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Marco Colonna intervista Eugenio Colombo

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Quando abbiamo suggerito al polistrumentista romano Marco Colonna di intervistare un improvvisatore che ammira, la sua scelta è stata immediata: Eugenio Colombo. Quella che segue è la trascrizione della conversazione tra due colleghi d'ancia uniti da stima reciproca e progetti comuni, ma -soprattutto -da una concezione del fare musica che è esistenziale prim'ancora che artistica

Parlare con il maestro Eugenio Colombo è affar serio. Difficilmente non dice esattamente quello che vuole dire, e sceglie con cura il punto di vista e le implicazioni di ogni vocabolo. Musicista incredibile, Colombo non solo è uno dei maestri di musica improvvisata in Italia, ma è anche maestro di sassofono classico e perfino di Yoga. E come ogni buon maestro non pretende di apparire, ma ragiona sulla sua materia in modo sereno, trovandone sfaccettature ogni volta diverse. In poche parole, Eugenio Colombo è una figura necessaria nel panorama contemporaneo di arti e musica resistente.

Marco Colonna: Cominciamo da quello che mi hai detto quando ti ho proposto di scambiare idee per questa sorta di intervista... Hai detto che è un momento in cui tutti parlano, e parlano in qualche modo troppo. Secondo te c'è ancora qualcosa da dire?

Eugenio Colombo: Si, c'è ancora qualcosa da dire, non c'è dubbio, ma è necessario che ci sia qualcuno ad ascoltare. Viviamo in un mondo in cui siamo bombardati da una molteplicità di informazioni, che ci provengono da tante sorgenti diverse, pubbliche e private (televisioni, radio, web ma anche SMS, WhatsApp, FaceBook, Twitter ecc.) in generale l'abbondanza è una buona cosa, ma nello specifico si rischia di confondere cose significative con i "si dice."

MC: La parola ha una sua funzione associata alla forma d'arte che abbiamo scelto come forma d'elezione?

EC: Molti anni fa, quando c'erano i dibattiti dopo gli spettacoli, quindi alla fine degli anni '70, dopo un concerto in un minuscolo comune della Lombardia, qualcuno ci chiese che significato avesse la musica che avevamo appena suonato (ero con Giancarlo Schiaffini e Michele Iannaccone: il trio SIC) la nostra risposta fu che se lo avessimo saputo con precisione avremmo fatto un comizio oppure scritto un libro e/o un articolo. Tutto ciò non vuol dire che non serve parlare, ma che l'ineffabilità della musica produce una informazione specifica, alcuni pensieri non si possono esprimere in altro modo.

MC: È importante poter creare un codice di lettura delle nostre azioni artistiche anche attraverso le parole?

EC: Il codice esiste indipendentemente dalla nostra volontà, va da sé che il codice di lettura del repertorio del passato cambia con il mutare degli eventi (ad esempio la musica religiosa di J.S. Bach: funzionale alla sua epoca, è oggi musica d'arte). Le parole aiutano a comprendere le motivazioni che generano le azioni, più o meno, artistiche.

MC: Per cui, quanto è importante avere dei mezzi con cui attivare questo processo?

EC: Dipende, per qualcuno è particolarmente urgente per altri meno, non saprei...

MC: Quel qualcuno in effetti mi interessa. Sai che condividiamo una passione per i significanti (oltre che per i significati). Riconoscere un'alterità implica l'accettazione di un'identità. Cosa siamo oggi? (ovviamente inteso all'interno della nostra sfera di azione... se no si rischia troppo un approccio alla Marzullo...). Ovvero, limitatamente al nostro contesto territoriale, secondo te, quale parte della società occupiamo? Ne abbiamo una?

EC: Penso che Marzullo non sia poi così male, superficiale e vago su questioni di fondo, ma comunque la sua trasmissione è un prodotto di nicchia, ha creato un approccio discorsivo sul cinema in bilico tra intrattenimento e cultura, dando voce ad autori ed interpreti, ben vengano programmi come il suo.
In passato la figura dell'artista, attore, musicista e/o clown, non era così significativa per "il contesto territoriale" come dici tu, certo poteva dire, scherzando, verità scomode sui potenti, in questo senso Dario Fo, e in modo diverso Ascanio Celestini, hanno spesso celebrato il "giullare" ma la cosa finiva lì, sopratutto se il potente preso di mira sorvolava oppure era distratto da altro. Oggi è più complicato; tutti sono artisti e tutti hanno diritto ai 15 minuti di celebrità, intuiti una quarantina di anni fa da Andy Warhol. Il nostro ruolo è particolarmente scomodo, fino a qualche tempo fa la società (in Italia) sovvenzionava l'arte e gli artisti, quasi indipendentemente dalla richiesta del pubblico, attraverso associazioni e/o attività dirette dalla cosa pubblica: comuni, regioni, stato centrale eccetera. Attualmente la musica, non solo quella di ricerca, ma anche il teatro la danza e il cinema sono in balia delle ferree leggi del mercato e dell'informazione. Per cui è molto complicato trovare la nostra collocazione.

MC: Non lo so... affermare che le leggi di mercato in cui ci si muove influenzino in maniera determinante la nostra collocazione non chiarisce se è possibile trovare alternative secondo te. Per esperienza vedo che cercare risposte "outside the box" sia l'unica possibilità di creare espressioni che siano sia artistiche, sia "politiche."
Credo che non ci sia una richiesta del pubblico ma che il pubblico sia indotto, oramai in maniera totalizzante, ad avere richieste organiche al mercato (qualunque sia la micro nicchia di mercato di cui parliamo). In fondo le espressioni a cui in qualche modo apparteniamo sono state considerate d'avanguardia proprio perchè creavano contesti non catalogabili rispetto alla consuetudine culturale in cui fiorivano.
Dal tuo punto di vista, con un'esperienza storicizzata delle avanguardie alle spalle, con gli strumenti che abbiamo oggi, la questione di un'arte politica (ovvero capace di contribuire al miglioramento del rapporto fra le identità sociali) è possibile?
O più semplicemente, è ancora necessaria una propensione politica dell'arte?

EC: Ma certo!
Strade alternative sono sempre possibili, anche in situazioni ben più difficili e complicate che la nostra.
Ogni azione, artistica o meno, è politica. L'arte è un modo preciso di incidere sulla realtà,
Quando ero ragazzino uno slogan era -il privato è politica -anche se poi nel mondo della sinistra esistevano confini ben precisi, ma questa è un'altra storia.

MC: In che modo incidiamo la realtà? Quale è il nostro potere, di quale cose siamo profondamente responsabili secondo te? Io ci metterei dentro sicuramente l'educazione, la riflessione, la sovversione e perchè no anche la rivoluzone...

EC: L'arte e la musica in particolare agiscono in modo profondo sull'energia o se preferisci sulla "forza della vita," per cui sicuramente educazione e riflessione, sovversione e rivoluzione, aggiungerei che aiutano l'essere umano ad avere una maggiore coscienza di se stessi, in una sfera sottile, impalpabile, ineffabile, ma reale.

MC: E tutti questi discorsi si concretizzano nella pratica di ogni singolo ovviamente. Mi piacerebbe parlare di come sei arrivato ad essere un multistrumentista. Se prediligi uno o più strumenti della tua "famiglia" e come la possibilità di affrontare il suono da prospettive diverse ha influito sulla tua poetica e sulla tua ricerca.
Noto che nella stesura dei pezzi, il materiale tematico spesso utilizza modi e melodie di una tradizione che io sento molto mediterranea. Ma anche universale, pentatoniche e seconde minori non sono appanaggio della nostra cultura esclusivamente. A volte ho l'impressione che il blues sia stato l'universo che ci abbia fatto scoprire come il materiale sonoro tradizionale sia in fin dei conti unico per tutte le genti. In Giappone, come in India, in Messico come in Africa. Insomma la ricerca di materiale comune sembra caratterizzare la tua ricerca melodica, anche se poi gli sviluppi sono estremamente dipendenti da una cultura occidentale e colta. Trovo questo processo di sintesi emozionante ed in qualche modo l'unica possibilità di costruire un linguaggio che possa parlare a più livelli e per cui che possa essere sia "culturale" che "funzionale." Che ne dici?

EC: Casualità, curiosità e necessità hanno caratterizzato i miei primi passi musicali. Nel tempo ho ristretto (relativamente) il campo. Oggi i miei strumenti sono sax alto, sax soprano, flauto e flauto basso, ho abbandonato una miriade di strumenti popolari e strumenti auto costruiti, poi il clarinetto basso, il sax baritono, il sax tenore e il sax sopranino, quest'ultimo dorme sonni profondi in casa, gli altri non li posseggo più.
Il mio interesse per le musiche cosiddette etniche ha radici lontane. Poco più che adolescente ho acquistato (tutti insieme) 11 LP dell'UNESCO, dischi molto diversi tra loro e tutti splendidi. Musiche del Giappone, Afganistan, India, Tibet, ma anche Macedonia, Turchia, Chad, Centro Africa eccetera. Ho studiato flauto e sax in conservatorio e oggi l'insegnamento del sax in conservatorio rappresenta la mia sicurezza economica. Volente o nolente sono un musicista "colto." Questa coscienza mi obbliga ad avere un atteggiamento più vicino a Bela Bartok che a Charlie Parker, tanto per citare due miei eroi.

MC: Bhè punto di vista invidiabile. Ho sempre notato come la didattica "Jazz" si dimostri in qualche modo ingenua rispetto a molte cose. Penso ad esempio alle terze maggiori di Coltrane che fanno gridare al miracolo (mentre Ravel le utilizza nel 1928, Coltrane approda a Giant Steps 31 anni dopo... tanto per dire...). Oppure a "Take Five," col suo ritmo in 5/4 che scuote il jazz completamente dimentico della polimetria classica, che in musicisti come Bartok già da quaranta anni dava linfa al discorso ritmico, anche con sinergie transculturali. Oppure mi viene da pensare ai "Contrasts" registrati dallo stesso Bartok con Benny Goodman). Da didatta, cosa pensi dell'insegnamento di un linguaggio come il jazz, quali limiti trovi all'interno di un percorso standardizzato in pieno stile statunitense? Che spesso non prende in considerazione l'opera di stravolgimento, composizione, e sintesi operata dalle scuole europee fin dagli anni sessanta...

EC: L'idea che la storia sia cronologicamente lineare è almeno riduttiva, non penso che nell'arte ci sia evoluzione, sicuramente la musica di Claudio Monteverdi è un vertice, dopo di lui le cose sono cambiate e quel vertice espressivo è passato di moda. Negli Stati Uniti, jazz è sinonimo di popular music, che non è quello che si definisce, da noi, musica popolare, ma semplicemente quello che la gente ascolta: musica leggera e/o di consumo. L'insegnamento del jazz nelle scuole di musica americane è quindi riferito all'apprendimento di tecniche strumentali e teoriche che permettano allo studente di agire con sicurezza in un ambito musicale specifico e circoscritto. Per altro il conservatorio dalle nostre parti si è comportato in modo simile riferendosi però ad un modello sinfonico-lirico; solo recentemente le cose sono cambiate. Per esempio il saxofono e la chitarra, ma anche il clavicembalo, il mandolino o il flauto dolce, che non sono strumenti presenti nelle orchestre classiche, hanno avuto fino a pochi anni fa un trattamento didattico particolare. Il disastro è che questa concezione della didattica musicale che potremmo definire di "avviamento professionale" non corrisponde, nel nostro Paese, ad una professione!
Per cui sono convinto che tutto l'insegnamento, non solo quello musicale, abbia bisogno di un profondo ripensamento. La scuola non può essere il luogo dove si impara il lavoro, ma quello in cui si cresce e si diventa cittadini di un paese democratico, con un bagaglio conoscitivo che ci permetta di affrontare un mondo in continua trasformazione. In questo senso lo studio della musica è bene sia inserito all'interno delle scuole primarie, come alfabetizzazione.

MC: Che mi dici della tua esperienza da studente di Yoga? So che è una parte importante della tua vita, che insegni e che la pratica influenza anche il tuo modo di pensare il respiro e quindi il suono. Come si conciliano le due figure di didatta del sassofono e maestro di Yoga?

EC: Studio yoga da molti anni, ho iniziato a metà degli anni '70, su consiglio di Roberto Laneri, che in quel periodo era mio insegnante di saxofono. Le due discipline, musica e yoga, hanno convissuto per tutto questo tempo, alimentandosi a vicenda. La conoscenza di se stessi, del proprio corpo, delle sue possibilità e delle reali motivazioni mi sembrano gli elementi comuni. Molto recentemente, nel 2014, ho conseguito il titolo di insegnante di yoga, dopo un corso quadriennale, con tanto di tesi ed esame finale teorico-pratico, il mio maestro è stato Antonio Nuzzo. In questi anni non l'ho mai insegnato, sono stato reticente, non pensavo di essere all'altezza e soprattutto, lo yoga mi sembrava un luogo intimo e poco condivisibile. Poi da circa 2 anni lo insegno, ho 4 piccoli gruppi che seguo con passione e interesse. È stato molto naturale e sorprendentemente facile. Ho trovato molte analogie con l'insegnamento del saxofono, naturalmente per la dinamica del respiro, che nello yoga si chiama pranayama, ma anche per molti altri aspetti meno evidenti, la coscienza del proprio limite ad esempio. Mia moglie Cecilia condivide questo mio interesse, molto prima di me ha seguito un corso di formazione e da una decina di anni insegna yoga, con ogni probabilità lei mi ha dato la spinta necessaria ad intraprendere questa nuova strada.

MC: Fra il rapporto fra oriente e occidente mi viene da farti una domanda che riguarda Steve Lacy. Mi rendo conto di cominciare ad apprezzare la sua musica dopo 30 anni di lavoro sul suono. Di recente ho letto un libro di interviste di Steve Lacy ed una cosa mi ha colpito, la cronaca di un incontro con un maestro di Shakuachi che risponde ai complimenti alla sua musica in maniera definitiva, rispondendo appunto: "Musica? No, è solo pratica." Per certi versi in queste parole c'è secondo me la metafora del conflitto fra Arte ed individuo. Nella musica di Steve Lacy io percepisco una necessità non compiuta di purezza. Ti va di raccontare la tua esperienza con lui? So che in maniera "altra" è una fonte di ispirazione forte per te.

EC: Nel 1977 ho avuto la fortuna di conoscere e in qualche modo fare amicizia con Steve Lacy. Era un uomo eccezionale, nel senso che era molto diverso da tutti: non semplice ma disponibile, con un grande mondo interiore, scavando scoprivi che era disposto a condividerne una parte. Nel 1985 andai a trovarlo nella sua casa di Parigi, il mio scopo era di studiare il sax con lui. Abbiamo fatto un po' di colazione assieme, era mattina, poi mi ha chiesto di montare il sax soprano e di fare la nota più grave.
Ho eseguito.
Lui ha alzato le braccia e ha detto: non ti posso insegnare nulla, sai già tutto!
Non ci posso credere: ho preso l'aereo sono andato a Parigi; ho comprato dei croissant; ho fatto colazione con il mio futuro Maestro; e lui dopo una sola nota smonta tutto!

Comunque abbiamo passato tutto il giorno assieme. Abbiamo suonato, chiacchierato, lui mi ha dato dei consigli e delle fotocopie di suoi pezzi. Dopo ci siamo rivisti molte volte e in una occasione gli ho offerto la mia elaborazione su uno dei consigli che mi aveva dato, mi è sembrato contento e divertito. Anni dopo Pietro Tonolo, meraviglioso saxofonista del nord Italia, mi ha raccontato di aver visto nella casa di Steve a Parigi, appesa ad una parete come fosse un quadro, la mia elaborazione!

MC: Si ha l'impressione di un universo in continua trasformazione e ricerca. Forse il più grande insegnamento che un musicista può dare. Come percepisci il futuro? Quali progetti? Quali sogni?

EC: C'è poco da stare allegri -resistere, resistere, resistere -è una frase estrapolata da un discorso di Francesco Saverio Borelli, poi divenuta slogan, in un momento buio della nostra democrazia. Mi sembra si applichi perfettamente al momento attuale. Poi mi rendo conto che, al di fuori dei canali consolidati e ufficiali esistono una moltitudine dì realtà ricche di idee e possibilità, anche se non, evidentemente, estrinsecabili in un conto corrente. Naturalmente il nostro trio Rahsaan è tra i progetti e il desiderio è di portalo in giro il più possibile.

Foto: Andrea Mercanti

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