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Plasmare suono ed emozioni: Roberto Tarenzi

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All'estero esiste la figura del musicista come lavoratore quotidiano, mentre da noi è sempre vista come uno che sta in cima alla montagna e poi scende per fare il concerto.
Roberto Tarenzi suona il pianoforte dall'età di otto anni. Subito studi classici e poi l'attrazione per il jazz, o per la musica che "ti dà la possibilità di comporre istantaneamente qualcosa," come la definisce lui stesso nell'intervista che abbiamo realizzato prima dell'ennesimo volo, questa volta per gli States dove è atteso per la session di registrazione del nuovo lavoro di Rosario Giuliani. Voli che caratterizzano la vita da musicista di Tarenzi, e che lo portano in posti dove poter scoprire nuove realtà, a confrontarsi con i grandi, a capire quello che è l'essere musicista pronto a cogliere l'ispirazione compositiva anche da una semplice pietanza.

All About Jazz: Ci dicevi di essere stato a Londra in questo periodo.

Roberto Tarenzi: Sì, sono appena tornato. Ho suonato in alcuni locali, tra cui il Ronnie's Scott, con Renato D'Aiello. Renato, tenorista eccezionale, è ormai una vera colonna del jazz londinese e gestisce le serate del lunedì al Ronnie's Bar; lì abbiamo fatto un bellissimo concerto con la cantante Rachel Gould. In un altro locale ho suonato con un altro bravissimo musicista italiano da tempo trasferitosi oltre Manica, Enzo Zirilli, che è forse il batterista più richiesto a Londra.

AAJ: Come è lì la scena jazz?

R.T.: La scena londinese è particolare: considerando le dimensioni della città ci sono pochi jazz club veri e propri, ma moltissimi pub e localini con serata jazz settimanale, quindi parecchie gig fisse per pagare l'affitto... Non è un caso che molti musicisti si trasferiscono in Gran Bretagna.

AAJ: Per un periodo, nel 2006, sei stato anche a New York. Cosa ti ha lasciato quell'esperienza?

R.T.: Mi è rimasto lo stimolo e la voglia a fare sempre meglio. Perché è una città che ti mette sempre in discussione e ti fornisce dei modelli molto alti rispetto a quello che fai; mi ha lasciato la voglia di non accontentarmi mai, cosa che - in generale - a volte in Europa un po' succede. Un musicista però deve sempre avere voglia di migliorare quello che sa fare. Tra l'atro tornerò lì tra poco, perché suono nella band internazionale di Rosario Giuliani, che sta realizzando un nuovo disco.

AAJ: Con lui c'è un sodalizio che dura da un qualche tempo.

R.T.: Sì, suono con lui da un paio di anni. Aveva fatto il disco Lennie's Pennies, con Joe La Barbera, Darryl Hall e il pianista francese Pierre De Bethmann, con composizioni originali. In seguito ho fatto dei concerti promozionali con loro proprio di questo disco.

AAJ: A parte il tuo percorso da sideman hai realizzato come leader Involving Evolving Revolving (Alice Records).

R.T.: Sì, è uscito lo scorso anno, a giugno, con delle mie nuove composizioni. C'è anche Stefano Di Battista, un mio amico quasi fraterno, che mi ha aiutato nella produzione di questo disco, fortemente voluto anche da lui.

AAJ: Un titolo particolare. Ha un significato specifico?

R.T.: Significa un po' tutto e niente, perché avevamo queste composizioni di natura e generi diversi: include una cover dei Dire Straits, dei brani pop, altri con metriche contorte e un paio di standard. Volevamo dargli un titolo che potesse indicare queste direttive, infatti le idee di evoluzione e rivoluzione, nel senso di girevole, di girare intorno a un'idea, sono parole che traducono il dinamismo della musica contenuta nel disco.

AAJ: Dinamismo come ispirazione per le composizioni?

R.T.: Solitamente giro intorno a un'idea. L'ispirazione è un qualcosa difficile da definire, può derivare anche essere una pietanza che hai mangiato. Può venir fuori da qualsiasi cosa, da qualsiasi momento della giornata, anche il più semplice. Ogni cosa può darti un'idea da mettere in musica. A me succede così.

AAJ: Come scegli i musicisti per i tuoi lavori?

R.T.: Di solito li scelgo per le capacità e la preparazione, ma la cosa più importante è il rapporto umano e il dialogo che poi si crea. La comunicazione con i musicisti è fondamentale per la riuscita di un lavoro. I musicisti con cui lavoro sono, prima di tutto, degli amici. Come Roberto Pistolesi, con il quale c'è un rapporto molto diretto, o anche Stefano Di Battista con il quale c'è una frequentazione anche fuori dal lavoro. Poi ci sono Dario Deidda e Pietro Ciancaglini, e anche con loro ho un feeling particolare a livello umano.

AAJ: Il tuo album One Day I'll Fly Away (DejaVu) ha avuto un buon riscontro da parte del pubblico. Credi ci sia stato un motivo particolare?

R.T.: È un disco fatto per il mercato giapponese. I giapponesi amano la nostra creatività. Loro sono molto perfezionisti, quadrati e precisi. Hanno caratteristiche diverse dalle nostre, quindi sono attratti della peculiarità dello stile italiano. Ammirano la nostra storia e il nostro estro. Amano gli italiani, il jazz e l'Italia in genere.

AAJ: Tornando alle tue performance all'estero, qual è la differenza fondamentale che trovi ripetto all'Italia?

R.T.: Ce ne sono tante. La più evidente è che, per esempio, a New York il fare musica si vive a livello quotidiano. Nel senso che il musicista ha la possibilità di suonare ogni giorno. Esiste la figura del musicista come lavoratore quotidiano, mentre da noi il musicista viene sempre visto come uno che sta in cima alla montagna e poi scende per fare il concerto. C'è questa idea radicata. C'è una distanza tra musicista e pubblico che da altre parti non esiste.

AAJ: Se avessi l'opportunità di scegliere, con quale grande musicista divideresti il palco?

R.T.: Mi metti in difficoltà. Scelgo però Jack DeJohnette. È sempre stato il mio sogno nel cassetto. Adoro i batteristi. Lui è il migliore del Pianeta.

AAJ: Mentre tra i tanti musicisti con cui hai avuto a che fare, qual è quello che ti ha lasciato un ricordo più profondo?

R.T.: David Liebman. Per me è stato un guru, un mentore e anche, come dire, uno zio (ride, N.d.R.). Una persona con cui ho condiviso momenti importanti, viaggi, difficoltà, e musica. Mi ha insegnato e consigliato moltissimo. Anche solo vederlo per dieci minuti è sempre una fonte di ispirazione. È uno degli ultimi grandi rimasti, che sanno veramente di cosa si sta parlando.

AAJ: Una figura importante del tuo percorso, iniziato con studi classici e poi la folgorazione per il jazz. Una svolta consueta che accomuna molti musicisti. Cosa c'è nel jazz di così irrinunciabile?

R.T.: All'inizio non volevo diventare un musicista di jazz. Ero interessato, quando avevo quindici anni, a suonare della musica - che definivo in maniera un po' ignorante - moderna. Non lo vedevo come un linguaggio fine a se stesso. Certo, devi conoscere gli stili, ma il linguaggio sta sopra la definizione stessa di jazz. O di quello che viene chiamato jazz, che non è altro che composizione istantanea. A me interessava approfondire tutti gli aspetti della musica. Volevo studiare il jazz per essere più preparato, così potevo permettermi, a livello teorico, più possibilità espressive. In realtà poi ho finito per suonare jazz. Quello che mi ha folgorato del jazz è la possibilità di poter comporre istantaneamente qualcosa, che poi può essere chiamato in qualsiasi modo. Trovo affascinante il poter plasmare il suono e le emozioni che si vogliono comunicare.

AAJ: Hai anche insegnato jazz al Conservatorio Giuseppe Verdi di Torino per due anni accademici. È idea diffusa che ci sia un certo livellamento di preparazione dei giovani musicisti a scapito dell'espressività. Sei dello stesso avviso?

R.T.: Un po' è vero. Forse non sono la persona più adatta per parlare di questo, perché non seguo molto le novità discografiche. Però sono dello stesso avviso, si è un po' perso il sentimento. C'è tanta gente che suona con il cuore e altri no. C'è molto impegno, soprattutto in America, per fare bene, nel senso di suonare ad alti livelli. Personalmente cerco di fare quello che realizzo dando la stessa importanza sia all'aspetto tecnico che espressivo. Penso che la preparazione e il sentimento si sospingono e non esisterebbero l'una senza l'altra.

AAJ: Solitamente vai a vedere suonare altri musicisti?

R.T.: In questi giorni no, sto prepaprandomi per la session di New York, sono chiuso in casa. Sono molto concentato su questa situazione. È un nuovo disco con dei musicsiti stratotosferici, bisogna prepararsi nel migliore dei modi.

Foto di Roberto Panucci (la prima e la terza), Rossana Esposito (la seconda), Roberto Cifarelli (la penultima), Carmine Picardi (l'ultima)

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