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Roberto Gatto: vivere sbagliando è una gran perdita di tempo

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Tra una lezione e l'altra, abbiamo incontrato Roberto Gatto nel suo studio presso il Conservatorio di Latina, dove è titolare della cattedra di batteria e percussioni jazz. Ripercorrendo la carriera di uno tra i più illustri batteristi del panorama jazz italiano e internazionale, ne è scaturita una lunga e piacevole chiacchierata fra aneddoti, ricordi e progetti di ieri e oggi...

All About Jazz: Fra i tuoi più recenti lavori spicca un progetto dedicato a Frank Zappa, realizzato insieme ai Quintorigo. Come nasce questa vostra collaborazione?

Roberto Gatto: Ho cominciato a collaborare con i Quintorigo all'epoca del loro esordio discografico. Hanno una grande passione per il jazz e tra i sogni nel cassetto avevano anche quello di coinvolgermi. Mi chiesero di partecipare al disco di debutto, quando alla voce c'era ancora John De Leo, e poi anche al secondo. L'idea di interpretare il repertorio zappiano esisteva da molti anni, da quando abbiamo iniziato a incrociarci in vari contesti concertistici. Personalmente, io avevo questo grande desiderio di fare qualcosa su Frank Zappa perché è stato un musicista che ho amato moltissimo e che ho avuto anche il piacere di vedere dal vivo. Siccome Zappa è pure molto difficile da eseguire, ho pensato che i Quintorigo avessero il giusto organico... giusto e, allo stesso tempo, "insolito" rispetto a quelli che normalmente si utilizzano per eseguire il suo repertorio, che prevedono il recupero integrale delle originali orchestrazioni, oppure organici alternativi, come le orchestre sinfoniche o da camera. Proposi questa idea ai membri dei Quintorigo quando ci incrociammo in un'edizione di Umbria Jazz Winter in cui erano stati invitati per un omaggio a Jimi Hendrix. Dopo quasi un anno ci siamo risentiti e abbiamo iniziato a lavorare. Pensammo al repertorio e soprattutto a chi doveva metterci mano... Alcune cose le orchestrai io, ad altre ci pensarono loro. Poi abbiamo iniziato a provare, a lavorare sui singoli pezzi che ognuno di noi aveva riarrangiato. Ci siamo chiusi in sala prove per una settimana e, dopo aver constatato che il tutto funzionava molto bene, abbiamo iniziato a organizzare un tour, facendo poi un sacco di date. Dopo una pausa di riflessione questo inverno abbiamo ricominciato a lavorare assieme. Il gruppo è pronto e soprattutto la musica funziona sempre meglio. Si parla quindi di una realtà assolutamente operativa, c'è richiesta e ci divertiamo moltissimo nel suonare questo repertorio.

AAJ: Insieme a Danilo Rea ed Enzo Pietropaoli sei stato membro del Trio di Roma. Qual è attualmente lo stato di questo tuo storico ensemble? Si può parlare di scioglimento o di sospensione dei lavori?

RG: Sotto il nome Trio di Roma abbiamo lavorato soprattutto come sezione ritmica accompagnando parecchi musicisti americani. Non abbiamo mai fatto moltissimi concerti solo noi tre. Il gruppo nacque negli anni del liceo, e con il passar del tempo è stato normale che ognuno di noi prendesse una propria strada e sviluppasse una personale idea di musica. Perciò la nostra è stata una separazione serena, anche se di base si può parlare di una sospensione dei lavori... Tre o quattro anni fa abbiamo realizzato un disco, al quale sono seguiti un paio di concerti. C'è da considerare anche il fatto che Danilo ed Enzo, oltre a far parte del Trio di Roma, avevano anche i Doctor 3, formazione per molti versi analoga. Quindi mantenere in vita questi due progetti molto simili tra loro non aveva un gran senso. Inoltre, i Doctor 3 hanno anche riscosso un discreto successo discografico, sin dalle loro prime pubblicazioni, e probabilmente ciò ha anche un po' appannato l'idea del Trio di Roma, nonostante il seguito che avevamo.

AAJ: A partire dagli anni Settanta hai accompagnato molti mostri sacri del jazz statunitense. Quale eredità hanno lasciato nella tua musica, nel tuo stile?

RG: Ciascuno dei musicisti con cui ho suonato mi ha inevitabilmente regalato qualcosa di molto importante, a livello di crescita personale e presa di coscienza di quel che per me significa suonare. Probabilmente al tempo non sapevamo fino in fondo chi avevamo davanti, perché eravamo molto giovani... Negli anni Settanta iniziammo a suonare questa musica e cominciavamo a farci appena un'idea di chi fossero i grandi maestri del jazz. Quando sei giovane e incontri musicisti del genere non ti rendi completamente conto della fortuna che stai avendo. Solo con il passare del tempo capisci che cosa vuol dire avere avuto a che fare con personaggi di quel calibro. Ciascuno di loro ci ha lasciato un enorme bagaglio di emozioni ed esperienze, a volte anche complicate. Avere a che fare con musicisti come Steve Grossman o Chet Baker, i quali notoriamente avevano problemi legati all'uso di droghe e ai loro caratteri difficili, creava sempre una certa tensione all'interno del gruppo. Girare e suonare con loro rappresentava sempre un salto nel buio. Ma superati problemi di tal sorta, che poi erano all'ordine del giorno in quegli anni, in fin dei conti noi eravamo giovani e loro sapevano perfettamente di avere accanto musicisti di talento, così come sapevano che noi imparavamo qualsiasi cosa loro eseguissero. Perciò abbiamo maturato un'esperienza unica, cimentandoci con un tipo di musica dalla quale non si finisce mai di imparare.

AAJ: L'anno scorso c'è stata la reunion di un altro tuo gruppo storico, i Lingomania. Quali sono stati i motivi e gli stimoli che vi hanno portato a suonare di nuovo insieme?

RG: Si può dire che i Lingomania li abbia ritirati fuori io... Sono un tipo abbastanza nostalgico, mi piace riprendere situazioni che sono state molto importanti per me in termini musicali e alle quali sono rimasto affezionato. Lingomania è una di queste, anche perché riascoltando i nostri vecchi dischi ho avuto la conferma che la musica che suonavamo era molto moderna, capace di resistere al passare del tempo. Quindi ho deciso di chiamare Maurizio Giammarco con l'idea di rimetter su la formazione del gruppo ispirandoci a Riverberi, il nostro primo disco. Abbiamo poi finito per allestire una versione dei Lingomania più "jazz," più acustica, meno fusion, mantenendoci sempre sul fronte della musica originale ma rimanendo timbricamente più legati alla tradizione.

AAJ: Parliamo dell'omaggio al secondo quintetto di Miles Davis. Quali intenti ti hanno spinto a varare questo progetto?

RG: Per questo progetto mi sono concentrato su musicisti che hanno segnato la mia formazione musicale. Miles, in quintetto con John Coltrane, come del resto lo stesso Coltrane col suo quartetto di A Love Supreme, sono stati tra i primi musicisti che mi hanno fatto amare il jazz. Grazie a loro ho cominciato a entrare nei dettagli di questa musica, scoprendo poi tutta una serie di personaggi altrettanto importanti, da Charles Mingus a Bill Evans, da Duke Ellington a Count Basie. Ma sono stati loro due, Miles Davis e John Coltrane, che mi hanno davvero appassionato.

Passando al secondo quintetto di Miles... ho sempre amato i loro album. Avevo questa musica nelle orecchie ogni giorno.

Miles non è stato semplicemente un compositore... Ha messo su un quintetto con il quale ha suonato una certa musica, con un preciso stile. Il suono di quel gruppo, così come del resto quello del secondo quintetto di Miles, erano molto caratteristici. Inoltre, si tratta di un repertorio non eccessivamente rivisitato, ragion per cui cominciai a suonare decisamente ispirato a quello stile. L'elemento innovativo di quel quintetto era rappresentato principalmente da Tony Williams, il quale era capace di spostare continuamente l'asse ritmico del gruppo e determinare una grande libertà nell'interplay, rendendo di fatto quel quintetto unico. Ed era esattamente ciò che desideravo accadesse anche nel nostro caso.

Quando un musicista decide di rendere omaggio a musicisti di questo calibro non può non chiedersi come rapportarsi ad una musica ed un repertorio che sono stati affrontati per decenni. È una questione valida tanto nel jazz quanto nella musica classica. Come mai si suona ancora il repertorio di Brahms, o le sinfonie di Bruckner? Il motivo è semplice... Cambiano i direttori, cambiano i musicisti, cambiano le interpretazioni e gli approcci, ma la musica dei grandi compositori continua a rimanere rilevante nonostante il trascorrere del tempo e la ritroviamo anno dopo anno nei cartelloni di qualsiasi stagione classica o sinfonica. Questo vale anche nel jazz. Ovviamente non bisogna fare sempre e solo questo, ma personalmente non trovo nulla di strano nel compiere un recupero di questi repertori...

Ho fatto lo stesso con Shelly Manne, un altro musicista col cui stile ho sempre sentito un senso di affinità e che a me piace moltissimo. Manne, oltre ad essere stato un batterista strepitoso, ha lavorato nel mondo della musica leggera ed è stato un session man molto richiesto. Ha suonato in Pet Sounds dei The Beach Boys e in alcuni lavori di Tom Waits, tanto per fare alcuni esempi. Chiaramente non sto dicendo di essere un session man al pari di Shelly Manne, ma come lui ho sempre avuto molta curiosità anche al di fuori del jazz.

Quando inizio un progetto dedicato ad un musicista, siano essi Zappa, Manne o Miles lo faccio con l'intento di approfondire la mia comprensione del loro lavoro, cerco quindi di leggere, suonare, comprendere il loro genio...

AAJ: Passiamo al progetto Omaggio al progressive rock. Quanto progressive può essere trapiantato in un ambito jazzistico? Come ha lavorato su quel materiale?

RG: Quel lavoro è stato abbastanza impegnativo... Parlo di un'idea che mi sono portato dietro per anni ma alla quale non mi sono mai deciso a metter mano perché ne ero terrorizzato, nonostante io abbia avuto quella musica, quel genere, sempre dentro di me. Quel lavoro scaturì direttamente da una commissione. Fu un'idea che Luciano Linzi della Casa del Jazz mi spinse a concretizzare. Mi sono chiuso in casa e ho iniziato a fare innanzitutto una ricerca su molte band di quegli anni, tralasciando inevitabilmente anche un sacco di musicisti importanti, come i Curved Air o gli Hatfield and the North. Non a caso ho sempre pensato poi di fare anche un volume II, che tra l'altro mi è stato richiesto moltissime volte. Comunque c'erano un sacco di belle cose su quel disco, dai Genesis ai King Crimson, passando per i Pink Floyd e Robert Wyatt. Un album che mi ha procurato una grande soddisfazione perché poi quando l'abbiamo portato in tour abbiamo riscosso un successo pazzesco. Il gruppo era molto bello perché c'erano Fabrizio Bosso, John De Leo, Maurizio Giammarco, Gianluca Petrella, Danilo Rea. Davvero un bell'ensemble.

AAJ: Il tuo ultimo album in studio, Sixth Sense del 2015, può essere considerato una summa del tuo stile e delle tue influenze, dati anche gli omaggi riservati a Ornette Coleman, Dave Brubeck, Duke Ellington...

RG: Sicuramente... È un disco molto jazz, con un organico asciutto e particolare, che vede tra l'altro l'assenza del pianoforte. Ricercavo proprio quel suono e mi sono affidato a musicisti che sono anche ottimi improvvisatori, come Avishai Cohen alla tromba, Francesco Bearzatti al sax e al clarinetto e Doug Weiss al contrabbasso. Parlo di un gruppo che ho assemblato in maniera abbastanza istintiva, pensando a quanto quei musicisti potessero funzionare tra loro, come di fatto è accaduto tra Avishai Cohen e Francesco Bearzatti, che si sono "beccati" subito per reciproche affinità. D'altronde, dopo anni di carriera ed esperienza, ognuno arriva a farsi un'idea su come assemblare i gruppi, o perlomeno dovrebbe già possederla. Il repertorio si è rivelato molto jazz, anche se dispiegato lungo un versante moderno, con largo spazio al free e all'improvvisazione, con omaggi ad alcuni grandi compositori come Ellington e Brubeck. È stata una bellissima esperienza, che ci ha portato anche a fare diversi concerti.

Parlando di improvvisazione, vorrei ricordare anche il Perfect Trio, un'altro progetto a cui tengo molto. Si tratta di un gruppo molto moderno, incentrato sull'elettronica, senza schemi, particolarmente incline all'improvvisazione. Con Alfonso Santimone e Pierpaolo Ranieri abbiamo lavorato per tre giorni in studio, registrando più di quattro ore e mezza di musica e da queste sessioni è uscito fuori un primo disco, pur essendoci materiale interessante per almeno altri due album. Parlo di tre musicisti che si sono trovati in una circostanza ben precisa, alle prese con una tra le cose più difficili da fare, cioè l'improvvisazione, che ovviamente si può intendere in senso atonale, free, oppure legata all'armonia, alla melodia, ma sempre all'insegna di una forte estemporaneità. È stata un'esperienza molto produttiva, maturata con l'idea di non avere nessun legame con pezzi, arrangiamenti o schemi prestabiliti.

Quando un musicista sale su un palco e ha davanti a sé un'ora e mezza di musica "senza paracadute," cioè senza precisi riferimenti o schemi, deve comunque comunicare alle persone che lo stanno l'impressione che si stia eseguendo una musica con una sua forma, pur essendo composizioni estemporanee e non "brani veri e propri." Questa è una pratica che i musicisti del nord Europa hanno assimilato molto più di noi, e personalmente avverto forte la necessità di avere al mio fianco musicisti e improvvisatori di tal genere. Quel che mi manca molto è proprio questo "salto nel vuoto." Qui i musicisti hanno spesso la loro parte davanti agli occhi, leggono, o sono comunque vincolati a una qualche struttura della quale devono essere a conoscenza. Però poi quando sottrai loro questa cosa tendono a soffrire, proprio perché manca l'estemporaneità, che è un fattore importantissimo per ogni musicista, probabilmente il momento in cui chiunque si ritrova a fare i conti con se stesso e con tutto quel che ha appreso lungo un'intera carriera. Cecil Taylor, musicista molto controverso, a volte anche criticato per i suoi concerti di piano solo, ha fatto della musica improvvisata un'arte. In realtà dietro Cecil Taylor c'è un mondo decisamente legato all'astrattismo. Tutto ciò dimostra che ci sono vari modi di improvvisare, ma l'obiettivo finale resta sempre quello di fare intendere a chi ti ascolta che si sta seguendo un tema, una parte, uno schema, quando in realtà si sta improvvisando.

AAJ: Parliamo del tuo quartetto italiano con Alessandro Lanzoni, Alessandro Presti, Matteo Bortone, e del tuo New York Quartet con Nir Felder, Joseph Lepore e Melissa Aldana. Quali affinità e divergenze si possono rilevare tra queste due formazioni?

RG: Negli ultimi anni ho abitato a New York e ho stretto contatti con diversi musicisti statunitensi. Una delle prime cose che ho fatto è stato il mettere in piedi questo quartetto con Nir Felder, Melissa Aldana e Joseph Lepore, con cui abbiamo realizzato anche un disco, tuttavia mai pubblicato ma che abbiamo portato in giro anche qui in Italia. La mia idea era appunto quella di metter su un gruppo e di poterlo vendere anche fuori dagli Stati Uniti. Comunque, ho avuto occasione di lavorare anche con altri musicisti, quindi non si può dire che io abbia avuto un solo gruppo, ma diversi gruppi newyorchesi. La cosa bella degli Stati Uniti è che quando ti crei una rete di contatti e il tuo nome inizia a girare, i musicisti già sanno di te. È come se avessi un lasciapassare.

Quando posso, cerco sempre di tenere insieme un organico fisso, perché lavorare con gli stessi musicisti a un progetto musicale, soprattutto a un sound particolare, è una cosa che richiede molto impegno e tanta condivisione. È quel che accadeva nei gruppi di Miles, dove i suoi musicisti suonavano insieme ed erano forti proprio per la riconoscibilità del loro suono collettivo, una riconoscibilità dovuta al fatto che lavoravano tutti insieme in maniera continuativa. Comunque, ora anche qui in Italia, l'intercambiabilità di cui parlavo a proposito degli States sta cominciando a funzionare, perché al giorno d'oggi ci sono molti più musicisti di prima, soprattutto giovani, abili e già molto richiesti. Quindi è facile che al posto di Alessandro Lanzoni ci sia Enrico Zanisi, o Domenico Sanna, tanto per fare un esempio. Questa mentalità è assolutamente diffusa a New York. Laggiù vale la regola del last minute call, ovvero chiamare un musicista il pomeriggio prima della serata, suonare e mandare naturalmente avanti il gruppo. In passato se veniva a mancare uno dei componenti dei miei gruppi, quasi mi rifiutavo di andare in giro a suonare. La mentalità degli statunitensi è invece differente. Pensa quando Thad Jones e Mel Lewis suonavano al Village Vanguard o Gil Evans allo Sweet Basil tutti i lunedì, per trent'anni... Era impensabile che tutti i musicisti dell'orchestra fossero gli stessi per così tanto tempo. Ogni assente veniva rimpiazzato da un sostituto all'altezza, all'insegna di una intercambiabilità pazzesca.

AAJ: Qual è stata la tua formazione? E quali i tuoi maestri?

RG: In ambito scolastico ho tentato, almeno due volte, di frequentare i conservatori, la prima volta a Roma, la seconda a L'Aquila, ma non ci sono riuscito... Siccome già lavoravo molto non riuscivo a frequentare e soprattutto a studiare. Diciamo che il mio conservatorio è stata la strada, il suonare in giro. Perciò a livello didattico sono arrivato molto tardi a concepire una mia personale idea di insegnamento e ho imparato molto dai grandi batteristi, dai grandi musicisti con cui ho suonato, soprattutto guardandoli e avendo avuto la fortuna di vivere in anni in cui erano ancora attivi. Quelli che mi hanno maggiormente segnato sono Tony Williams ed Elvin Jones, non a caso i batteristi rispettivamente del secondo quintetto di Miles Davis e del quartetto di John Coltrane. C'è pure un terzo batterista che mi ha ispirato molto ed è Buddy Rich. Chiunque ascolta Buddy Rich per la prima volta non può fare a meno di chiedersi quale marziano possa suonare in quel modo. E poi non trascurerei un sacco di batteristi del rock, soprattutto Ginger Baker, John Bonham, Mitch Mitchell che ho avuto anche il piacere di vedere con la Jimi Hendrix Experience al Brancaccio nel 1968, dal momento che mio zio aprì il loro concerto.

AAJ: Come è Roberto Gatto insegnante?

RG: C'è fin troppo materiale didattico fine a se stesso nelle scuole e un grosso limite è rappresentato dal riempire uno studente di esercizi senza poi parlare del suono. Sono necessari sia l'uno che l'altro aspetto e, naturalmente, tanta pratica. Personalmente non ho molto da insegnare a chi già sa suonare. Ci sono sicuramente un'infinità di cose che si possono dire, ma un insegnante non è che deve stare sempre lì, per forza accanto a un allievo. Quando hai avuto una guida che ti ha fatto capire determinate cose è necessario assimilarle, altrimenti si corre il rischio di sbagliare.

E vivere sbagliando è una gran perdita di tempo.
Il fatto che ora i ragazzi abbiano la possibilità di studiare jazz in conservatorio è fantastico. Tuttavia c'è chi semplicemente insegna e chi tiene in molta considerazione il fatto che, al di là dello strumento e al di là di ciò che gli studenti possano studiare o apprendere, ogni insegnante dovrebbe essere innanzitutto un buon divulgatore dello spirito di questa musica per poi entrare nello specifico dello strumento. Gli americani chiamano queste figure jazz educator, come ad esempio lo è Barry Harris. Barry Harris è stato innanzitutto un grandissimo pianista nella storia del bebop, un musicista che ha suonato davvero ovunque e con chiunque, con Charlie Parker, Sonny Rollins, Dexter Gordon, e oggi, a novanta anni, gira ancora il mondo a fare clinic e masterclass sul jazz, con un'impressionante comunità di persone che lo segue. Parliamo di un personaggio che possiede un segreto, che parla di jazz a chiunque, ai cantanti, ai batteristi, ai pianisti. Un musicista capace di spiegare perché una determinata frase suona in un certo modo, perché Charlie Parker suonava in una certa maniera, perché nel blues si usano certe scale. Tutti i conservatori dovrebbero possedere almeno una figura di tal calibro.

Foto: Danilo Codazzi.

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