassegna e firma che i nostri lettori conoscono bene.

Una chiacchierata un po' a tutto tondo, sapendo che la facondia, l'esperienza e la finezza di analisi del nostro interlocutore avrebbe toccato corde interessanti anche al di là della rassegna.

All About Jazz: Aperitivo in Concerto è giunto alla sua ventinovesima edizione. Senza attendere la cifra tonda, approfittiamo per fare un piccolo bilancio. Come nasce la rassegna e l'idea di programmare dei concerti alla mattina della domenica? Come ha reagito il pubblico inizialmente?

Gianni Morelenbaum Gualberto: La rassegna è stata inizialmente dedicata alla musica accademica, tant'è che quando, diciotto anni fa, ne ho assunto la direzione artistica (se proprio vogliamo usare "paroloni"), ho programmato per almeno cinque anni autori e gruppi accademici, puntando soprattutto sul Novecento e la contemporaneità, anche extra-europea: da Peter Sculthorpe a George Crumb a Javier Alvarez a Steve Martland a Elliott Carter o John Luther Adams.

In realtà, avrei voluto accogliere nella stessa programmazione sia la tradizione scritta che quella orale (modello che continuo a mantenere fra i cosiddetti "sogni nel cassetto"), il che non è stato possibile, man mano che più complesse si facevano le vicende "economiche" generali. A un certo punto ho optato per una sempre maggiore presenza della musica improvvisata, che in quegli anni era virtualmente assente da Milano, una città dove - invece - la programmazione accademica e istituzionale è persino sovrabbondante (e piuttosto conservatrice).

Direi che il pubblico ha sempre accolto bene le nostre iniziative; credo che Milano sia una fra le poche città in Italia dove è possibile programmare una rassegna la domenica mattina, in un orario che tende a favorire anche quel pubblico che viene dall'hinterland e oltre (persino dal Piemonte o dall'Emilia) e che ha maggiori difficoltà a trattenersi in città fino ad ora più tarda. In questi anni s'è innescato un processo di "fidelizzazione" del pubblico e da lungo tempo, fatti tutti i gesti apotropaici del caso, beneficiamo del "tutto esaurito" ogni domenica, in un teatro che vanta novecento posti.

AAJ: Tra le linee artistiche che innervano i programmi della rassegna, in particolar modo quello 2013/14, c'è un'attenzione particolare agli aspetti più interessanti della creatività afroamericana. Ci puoi dare qualche ulteriore chiave di lettura?

G.M.G: Fermo restando che, se potessi, allargherei il ventaglio di proposte (penso, in passato, alla collaborazione con il Punkt Festival o con l'Absolute Ensemble di Kristjan Järvi o la London Sinfonietta, ai concerti di Louis Moholo, Pierre Dørge, Michel Portal e Miroslav Vitous, Eyvind Kang, alla presenza della danza contemporanea con Jin Xing, Diavolo Dance Theater o con Hubbard Street Dance, la partecipazione di artisti latinoamericani come João Bosco con Gonzalo Rubalcaba, Ivan Lins, Jaques Morelenbaum), è vero che la programmazione ha dato ampio spazio a due esperienze diasporiche che hanno condizionato la cultura occidentale almeno dall'Ottocento sino alla nostra contemporaneità: quella ebraica e quella africano-americana (comprendendovi anche la cosiddetta "Afro-Semitic Experience" e la più contemporanea "Radical Jewish Culture").

Forse per dato del tutto personale (sono nato in Brasile da una famiglia di ebrei polacchi e ucraini e di afro-brasiliani), gli ultimi diciotto anni di "Aperitivo in Concerto" sono stati eminentemente dedicati al meticciato e alle diaspore; in tale ambito, il laboratorio poli-etnico statunitense non poteva non giocare un ruolo forte, trattandosi di un modello complesso, ricco, dinamico, fortemente conflittuale, ancora in espansione e, per certi versi, rimasto unico.

Non penso certamente solo al jazz (il cui mainstream oggi appare in un momento di stasi); più in generale, direi che la presidenza Obama segna in qualche modo la fine del predominio WASP, aprendo la strada a nuove esperienze (quella latinoamericana, ad esempio, in crescita da ben più di un cinquantennio, o le varie espressioni artistiche di origine asiatica) e riproponendo, curiosamente senza minimamente risolverlo neanche parzialmente, il problema di un'identità africano- americana che continua a essere in larga parte emarginata, sofferente, scalzata, di volta in volta, dai "nuovi arrivati": coreani, africani, indiani, pachistani.

Per questo continuo a pensare che la cultura africano-americana rimanga, nella sua problematicità, centrale per qualsiasi approccio al meticciato culturale (di cui il jazz è una fra le tante parti, nonché progenitore di molti altri linguaggi sincretici) anche ai nostri tempi, in cui spesso si tende a sottovalutarne gli sviluppi (in tale ambito è molto interessante anche ciò che sta succedendo in Inghilterra, se penso, ad esempio, ad un artista come Soweto Kinch, a coreografi come Jeanefer Jean-Charles, Kwesi Johnson e Colin Poole ad artisti di varia estrazione etnica come DV8, Michael Clark, Henri Oguike, Akram Khan).

AAJ: Volendo un po' giocare e scegliere i cinque concerti più memorabili di questo trentennio, quale è la tua cinquina?

G.M.G: Difficile scegliere fra i propri "figli"... Direi Max Roach in duo con Cecil Taylor, Ornette Coleman, Wadada Leo Smith & Organic, John Zorn e la sua Masada Marathon o con "Shir Hashirim" e Lou Reed e Laurie Anderson, "Holding It Down" di Vijay Iyer e Mike Ladd, "Pushkin" di David Murray, ma anche Third World Love, Bill Laswell & Material, Michael Blake & Kingdom of Champa.

E mi sono rimasti indelebilmente impressi nella memoria Sam Rivers, Bobby McFerrin con la sua Voicestra, Uri Caine con le Variazioni Goldberg, Andrew Hill, Hank Jones e Tommy Flanagan (il ricordo della sua esibizione mi commuove ancora, a distanza di tredici anni). Non riesco a contenere questi anni in sole cinque testimonianze ma, naturalmente, sono, immagino, un po' "di parte"...

AAJ: Scorrendo il programma 2013/14 mi incuriosisce la presenza di tre esperienze pianistiche molto differenti una dall'altra: Aaron Diehl, Junior Mance e Aaron Parks. Ci racconti un po' queste scelte e anche una tua opinione sulle traiettorie del pianoforte in questi anni? È di questi giorni ad esempio la notizia che il MacArthur Award è stato assegnato a Vijay Iyer. Dove stanno andando gli 88 tasti?

G.M.G: Ogni anno, nella programmazione, abbiamo reso omaggio a esponenti storici del jazz, un'abitudine iniziata con Dave Brubeck quando ancora la rassegna era eminentemente dedicata alla musica accademica: un tributo alla centralità della musica africano-americana e americana nella cultura del Novecento. La presenza di Junior Mance (e in futuro penso a Barry Harris), un artista ben di rado presente in Italia, risponde a tale criterio. Aaron Parks (di cui apprezzo la vena estremamente lirica) e Aaron Diehl rappresentano invece diversissimi approcci ad uno strumento che continua a vantare, fra differenze anagrafiche e stilistiche, esponenti di grande creatività, da Jason Moran a Gerald Clayton, da George Colligan a Bobby Avey, Eric Reed, Ed Simon, Taylor Eigsti, Fabian Almazan, Kris Davis, Aruàn Ortiz, Matt Mitchell, David Virelles, Orrin Evans, Jason Lindner, Aaron Goldberg, Marc Cary, Lafayette Gilchrist e potrei continuare a citare, senza dimenticare la generazione, in parte sottovalutata, dei George Cables, Kenny Barron, degli scomparsi John Hicks e Mulgrew Miller, fino ad arrivare ai più "giovani" Billy Childs (un compositore molto interessante), Donald Brown o Cyrus Chestnut. Senza, ovviamente, citare le "celebrità," da Brad Mehldau a Danilo Perez, Ethan Iverson o Fred Hersch (a suo modo, un sottovalutato), una personalità come Kenny Werner o presenze femminili importanti come Geri Allen, Renee Rosnes, Myra Melford, Sylvie Courvoisier, Anat Fort, Marilyn Crispell, ecc.

Si potrebbe continuare a citare ancora in lungo e in largo, aggiungendo nomi europei, da Bojan Z a Stefano Battaglia (non cito neanche Stefano Bollani, perché non credo abbia certo bisogno di essere ricordato, così come potrei citare artisti "assodati" come Pieranunzi o D'Andrea): d'altronde, sappiamo di vivere da tempo in un'epoca di molteplicità in cui l'aderenza a un'omogeneità stilistica non è necessariamente un requisito indispensabile. Per questo viene facile citare anche appartenenti a generazioni diverse.

Quanto ad Aaron Diehl, mi hanno colpito le sue affinità con John Lewis, un'artista geniale che avevamo invitato ad "Aperitivo in Concerto" e che morì pochi mesi prima di venire a Milano: il concerto di Diehl, infatti, è un omaggio a Lewis e al Modern Jazz Quartet.

La MacArthur Fellowship a Vijay Iyer è semplicemente meritata, è il premio ad un artista di intelligenza e cultura straordinarie, un poeta dall'approccio pressoché scientifico alla composizione e all'improvvisazione, una sorta di melting pot vivente. Possiamo lamentarci, assumere arie nostalgiche (con il passare degli anni è un vezzo cui credo si possa difficilmente sfuggire, immagino abbia ragione Palahniuk quando scrive: You realize that our mistrust of the future makes it hard to give up the past), eppure credo che raramente vi sia stato un periodo storico così ricco di personalità diverse e interessanti. Un periodo sicuramente di transizione, cui forse manca della definizione, ma gli ultimi trent'anni, con il progressivo avvento della globalizzazione, con l'affermarsi di soggetti per troppo tempo negletti o sconosciuti, sono stati in qualche modo sconvolgenti.

AAJ: Prosegue la collaborazione con Nicole Mitchell. Come forse sai, ho intervistato la flautista qualche anno fa e sono da sempre interessato alla sua musica: prova a raccontarmi come pensi stia evolvendo il suo percorso di compositrice.

G.M.G: Direi che Nicole Mitchell è oggi soprattutto un'autrice particolarmente significativa, più ancora che un'eccellente strumentista. Mi pare che possieda una capacità notevolissima di arricchire una struttura formale particolarmente "pensata" e sofisticata con degli squarci di espressività pressoché primitiva.

Direi che con George Lewis (che è però di gran lunga meno incline della Mitchell al melodismo) è la personalità più interessante a colmare il "gap" fra improvvisazione africano-americana e scrittura accademica con risultati che sfuggono alla consuetudine e che mantengono una spiccata tensione sperimentale (spesso assente nell'accademia africano-americana, che si tratti di George Walker o Ulysses Kay, Olly Wilson o Hale Smith) pur facendo uso di un linguaggio che mantiene saldo il suo radicamento nella tradizione popolare africano-americana, secondo un approccio che a Chicago vanta una storia molto ricca.

AAJ: Che tipologie di pubblico hanno affollato e affollano Aperitivo in Concerto? Hai notato cambiamenti nei flussi di pubblico? In particolare il pubblico più giovane a cosa ti sembra sia più sensibile?

G.M.G: Il pubblico di "Aperitivo in Concerto" ha sicuramente attraversato negli anni un processo di "ringiovanimento," ma la musica improvvisata, come certe avanguardie storiche accademiche, attrae poco i giovanissimi, se non in rare occasioni.

Si tratta, perciò, di un pubblico che annovera dai trentenni in su. Non è un pubblico "massificato," è mediamente colto: si tratta di linguaggi musicali che oggi attraggono un pubblico più "rarefatto," non esattamente di nicchia ma che sicuramente non coinvolge più quei numeri di cui un tempo beneficiavano certi festival. Se penso, per ciò che riguarda la mia generazione, alle "sbornie" di pubblico che premiavano (non so con quanta reale coscienza), che so, i concerti di Sam Rivers a Perugia o Villalago, direi che i tempi sono mutati radicalmente.

Il che non mi stupisce più di tanto: il Novecento ci ha abituati ad un marcato iato fra pubblico e "impegno" (per usare un termine di cui si è abusato), che non sempre va addebitato alle presunte manchevolezze degli ascoltatori.

Per quanto riguarda l'Italia, visti i decenni di inazione e indifferenza da parte delle istituzioni, l'assenza di adeguato insegnamento, il livello poverissimo impostoci da radio e televisioni, il generoso ma generalizzato pressapochismo che - salvo eccezioni - ancora grava su Internet... temevo peggio.

AAJ: Avrai forse letto la nostra inchiesta sui festival e i giovani musicisti [Leggi la Parte I, Parte II e Parte III dell'inchiesta]. Senza entrare nei dettagli della nostra inchiesta—che deve ancora terminare—mi farebbe però piace una tua riflessione sui musicisti italiani (non molti sono ospiti di Aperitivo in Concerto, solitamente), su quelle che tu ritieni le più rilevanti problematiche e anomalie del sistema. C'è poi qualche musicista giovane che ti sembra più interessante di altri?

G.M.G: "Aperitivo in Concerto" ha un suo "taglio," cerchiamo di guardare a quello che accade "altrove," possibilmente per trarne un insegnamento. Forse è un approccio parziale e radicale, diciamo che abbiamo e proponiamo delle nostre, anche discutibilissime, "opinioni" (per quanto, per il 2014-2015, intendiamo presentare artisti italiani come Marco Cappelli, Francesco Cusa, Giovanni Falzone in una serie di nuovi lavori).

So bene che in Italia vi sono realtà vivissime e molto trascurate, ancora di più in questo momento di crisi (che difficilmente credo si allevierà a breve termine): trovo discutibile che si propagandi un decantato approccio "privatistico" quando mi pare evidente che il contributo pubblico, erogato e speso con criteri adeguati (il che, si sa, è accaduto di rado), è indispensabile ed è anche manifestazione di civiltà: la cultura è indispensabile per la salute mentale e spirituale di qualsiasi "welfare," e non può essere gestita solo con la filosofia del "pallottoliere" o della "calcolatrice" (criterio cui, ovviamente, è più difficile da evitare per chi rischia in proprio).

È francamente discutibile che i contributi pubblici, ormai ridotti al lumicino, vengano distribuiti eminentemente solo fra istituzioni, forse anche benemerite, che però rappresentano, in gran parte, un baluardo del conservatorismo. Si ha spesso l'impressione, in questo Paese, che dopo la morte di Brahms si sia aperto un baratro da cui fuggire a gambe levate...

AAJ: E i festival? Quale valutazione, quale "consiglio," quale parere può dare un direttore artistico che lavora solo con soldi privati a chi si trova a maneggiare denaro pubblico, con tutte le conseguenze del caso (Assessori che premono, ecumenismi vantaggiosi, poco coraggio, quando non scambi e favori)?

G.M.G: I problemi li hai già chiaramente elencati e non ho nulla da aggiungere, né sono così presuntuoso da voler dare consigli (che implicitamente costituiscono una critica, ed io non ho competenza alcuna per operarla). Il caso di "Aperitivo in Concerto" rappresenta, purtroppo, una rarità: una manifestazione che si sostiene solo con fondi privati. D'altronde, l'imprenditoria italiana non vanta grandi tradizioni nel campo del sostegno alla cultura e spesso la dazione ha l'aria dell'osso già spolpato da gettare in cortile con lo spirito di Maria Antonietta (S'ils n'ont plus de pain, qu'ils mangent de la brioche).

AAJ : Qual è lo stato della musiche afroamericane oggi? E quale quello del jazz (e dintorni) in Italia?

G.M.G: Credo di avere in qualche modo risposto in precedenza. Anche se mi sovviene la risposta (poco politically correct) che dette Leonard Bernstein a un giornalista messicano che gli chiedeva un parere sullo stato della musica in quegli anni (gli anni Settanta): "Oh well... the same guys as ever: Blacks, Jews, Gypsies and Gays".

Foto di Roberto Cifarelli (pubblico del Teatro Manzoni) e Dario Guerini (Dave Brubeck).


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