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Electric Coen

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Era il 2008 quando intervistammo Gabriele Coen, allora interessante ma ancora poco noto sassofonista e compositore romano. Oggi, dieci anni dopo, Gabriele ha sviluppato e messo a frutto la sua ricerca nella tradizione musicale ebraica (già allora aveva pubblicato con la moglie Isotta Toso un libro sulla storia del klezmer, "Musica Errante," edito da Stampa Alternativa) realizzando tre dischi con la sua formazione Jewish Experience e approdando con essa alla prestigiosa etichetta Tzadik Records di John Zorn nella collana Radical Jewish Culture. Torniamo a intervistarlo oggi, per conoscere lo stato attuale della sua carriera artistica, in occasione della recente uscita del suo ultimo lavoro, Sephirot. Kabbalah in Music (Parco della Musica Records).

All About Jazz Italia: Ti abbiamo intervistato ormai molti anni orsono e allora, pur avendo frequentato la musica ebraica con i Klezroym, non avevi ancora iniziato a sviluppare quella che è oggi la tua proposta musicale principale e che ti ha dato maggiore notorietà.

Gabriele Coen: Infatti è stato proprio subito dopo quell'intervista che ho cominciato a lavorare a Golem, il primo lavoro della Jewish Experience. Un disco che fu ascoltato e apprezzato da John Zorn e che mi aprì le porte della Tzadik, con la quale ho poi pubblicato i due successivi capitoli, Awakening e Yiddish Melodies in Jazz. Anche il mio ultimo CD -Sephirot. Kabbalah in Music -appena uscito per Parco della Musica, era inizialmente previsto per Tzadik, ma la crisi del disco non ha colpito solo in Italia e Zorn ha dovuto ridurre le sue uscite annuali da sessanta a venti; così, fatalmente, il mio disco -che era già pronto -è risultato tra quelli esclusi. L'ho allora proposto a Parco della Musica, che lo ha molto apprezzato e ha deciso di pubblicarlo. Per la produzione ho scelto anch'io questa forma di finanziamento popolare che è il crowdfounding, che ho scoperto essere molto interessante: è faticosissimo, perché devi seguire mille cose e mantenere i contatti con tutti coloro che contribuiscono; però allo stesso tempo è un modo per far conoscere la tua proposta culturale anche a nuovi contatti e di farlo in prima persona. Credo che oggi sia uno dei pochi modi per avvicinare la gente all'"oggetto CD," che è in grande disarmo ma che qui assume un valore diverso: i sostenitori del crowdfounding sanno infatti che si tratta di una cosa che hanno personalmente contribuito a realizzare e perciò se ne sentono in parte protagonisti. Inoltre, anche il fatto di ricevere una copia firmata, o altri gadget, è una cosa a cui la gente tiene molto e che torna a dare al CD il valore simbolico che aveva perso, anche a causa della presenza della musica su internet, più o meno gratuita, dopo pochi giorni dalla sua uscita.

AAJ: Tornando alla musica, in effetti Sephirot sembra coerente con la direzione indicata dai tuoi lavori precedenti, anche se mostra alcune evoluzioni originali.

GC: Accanto alla tradizione musicale ebraica, questo disco ha due riferimenti fondamentali: John Zorn, con Electric Masada ma anche con i suoi progetti un po' più easy listening come The Dreamers, e il Miles Davis elettrico, che secondo me resta una enorme miniera inesplorata, perché oltre i dischi più noti e celebrati ce ne sono altri -penso per esempio a We Want Miles o Directions -che sono ancora poco conosciuti. È per questo che le sonorità di Sephirot sono abbastanza diverse da quelle dei dischi che lo hanno preceduto: diciamo che mi sono divertito a fare anch'io una piccola "svolta elettrica." Infatti, nel disco non sono presenti né il pianoforte, sostituito dal Fender Rhodes e dall'organo Hammond, né il contrabbasso, sostituito dal basso elettrico -accanto a quello di Marco Loddo in alcune tracce c'è anche quello di Mario Rivera, bassista degli Agricantus ma anche collaboratore e amico da sempre. Inoltre c'è anche uno spazio maggiore per la chitarra elettrica, perché accanto a quella, storica, di Lutte Berg c'è anche quella di Francesco Poeti. Un'altra caratteristica del lavoro è che ho lavorato sulla costruzione ritmica che si produce nell'interazione tra batteria e percussioni -altro grande insegnamento di Miles -anche perché accanto alla batteria di Luca Caponi ci sono le percussioni di Arnaldo Vacca, uno dei maggiori specialisti dei tamburi a cornice e personalità importante per la musica popolare in Italia, ma non solo per quella.

AAJ: Come spieghi questa evoluzione di Jewish Experience?

GC: A parte gli aspetti strettamente musicali che indicavo, qui è intervenuta la suggestione simbolica proveniente dalla Kabbalah e dall'albero della vita. Una suggestione che mi è sembrata affascinante e che ho approfondito studiando la Kabbalah per alcuni anni, che è una delle cose più antiche e misteriose della cultura ebraica, cuore del suo caratteristico misticismo. Ma che poi ho interpretato come sempre in modo assolutamente laico, anche perché di fondo l'idea dell'albero della vita appartiene a tutte le culture del mondo. La versione ebraica considera le Sephirot come i centri energetici, vitali, che al tempo stesso rappresentano anche le dieci forze della struttura divina. Quindi, divino e umano che si sovrappongono. Ognuna di queste sfere ha caratteri ben precisi: si comincia da Keter, cioè la corona o la testa, la sfera più prossima al principio spirituale, e si arriva a Malkuth, la terra, che è appunto quella più vicina alla materialità della vita. Seguire queste componenti è anche un viaggio attraverso il corpo umano, perché -un po' come i chakra della cultura indiana, ogni sfera rappresenta anche una parte del corpo.

AAJ: Tu come l'hai trasposta sul piano musicale?

GC: Abbiamo scritto dieci brani originali ispirati dai principi filosofico-spirituali della Kabbalah. Musicalmente ci sono ovviamente sonorità che richiamano armonie o scale ebraiche, mentre altre sono più neutre rispetto a quella tradizione e interpretano i principi in modo più libero. Otto composizioni sono firmate da me, "Gevurah" -che vuol dire "forza" -è stato scritto da Pietro Lussu in uno stile un po' funky, molto vivace e divertente che rimanda alla natura del fuoco, e "Tiferet" -che vuol dire "bellezza" -porta la firma di Lutte Berg ed è molto elaborato, appunto esteticamente assai raffinato. Rispetto agli altri album è un lavoro un po' particolare, proprio perché non c'è nemmeno un brano tradizionale e la cultura ebraica è interamente rielaborata all'interno delle nostre composizioni originali. Per questo lo definirei in sintesi un disco di jazz-rock con coloriture etniche, principalmente -ma non solo -ebraiche.

AAJ: Quindi potremmo parlare di un ulteriore passo avanti nell'emancipazione, pur rimanendo all'interno di una tradizione?

GC: Direi di sì: trattandosi di un progetto che fonde spiritualismo e sonorità elettriche, siamo andati nella direzione di una musica che tiene sì conto dell'aspetto etnico, ma che cerca di comunicarlo anche a chi non ne sia un cultore, in particolare a chi si senta più vicino al rock. Negli ultimi anni mi sono riavvicinato un po' a questa cultura musicale, in particolare alle potenzialità della chitarra elettrica, il cui uso permette di entrare in contatto con un pubblico più ampio di quello del jazz, che qualche volta trovo un po' asfittico, un po' pieno di sé. L'idea di fare un disco che andasse al di là del mero "jazz" e che potesse far ascoltare la mia musica anche a chi di solito non si avvicina a un certo tipo di cose faceva senz'altro parte degli stimoli da cui è nato Sephirot.

AAJ: Si tende sempre a ricordarti per questa tua produzione originale ispirata alla musica ebraica, ma tu fai anche molto altro: nella realizzazione di questo CD hai messo a frutto anche qualcuna delle tue recenti esperienze diverse?

GC: Innanzitutto tra le mie composizioni si trovano anche cose che erano nate in contesti e per impieghi diversi: per esempio, un paio provengono da musica scritta per il cinema. E anche la mia esperienza per le musiche di scena in teatro mi è tornata utile per scrivere temi che dovevano illustrare un contenuto spirituale. Poi nella composizione mi è capitato di riprendere certe mie passioni musicale, coltivate in passato: "Binah," che rappresenta la sfera femminile, è un tango, mentre in vari brani sviluppo sonorità un po' alla John Surman, un musicista che amo e che è stato tra i miei riferimenti principali negli anni di formazione, sia musicalmente in senso generale, sia per l'aspetto strumentale -non a caso negli ultimi dieci anni mi sono dedicato a lungo allo studio del clarinetto basso. Da questo punto di vista, anche se nel disco questo strumento è presente in pochi passi, va ricordato come il clarinetto basso avesse un ruolo importantissimo nelle sonorità del Davis elettrico, grazie al ruolo di Benny Maupin in Bitches Brew; perciò mi sembrava importante citare anche questo strumento in un disco che si rifà a quei suoni. Per quanto riguarda invece il soprano, i miei riferimenti -oltre il già citato Surman -sono Paul McCandless, del quale mi piace particolarmente la pulizia del suono che gli viene dalla formazione classica, e ovviamente John Coltrane. Più in generale, ho sempre pensato che un musicista oggi si debba muovere all'interno di una rosa di quattro punti cardinali: la musica classica e contemporanea, il jazz, il rock e la musica etnica. Nel corso della propria vita artistica si può inclinare più verso l'uno o verso l'altro di questi poli e alcuni musicisti possono scegliere di posizionarsi più stabilmente in un determinato quadrante. Io mi sento sostanzialmente al centro della rosa, perché se in questo lavoro mi sono spostato un po' di più verso il jazz e il rock, in altri ho dato maggiore spazio alla musica classica contemporanea -eredità che mi viene da mio padre Massimo, da poco scomparso, che è stato un valente violinista classico e compositore -e a quella etnica, in particolare al klezmer, che peraltro non abbandono mai, mantenendo progetti assai più strettamente tradizionali.

AAJ: Puoi parlarci di qualche interessante esperienza che hai fatto ultimamente?

GC: Una, particolare e che proprio per questo ci tengo a ricordare, è il Tramjazz che si fa a Roma dal 2008, ideato da Nunzia Fiorini e che in questi anni ha continuato a funzionare molto bene, permettendo a noi musicisti di avere alcune date nelle quali sperimentare nuove formazioni e metterle a punto. Un'altra, per certi aspetti ancora più importante, è quella presso il museo ebraico di Bologna, dove da dieci anni porto in anteprima le mie proposte e presso il quale ho presentato i miei recenti progetti originali con Danilo Gallo e Zeno De Rossi -musicisti che, nei rispettivi strumenti, considero al top nel nostro paese. Con loro abbiamo realizzato prima un lavoro sulla musica di John Zorn, poi un omaggio a quella di Kurt Weill, assieme anche a Luca Venitucci alla fisarmonica e Benny Penazzi al violoncello. In questo caso siamo andati a recuperare anche materiali inediti di Weill, il quale -ci tengo a ricordarlo -era figlio di un cantore di una sinagoga tedesca e perciò aveva anche lui un background ebraico, che è appunto ciò che siamo andati a ricercare e a mettere in luce. Adesso mi sto apprestando a realizzare un omaggio a un altro grande musicista con radici ebraiche: Leonard Bernstein, del quale nel 2018 ricorre il centenario della nascita. Sto lavorando su West Side Story -un'opera a mio parere notevolissima per il modo in cui fonde la tradizione classica con quella popolare -e su altre sue musiche meno conosciute, anche qui sempre alla ricerca delle sue componenti ebraiche. Il lavoro lo presenteremo il prossimo anno, sempre al museo ebraico di Bologna.

AAJ: Gallo e De Rossi mi venivano in mente prima, quando descrivevi Sephirot come un passo verso il rock: dopo aver lavorato con due musicisti come loro, jazzisti in costante dialogo con il rock, gli stimoli per un simile passo non devono esserti mancati!

GC: Senz'altro! In particolare Danilo Gallo ha una sorta di "doppia anima," non solo quando suona il basso elettrico ma anche quando imbraccia il contrabbasso. Lavorare con lui è stata una continua fonte di ispirazione. Quanto a Zeno, per me oggi è davvero il miglior batterista italiano, con una straordinaria capacità di produrre dinamiche diverse e di interpretare perfettamente qualsiasi situazione musicale. Abitiamo in città diverse e non vicinissime, altrimenti le nostre collaborazioni sarebbero ancor più frequenti.

AAJ: Nessuna documentazione dei due "omaggi" realizzati con loro?

GC: Per il momento no, ma mi piacerebbe farne dei dischi, anche perché i repertori sono molto originali e interessanti. Nel lavoro su Bernstein loro saranno ancora presenti alla ritmica ma la formazione dovrebbe cambiare, con l'inserimento del pianoforte di Alessandro Gwiss -musicista che ha nelle proprie corde anche la tradizione classica, in questo caso importantissimo -accanto a Benny Penazzi -che tra l'altro ha anche lavorato con Bernstein nell'Orchestra di Santa Cecilia.

AAJ: Parlavi delle tue esperienze nella musica di scena, che hai realizzato sia per il teatro, sia per il cinema: come si muove un jazzista, un improvvisatore, nella realizzazione della musica di scena?

GC: È una domanda insolita, che mi dà però l'opportunità di concludere esprimendo una convinzione che ho ricavato dalla mia esperienza in questo campo, in effetti piuttosto ampia. Credo infatti che, nel rapporto con le immagini e con la drammaturgia teatrale, un linguaggio musicale e armonico nel quale predomini la componente jazzistica possa spesso non essere adeguato. Questo perché da un lato il jazz ha una propria autonomia espressiva, dall'altro contiene già molta informazione e può risultare un po' invadente o quantomeno troppo caratterizzante. Per questo quando lavoro con le immagini cerco di mantenere un linguaggio che tenga conto anche di altre espressioni musicali, per esempio del mondo degli archi -che secondo me funziona sempre molto bene con le immagini -oppure della musica etnica. Potrei dire che spesso, nel rapporto con le immagini, "meno è più," nel senso che è necessario lavorare per sottrazione di informazioni, in modo da far sì che la propria arte non prevarichi quelle con cui interagisce mettendosi di fatto al loro servizio.

Foto: Andrea Sermoneta

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