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Proposte pluridirezionali al Bologna Jazz Festival
Bologna, Modena e Ferrara, varie sedi
27.10-20.11.2016
Oltre a costituire il logo del festival e a illustrare i programmi di sala, le immagini di Gianluigi Toccafondo, virate in bianco, nero e arancione, hanno invaso alcune parti della città, dagli autobus ai pilastri dei portici di Via Indipendenza. Un modo non marginale per qualificare la grafica e la presenza visiva della manifestazione felsinea, giunta all'undicesima edizione. I cangianti e allusivi cortometraggi di Toccafondo, commentati dal rock tonico del quintetto di C'mon Tigre, comprendente Beppe Scardino e Pasquale Mirra, hanno inoltre rappresentato un'insolita anteprima del festival.
Per quanto riguarda l'indirizzo delle scelte artistiche, ognuno dei cinque concerti principali, tenutisi in tre teatri cittadini, equivaleva a un diverso filone dell'attualità jazzistica: una sorta di piccolo campionario per saggiare le preferenze del pubblico, la cui composizione è in effetti di volta in volta leggermente cambiata. Si è iniziato all'Unipol Auditorium nel segno della tradizione hard bop più autentica con The Cookers: David Weiss, Craig Handy, Billy Harper, Cecil McBee, Billy Hart e Antonio Farao che ha sostituito degnamente l'assente George Cables. Il repertorio, comprendente soprattutto brani d'annata di Harper e McBee, ha presentato temi declamatori carichi di esplicita sensualità. L'efficacia dei semplici arrangiamenti e il drumming perennemente debordante di Hart hanno avviato una sfilata di assoli della front line, mettendo in evidenza soprattutto i due sassofonisti.
Una prima assoluta, dal tono vagamente seducente e sofisticato, è stato l'incontro fra Paolo Fresu, Uri Caine e il Quartetto Alborada. Il collaudato duo, del quale è in uscita un nuovo CD per la Tuk, ha aperto il concerto con un Minuetto di Bach, il cui equilibrio settecentesco è stato presto reso sdrucciolo dalla sordina e dalle deformazioni pianistiche, mentre assonanze, lirici abbandoni e swinganti accelerazioni hanno lastricato la strada più frequentata dell'interpretazione di standard. Con l'ingresso del quartetto d'archi si è assistito anche a brani e arrangiamenti inediti, dai diversi umori. L'utilizzo degli archi tuttavia non è sembrato molto diverso da quanto avvenuto in passato con esperienze jazzistiche analoghe: un colore in più, un controcanto o una sottolineatura armoniosa, anche qualche contrasto dinamico, concedendo al quartetto pochi spunti in primo piano. Ottima l'amplificazione, cosa rara al Teatro Manzoni.
Lo Steve Coleman & Council of Balance, al Teatro Duse, ha rappresentato l'espressione più matura dell'attualità afroamericana. A differenza di altre recenti occasioni, nell'unica data italiana la larga formazione del sassofonista era al gran completo con gli archi, le ance e le percussioni del Doelen Ensemble, dando risultati estremamente compatti e convincenti. In questa musica, in cui composizione e improvvisazione si saldano, cellule modulari si sono propagate con insistenza ma sempre variate, disegnando scenari intricati e nitidi come nelle combinazioni di Escher. Ma in alcune progressioni l'intreccio del collettivo si è fatto ancor più affollato, denso e ridondante con effetti incantatori, come le tecniche e le immagini si sovrappongono nelle tele di Sigmar Polke.
Se il concerto dell'ensemble di Coleman ha costituito il vertice jazzistico del festival, una diversa coniugazione dell'attualità è venuta dalla prova -alla quale non ho potuto assistere ma che mi è stato riferito eccellente -del quartetto Aziza (Chris Potter, Lionel Loueke, Dave Holland, Eric Harland).
Una visione della contemporaneità più globalizzata e trasversale ha caratterizzato invece l'esibizione del Kronos Quartet, tornato a Bologna dopo molti anni. La loro acclamatissima performance, ancora al Teatro Manzoni, ha compendiato le musiche di tutto il mondo: dalla Cina all'India, all'Africa, al Canada, dall'alea rumoristica, al minimalismo, al bluegrass, al neoromanticismo. Anche per merito degli arrangiamenti di Jacob Garchik, delle parti preregistrate e di un'amplificazione perfetta si è materializzato un sound collettivo sostenuto, quasi mai edonistico, anzi a tratti aspro, ricco di glissando, di stratificazioni, di distorsioni, fino ai lancinanti finali all'unisono.
Ma il cartellone della manifestazione autunnale comprendeva molti appuntamenti nei jazz club, anche fuori Bologna (il nuovo cooptato Teatro Dadà di Castelfranco Emilia, che ha ospitato il Jeremy Pelt Quintet, e il Torrione di Ferrara, storico partner). Ogni locale ha potuto dare voce alle proprie propensioni. Alla Cantina Bentivoglio, oltre a Barry Harris, Buster Williams e altri, si è potuto ascoltare il recente sodalizio fra Giovanni Guidi e Daniele di Bonaventura, che ha buone idee narrative al suo arco e potenzialità da sviluppare.
Nel piccolo Barazzo, stipato di giovani vocianti in piedi, hanno trovato la giusta concentrazione il quartetto Frontal di Simone Graziano e l'affiatato duo Pasquale Mirra -Hamid Drake, riuscendo a dare il meglio di sé. Fra i set tenutisi al ferrarese Torrione vanno segnalati infine quelli di Myra Melford (già recensito su All About Jazz), con il suo quintetto Snowy Egret, e del Samuel Blaser Trio: le due formazioni, comprendenti musicisti di notevole valore, hanno avuto spunti di grande interesse nel segno della ricerca jazzistica più attuale.
Foto: Daniele Franchi.
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Instrument: Saxophone, alto
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